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| << | < | > | >> |Indice7 Introduzione STORIE DI NATURA 11 1. Yeti mito e realtà 13 2. La leggenda dell'Homo Selvadego 16 3. Gorilla, un cugino da salvare 19 4. I dinosauri del Pelmo 21 5. Gli stambecchi di re Vittorio Emanuele 23 6. Edelweiss, simbolo delle Alpi 26 7. Il leopardo di Ernest Hemingway 28 8. Il pino corazzato del Pollino 31 9. Il ritorno del lupo 33 10. Sulle tracce del leopardo delle nevi 36 11. L'orsa Jurka e i suoi fratelli 38 12. Avvoltoi alla riscossa 40 13. Naranjo de Bulnes, la Spagna verticale STORIE DI LUOGHI E DI VETTE 45 14. Il Cavallo Bernardo e i suoi vicini 48 15. GR20, l'anima della Corsica 50 16. I murales di Cibiana 52 17. L'urlo pietrificato di un dannato 54 18. Gli abissi del Burèl 57 19. Il Triglav, simbolo della Slovenia 59 20. Kalymnos, l'Egeo verticale 62 21. Olimpo, lasciamo un po' di spazio agli dei 64 22. Svolvaergeita, la capra verticale 67 23. La misteriosa Garet el Djenoun 69 24. Una vetta per il compagno Lenin 71 25. Nanga Parbat, montagna tragica 73 26. Annapurna, la dea dei camminatori 76 27. Namche, la capitale degli Sherpa STORIE DI PREGHIERA E DI FEDE 81 28. Preghiere sul Fujiyama 83 29. Kinabalu, la giungla verticale del Borneo 86 30. Mount St. Helens, ovvero l'inferno 89 31. El Capitan, l'oceano verticale 91 32. L'Aconcagua e la sua mummia 93 33. Mount Vinson, il Polo del freddo 95 34. San Lucano e la sua valle 98 35. Fra' Pietro, il papa della Majella 101 36. Il lago maledetto dei Monti Sibillini 103 37. Streghe in Val Camonica 106 38. Ujop Freinademetz, il Santo dei Ladini 108 39. Pellegrini intorno al Kailas 111 40. Il Papa che amava sciare STORIE DI STORIA DELL'UOMO 117 41. Sinai, da Mosè al turismo di massa 119 42. I graffiti dei Camuni 121 43. L'ultima camminata di Oetzi 125 44. Tiscali, la Sardegna di pietra 127 45. L'ultimo fendente di Orlando 129 46. Saraceni nelle valli occitane 131 47. Attraverso il Gran San Bernardo 134 48. Conquistadores sul Popo 137 49. Glen Coe, il massacro e le montagne 139 50. La strana roccia di Monsieur de Dolomieu 141 51. Fenestrelle, la Grande Muraglia del Piemonte 144 52. La baita di Andreas Hofer 147 53. John Muir, l'uomo della wilderness 149 54. L'osservatorio del professor Janssen 152 55. Colonnata: cave, anarchici e lardo 154 56. Sempione, la ferrovia e la strada 156 57. Indiana Jones e la suffragetta 159 58. Lagazuoi, talpe umane ed esplosivo 162 59. Re Alberto, che amava le montagne 164 60. Fuga sul Monte Kenya 167 61. Luis Trenker, il cinema della montagna 169 62. Valli e vette di Dino Buzzati 172 63. La terribile memoria del Vajont 175 64. Il sentiero che unisce le Dolomiti 177 65. Cannonate a seimila metri di quota 179 66. Un castello in cima all'Abruzzo 183 67. Torino, il museo delle Alpi 185 68. Alla caccia della nube marrone STORIE DI NEVE E DI SCI 191 69. Quei "legni" arrivati dal nord 193 70. Toni Sailer, il fulmine di Kitzbuhel 195 71. Le tre Coppe del Mondo di Gustav Thoeni 199 72. Il passo alternato di Stefania 201 73. Armin Zöggeler: muscoli, coraggio e medaglie STORIE DI MONTAGNE E DI ALPINISTI 207 74. Un ingegnere sul Gran Sasso 209 75. Sul Mont Aiguille, per volere del re 211 76. La vittoria e i litigi di Paccard e Balmat 215 77. Henriette e Marie sul Monte Bianco 217 78. La corda spezzata di Edward Whymper 220 79. Tita Piaz e il tricolore 222 80. Competizione sul Campanile Basso 224 81. Paul Preuss, il cavaliere solitario 228 82. Collezionisti di 4000 230 83. Il mistero di Mallory e Irvine 232 84. Civetta, la nascita del sesto grado 236 85. Eiger, alla conquista dell'Orco 237 86. Riccardo Cassin, mani da strapiombi 239 87. Un apicultore e uno sherpa sull'Everest 242 88. Il tricolore sventola sul K2 245 89. Tragedia sul Pilone Centrale 247 90. L'enigma del Cerro Torre 250 91. Il Cervino di Walter Bonatti 252 92. Un sindacalista in verticale 254 93. Galen Rowell, fotografo d'alta quota 256 94. Tre ore e un quarto sul Dru 260 95. Jerzy, dalle ciminiere all'Himalaya 262 96. Aria sottile sull'Everest 264 97. Manolo, la danza in verticale 266 98. Alison Jane, una mamma sulle grandi pareti 269 99. Nives, la donna degli "ottomila" 271 100. Alex Huber, pianoforte e strapiombi 274 101. L'ultimo ottomila? È un museo 277 Bibliografia |
