|
|
| << | < | > | >> |IndicePrefazione di Giulio Disegni 7 PARTE PRIMA Vita quotidiana nel ghetto di Torino sulla fine dell'Ottocento. In dialogo con mio padre 13 Infanzia serena (1910-1918) 25 Il mio ginnasio 43 Essere ebrei nella scuola fascista 55 Diario nella Casa di Riposo Ebraica di Torino. Appunti di vita quotidiana 63 PARTE SECONDA Nina Montedoro, un'indomita ebrea proletaria. Un'intervista registrata 81 APPENDICE L'antisemitismo nella storia. Lezione agli studenti nel Teatro Civico di Saluzzo, 22 marzo 1985 117 |
| << | < | > | >> |Pagina 13La memorialistica sulla minuta vita quotidiana, personale, familiare o di gruppo, degli ebrei nel ghetto di Torino è estremamente povera. Ai 2600-2700 abitanti ammucchiati nell'isolato del Beato Amedeo, di proprietà del Regio Ospedale di Carità, non interessava lasciare relazioni sulle proprie sofferenze e sulla propria abiezione. Ai non ebrei, che vedevano quel brulichìo di vita dall'esterno, con scarsa curiosità mista a disprezzo o ironia, il ghetto appariva quale lo descrivono i funzionari sabaudi preposti al suo funzionamento: «[...] Sudicia per natura e per incuria è la gente israelita, e basta porre il piede nei loro cortili, su per le scale, e nella maggior parte delle abitazioni perché il senso dell'odorato rimanga offeso da un insopportabile fetore, e quel della vista dalle frequenti sozzure...» (Il Vicario di Politica e Polizia Della Valle, 1 giugno 1823. Archivio di Stato di Torino. Materie Ecclesiastiche. E. n. 5). Non meno ripugnante lo dipinge Angelo Brofferio, che pure fu appassionato peroratore della causa dell'emancipazione ebraica: «[...] Non avete mai veduto quell'umano formicaio in cui i legislatori del Nuovo Testamento avevano inchiodato il Testamento vecchio? [...] Un cortile oscuro, umido, sporco, dove si arrabattavano venti o trenta individui mal vestiti, colla barba lunga, luridi, scarni, pezzenti... una scaletta oscura, tortuosa, coi gradini rotti, in perfetta armonia col cortile» («I miei tempi», Tip. Naz.le Biancardi, 1859, pgg. 135-145-146). Purtroppo, quando vivevano ancora i nostri bisnonni o nonni non esistevano i registratori per raccogliere almeno i ricordi di quelli – i più poveri, ed erano la maggioranza – che o nacquero ancora nel ghetto o che continuarono a viverci anche dopo l'emancipazione. Perciò mi pare che rivesta una certa importanza storica e sociologica la testimonianza, abbastanza esauriente e lucidissima, di mio padre, Amadio Marco Levi, sulla sua infanzia e adolescenza, da me registrata in momenti diversi fra il 1971 e il 1978. Avendo l'intenzione di estendere il campo dell'indagine sul vecchio ambiente ebraico piemontese, ho registrato anche alcune ebree ospiti della Casa di Riposo di Torino e una vecchia zia. I risultati sono stati scarsi, tuttavia ritengo che sia interessante tramandare almeno i frammenti più significativi di quest'ultimo materiale, che riporto come introduzione. Per quanto riguarda la vita di sacrificio che si conduceva nel ghetto, emblematica è la storia del nonno di Amalia Levi Sacerdote (nata a Torino nel 1887): «Le posso raccontare di mio nonno. Mio nonno si chiamava Aronne Sacerdote e mia nonna Rachele. Mio nonno era nato nel ghetto di via Des Ambrois, e quando si sono sposati non c'era più una stanza per loro, perché tutti nel ghetto si sposavano e non c'erano camere a sufficienza per gli sposi. Per star soli loro due han dovuto prendere un gic, uno sgabuzzino. Ma mio nonno era alto e robusto, non poteva più resistere nel ghetto. Avevano bisogno di star soli. Allora si sono aggiustati così: hanno preso un carro e un cavallo e ci hanno caricato sopra percalle e altre stoffe di cotone, e viaggiavano da Torino a Genova e da Genova a Torino e vendevano le stoffe ai contadini. E quando non trovavano da dormire nelle case dei contadini o chi lo sa, dormivano