| << | < | > | >> |Pagina 111. YETI, MITO E REALTÀNome: dremo o tschemo in Tibet, mi-ti nelle valli degli Sherpa, migio e beshung nell'Himalaya cinese, almas in Mongolia, yeti o "abominevole uomo delle nevi" in Occidente. Segni particolari: peloso e dall'andatura dondolante. Età: almeno uguale a quella dell' Homo sapiens. Dimensioni e peso: superiori a quelle di un uomo, come dimostra la profondità delle impronte nella neve e nel fango. Il carattere, invece, è mutevole. Normalmente timoroso di un incontro ravvicinato con l'uomo, il misterioso abitante dell'Himalaya può anche diventare aggressivo. Ne sa qualcosa Lhakpa Sherpeli, diciassettenne nepalese aggredita nel 1974 insieme ai suoi yak sui pascoli della valle di Gokyo. L'elenco delle vittime del bestione prosegue con gli ingegneri norvegesi Aage Thorberg e Jan Frostis, azzannati nel 1948 tra i monti del Sikkim. E con Reinhold Messner, l'eroe degli "ottomila", che nel 1986, nel Tibet orientale, viene attaccato da «una figura gigantesca su due gambe», dotata di «braccia possenti che pendevano fino a toccare le ginocchia», come racconta nel libro Yeti. Leggenda e verità. L'Occidente sa dello yeti da millenni. «Sui monti orientali dell'India si incontrano creature agilissime che camminano a quattro zampe o erette. La loro figura è simile a quella umana, e sono così veloci che è impossibile catturarli», scrive duemila anni fa Plinio il Vecchio. Misteriosi uomini coperti di pelo compaiono nelle cronache di viaggio in Asia pubblicate tra il Sei e il Settecento. Nel 1832, B.H. Hodson, primo residente britannico a Kathmandu, riferisce in una relazione che un cacciatore nepalese è stato spaventato da «un uomo selvaggio che si muoveva su due zampe, era coperto da un lungo pelo e non aveva coda». Tra i primi occidentali a scoprirne le tracce da vicino è l'alpinista ed esploratore britannico Eric Shipton, che nel 1961 fotografa delle grandi orme sul ghiacciaio di Menlung, nell'Himalaya nepalese. Fanno incontri analoghi, negli anni, alpinisti famosi come Walter Bonatti, il polacco Andrzej Zawada e l'inglese Don Whillans. Nel 1959, Edmund Hillary, conquistatore sei anni prima dell'Everest, organizza una spedizione scientifica, liquida come un falso in pelle di antilope lo "scalpo di yeti" conservato nel monastero di Pangboche e conclude che lo yeti è una creatura mitologica. Poco dopo, però, l'americano Peter Byrne ruba due dita della "mano di yeti" conservata nello stesso monastero e le fa analizzare a Londra, dove vengono definite "non totalmente umane". Qualcuno parla di un uomo di Neanderthal, altri del piccolo orso che tibetani, bhutanesi e baltì chiamano dremo (o tshemo). Ma la popolarità universale dello yeti rimane. Basta una passeggiata per le vie di Kathmandu, la capitale politica del Nepal e "capitale turistica" dell'Himalaya, per imbattersi in alberghi, agenzie di viaggio e trekking, ristoranti e negozi dedicati allo yeti. E basta un sondaggio alla buona tra i camminatori che visitano l'Himalaya per scoprire qual è il loro sogno segreto. Più che vedere da vicino l'Everest o entrare nei monasteri buddhisti, i trekker vorrebbero trovarsi davanti a una sagoma avvolta nella nebbia, o a un'impronta misteriosa nella neve. Forse lo yeti non esiste. Ma gli uomini ne hanno tremendamente bisogno. | << | < | > | >> |Pagina 132. LA LEGGENDA DELL'HOMO SELVADEGOAnche la Valtellina ha il suo Yeti. Nel più noto affresco che gli è stato dedicato, ha l'aspetto di un uomo dal corpo peloso, con una lunghissima barba, che tiene in mano una lunghissima clava. Accanto al volto è una specie di fumetto che recita: «E sonto un homo selvadego per natura, chi me ofende ghe fo pagura». L'affresco che ritrae l'Homo Selvadego è una delle opere d'arte più singolari delle montagne di Lombardia. Dipinto nel 1464, fa parte di un magnifico ciclo di affreschi (notevoli anche una Deposizione e un arciere) che ornano un palazzetto di Sacco, il più basso abitato della valle del Bitto di Gerola. L'edificio sorge in Contrada Vaninetti, a poche centinaia di metri dalla chiesa, sulla cui facciata si trovano altre notevoli pitture della stessa epoca. A realizzarlo sono stati Simone e Battistino Baschenis, esponenti di una famiglia di pittori originari di Averara, e che hanno lavorato in Valtellina, nella Bergamasca e in Trentino. Il palazzetto, dimenticato per secoli, è stato abitato da una famiglia contadina fino agli anni Ottanta, poi è stato acquisito dalla Comunità montana che ha sede nella vicina Morbegno, e adibito a museo. L'affresco è nella stanza che è stata utilizzata a lungo come fienile. Al riparo dalla luce del sole, in un ambiente asciutto grazie al fieno, ha mantenuto dei colori quasi inalterati nel tempo. La presenza anche sulle Alpi lombarde di una figura simile allo Yeti himalayano non deve stupire più di tanto. Anche in altre zone della Valtellina si sono conservate leggende che riguardano irsuti "uomini delle montagne" simili a quelli delle montagne nepalesi e tibetane. In altre valli, e in un affresco moderno a San Martino Val Masino, compare invece il Gigiàt, un incrocio fra un caprone e un camoscio, dal pelo lunghissimo, dal carattere irascibile e dalle dimensioni gigantesche. Nel più documentato studio dedicato all'Homo Selvadego, Il sapiente del bosco: il mito dell'uomo selvatico nelle Alpi, l'antropologo Massimo Centini ricorda come la leggenda del bestione sia presente in molte zone della catena montuosa. Il Selvadego della Valtellina diventa Sarvàn nel Cuneese, Urcat nel Canavese, Fanès oppure Om pelòs tra i Ladini delle Dolomiti, Omeon del Bosch a Bormio. Secondo Centini si tratta di una figura di origine celtica, presente in tutti i versanti della grande catena, che simboleggia la religiosità precristiana del mondo dei valligiani, e il loro rapporto privilegiato con le forze primordiali della natura. Intorno alla casa dell'Homo Selvadego, altre costruzioni conservano degli eleganti portali di pietra. Sacco, a pochi chilometri da Morbegno, può essere raggiunta anche a piedi lungo un piacevole sentiero segnato. Sul percorso si toccano le case di Campione, patria della Bona Lombarda, una pastorella fatta rapire nel 1432 dal capitano di ventura Brunoro da Parma, che si trasformò in una famosa combattente al soldo della Repubblica di Venezia. Oltre allo Yeti, la valle del Bitto ha anche la sua Giovanna d'Arco. | << | < | > | >> |Pagina 4514. IL CAVALLO BERNARDO E I SUOI VICINIMetropoli d'arte e cultura, Barcellona è anche una città dello sport. Sono state le Olimpiadi del 1992 a trasformare la metropoli catalana, prima sonnolenta, in un centro proiettato sul futuro. Scudetti, Coppe del Re, Champions League fanno del Barcelona Futbol Club - il Barca per chi sa di calcio - un mito a livello mondiale. Non tutti sanno, invece, che Barcellona è una città di escursionisti e alpinisti. Dagli anni Sessanta, cordate catalane hanno raggiunto l'Everest e gli altri "ottomila", hanno aperto vie nuove sul Monte Bianco e in Patagonia, e hanno lasciato il segno in tutte le catene montuose della Terra. Le pareti pirenaiche della Pedraforca e degli Encantats distano un paio d'ore di viaggio dalle Ramblas. Nel mondo campanilista dell'alpinismo spagnolo, baschi e aragonesi sono noti per la loro resistenza montanara. I catalani, invece, sono conosciuti per la loro eleganza su roccia. Un'arte che da generazioni si apprende su un massiccio dalla quota modesta, e molto più vicino dei Pirenei alla città. Il Montserrat, la "montagna segata" che si affaccia da ovest sulla città, e che culmina nei 1236 metri del Serrat de San Jeroni, una facile vetta che offre uno straordinario panorama. Alto e severo, ma a portata di mano dalla strade per Saragozza e Madrid, il Montserrat è stato frequentato per secoli da monaci ed eremiti, che hanno scavato celle e romitori, e costruito nei pochi spazi pianeggianti chiese, conventi e monasteri. Oggi il Monastero (Monestir) del Montserrat, è uno dei luoghi della fede più frequentati di Spagna. Costruito poco dopo il Mille su un terrazzo naturale a settecento metri di quota, ospita l'immagine della Madonna Nera patrona della Catalogna. Dal Monastero, che si raggiunge in funivia (l'Aeri), sentieri conducono verso le guglie di conglomerato dei Frares Encantats, delle Agulles, della Paret dels Diables e dei Flautats. Centinaia di torrioni formano un paesaggio spettacolare e fiabesco, che emoziona i turisti che arrivano da ogni parte del mondo. La torre più bella, simbolo dell'alpinismo catalano, è però il Cavall Bernat ("Cavallo Bernardo"), una guglia affusolata che si alza per una cinquantina di metri verso l'altopiano, ma precipita con un'altissima muraglia verticale verso la valle del Riu Llobregat con un'altissima muraglia verticale. Primi a salirlo, nel 1935, furono Josep Costa, Josep Boix e Carles Balaguer, tre alpinisti catalani inghiottiti da lì a poco dalla fornace della guerra civile. Chi è abituato alle fessure del granito o ai taglienti appigli del calcare non può che trovarsi a disagio sul conglomerato del Montserrat, che offre appigli levigati e arrotondati, e poche possibilità di assicurarsi. Chi ha imparato a salire su questa roccia sfuggente, però, è in grado di affrontare anche le pareti più delicate e friabili delle grandi montagne del mondo. | << | < | > | >> |Pagina 7125. NANGA PARBAT, MONTAGNA TRAGICAUna delle montagne più belle e crudeli della Terra si affaccia sulle pianure del Pakistan e la valle dell'Indo, dove una delle carovaniere più importanti dell'Asia è stata sostituita negli anni Settanta dal nastro d'asfalto della Karakorum Highway. Il Nanga Parbat, 8125 metri, segna il limite occidentale dell'Himalaya e si affaccia verso l'Hindu Kush e il Karakorum. La vicinanza alla pianura fa sì che la montagna, ogni estate, venga investita con particolare violenza dal monsone. Ben visibile anche dalla strada, straordinario spettacolo per i passeggeri degli aerei che collegano Islamabad con Gilgit e Skardu, il Nanga Parbat è una montagna relativamente accessibile. Comitive di trekker seguono il comodo sentiero che porta alla base della ciclopica parete Rupal. In varie valli sono nati dei piccoli lodge gestiti dalla gente del posto, intorno alla montagna sta nascendo uno dei più estesi parchi nazionali del Pakistan. Il Nanga Parbat, prima vetta himalayana a essere tentata dall'uomo, ha svolto un ruolo importante nella storia dell'alpinismo. Spesso, sui suoi fianchi, si sono svolte delle tragedie. Nel 1895, l'inglese Albert Frederick Mummery arriva ai piedi della montagna dal versante di Rupal, passa su quello di Diamir, scompare insieme a due compagni oltre i seimila metri di quota. Più tardi, l'epopea del Nanga parla soprattutto tedesco. Nel 1934, una spedizione austro-tedesca guidata da Willi Merkl e Willo Welzembach raggiunge i 7800 metri, poi una bufera uccide quattro alpinisti e sei sherpa. Quattro anni più tardi una gigantesca valanga seppellisce il campo-base di una nuova spedizione germanica, uccidendo sette alpinisti e nove portatori d'alta quota. Nel 1939, un altro team che vuole tentare la cima viene bloccato dallo scoppio della Seconda guerra mondiale. Tra gli alpinisti c'è Heinrich Harrer, che fuggirà da un campo di prigionia per dirigersi a piedi verso Lhasa. Nel 1953, è un grande alpinista tirolese, Hermann Buhl, a completare l'itinerario degli anni Trenta percorrendo, da solo, la interminabile cresta di neve e rocce che collega la Sella d'Argento alla cima. Il ritorno, scandito da allucinazioni e congelamenti, include un terribile bivacco. Tre bavaresi, Toni Kinshofer, Anderl Mannhardt e Sigi Löw, inaugurano nel 1962 sul versante di Diamir quella che oggi è la via più seguita della montagna. Nel 1970, i fratelli Messner, cordata di punta della spedizione diretta da Karl Herrigkofler, vincono la ciclopica parete Rupal, scendono senza materiale da bivacco né corda per il più facile ma pericoloso versante di Diamir. Alla fine della discesa il ventiquattrenne Günther scompare. Reinhold risale, lo cerca per un'intera giornata, riesce a stento a trascinarsi fino a valle. I poveri resti di Günther verranno individuati solo nel 2005. Tre anni dopo, una caduta in un crepaccio del versante di Rakhiot uccide l'alpinista gardanese Karl Unterkircher. Il soccorso ai suoi compagni di spedizione Walter Nones e Simon Kehrer commuove migliaia di italiani. Il volto della montagna crudele non cambia. | << | < | > | >> |Pagina99. NIVES, LA DONNA DEGLI "OTTOMILA"Vive ai piedi delle Alpi Giulie, in una casa tra i boschi, tra Tarvisio e il confine sloveno. Ha il fisico scattante e minuto dei grandi alpinisti himalayani. Fuma, non ha figli, e su questi dettagli le interviste si soffermano spesso. A stupire chi incontra per la prima volta Nives Meroi, però, sono l'entusiasmo, il sorriso, e la sua voglia di raccontarsi e spiegare. Nata alle porte di Bergamo, Nives arriva in Friuli a sette anni insieme alla famiglia. Si inserisce perfettamente in questa terra di frontiera, dove negli anni di Tito i graniciari, i militi di confine jugoslavi sono pronti ad arrestare gli alpinisti che varcavano senza permesso il confine. E dove invece le donne di Rate, il primo borgo sloveno al di là della frontiera, vengono a piedi a coltivare i loro campi rimasti in territorio italiano. A Tarvisio Nives conosce Romano Benet, forestale specializzato in catture di camosci e stambecchi, che diventa suo marito e il suo compagno di cordata ideale. Sulle montagne di casa i due compiono salite importanti come la prima invernale del Pilastro Piussi alla parete nord del Piccolo Mangart di Coritenza (con Alberto Busettini) e della Cengia degli Dei dello Jôf Fuart. L'avventura di Nives e Romano sugli "ottomila" inizia nel 1998 sul Nanga Parbat, e prosegue sullo Shisha Pangma e sul Cho-Oyu, saliti entrambi nel 1999. Nel 2003, la coppia sale l'Hidden Peak, il Gasherbrum II e il Broad Peak, tutti in Karakorum. Nel 2004, tocca al Lhotse, nel 2006 al Dhaulagiri e al K2, nel 2007 all'Everest e nel 2008 al Manaslu. Presso il grande pubblico diventa famosa grazie a Sulla traccia di Nives, un libro dello scrittore e alpinista Erri De Luca che esce nel 2005. Dopo le vittorie sul Dhaulagiri e sul K2, sembra che la Meroi possa diventare la prima donna al mondo a completare la collezione degli "ottomila". Ma il destino si oppone. Nel 2009, Nives e Romano devono rinunciare all'Annapurna, uno degli "ottomila" più pericolosi, a causa delle condizioni proibitive della neve. Più tardi, a poca distanza dalla vetta del Kangchenjunga, Romano si sente male, e Nives deve riportarlo al campo base. Seguono mesi di cure e la tragica morte di Luca Vuerich, amico e compagno di ascensioni della coppia, che nel gennaio del 2010 viene ucciso da una valanga sulle Giulie. Nell'aprile dello stesso anno, la collezione degli "ottomila" viene completata dalla coreana Oh Eun-Sun, che si aiuta con bombole di ossigeno sull'Everest e sul K2, e utilizza più volte elicotteri per spostarsi da una montagna all'altra. Un mese più tardi, e con uno stile migliore, arriva al traguardo la spagnola Edurne Pasaban. A Nives, che si è ritirata dalla gara nel 2009, il sorpasso non sembra pesare più di tanto. «Nives è l'alpinista più forte di tutti i tempi, ha salito le sue cime asfissianti senza uso di bombole di ossigeno e senza impiego di portatori d'alta quota», commenta Erri De Luca sul «Corriere della Sera». «Il fatto che l'alpinismo himalayano femminile sia diventato una corsa con come unico obiettivo il risultato mi ha fatto decidere di non giocare più», aggiunge Nives. | << | < | |