sul carro. «Una volta, passando dai Giovi, faceva tanto freddo e a mia nonna si sono congelate tre dita e gliel'hanno dovute amputare. In America c'è il quadro di mia nonna – l'ho mandato a mio figlio che è in America – dove si vede che tiene qualcosa sopra la mano perché non si veda che è mutilata». Il rigoroso rispetto della Torà dava la forza interiore per sopportare dolori e difficoltà. Rievoca Eugenia Debenedetti (nata a Castagnole Lanze nel 1880): «Mio papà si chiamava Simone ed è morto nel 1885 a 49 anni tra Rosh Hashanà e Kippur. Era religiosissimo. Mio papà non si è mai fatto fotografare, perché la religione ebraica nei dieci comandamenti dice: non adorare immagine alcuna. Era un convinto. E io l'unico quadro che ho è quello delle Tavole della Legge, che è ancora del mio bisnonno». Lidia Montagnana (nata a Torino nel 1891) ricorda come la sua famiglia avesse sofferto un caso analogo a quello celebre di Edgardo Mortara: «Mio nonno materno, Davide Segre, morto nel 1900 all'età di circa 65 anni, aveva un negozio di orefice a Pinerolo. Anticamente avevano un negozio a Cavour e a suo padre avevano rubato la cassaforte, che poi ritrovarono sul greto del fiume. Rubarono pure la sorella di mio nonno, Deborah. Sai che una volta i preti rubavano i bambini ebrei per farli cattolici. E portarono in Francia la bambina rubata e i genitori hanno dovuto fare tanti traffici per riaverla. Lei poi si è sposata e ha avuto figli e nipoti».
Il caso era stato segnalato a suo tempo dalla rivista «Archives
Israélites» (1845, VI, pg. 913), con una versione un po' diversa e
forse più esatta. I bimbi Segre battezzati da una vicina cristiana
erano stati due: una bambina, che, per essere sottratta alle autorità
ecclesiastiche, fu affidata a un parente e nascosta in un luogo malsano, per cui
contrasse una malattia che l'afflisse tutta la vita; e un
bimbo che fu portato in salvo a Lione da un amico ebreo.
I ricordi giovanili di Amadio Marco Levi (nato a Dronero il 21 gennaio 1882 e morto a Torino l'11 maggio 1978) sono qui riferiti con fedeltà. Tuttavia si è ritenuto opportuno cambiare la disposizione di alcuni episodi, esclusivamente per dare all'esposizione maggiore rigore cronologico e chiarezza. Gli elementi fondamentali del racconto sono, a nostro parere, la povertà, l'aspirazione allo studio, la solidarietà, la semplicità dei costumi, le proiezioni le più diverse nel mondo del lavoro, lo spirito ebraico. «Mia mamma era Enrichetta Gentile Levi e mio papà Daniele Levi. Erano tutti e due a servizio in casa Pugliese, una famiglia ricca, che abitava in corso Re Umberto 2, angolo piazza Solferino. Mia madre era creada (domestica), come si diceva allora. Lì si conobbero e si sposarono nel 1879. Presto si trasferirono a Saluzzo, dove mio papà girava per i mercati vendendo non so che cosa, forse stoffe, e svolgeva funzione di shammash [inserviente] nel Tempio. Nell'interno della copertina del libro delle orazioni [di rito italiano, tradotto da Samuele Davide Luzzatto] sono scritte in ebraico e in italiano le date degli eventi della famiglia. Il papà era nato il 10 luglio 1846 e la mamma il 15 dicembre 1844 a Carmagnola. A Saluzzo morì il papà il 1 Nisan, 25 marzo 1887. Ebbero tre figli: io ero il maggiore, seguiva Lino [Salvatore, morto in campo di sterminio nazista] nato nel 1883, e Lazzaro nato nel 1886. Io e Lino siamo nati a Dronero, perché mia mamma, per essere meglio assistita, andò a partorire in quella città, dove abitava la mia madrina, magna Bona, con suo marito barba Menachem. Avrò avuto due anni e conservo una vaga idea di una carrozzella tirata da un cavallo che faceva il viaggio tra Saluzzo e Dronero. Nel libro di preghiere sta pure scritto da mia madre: "anniversario del caro padre Samuel Levi, capo del mese di Canucà". Mi ricordo che il nonno materno fabbricava con foglie d'oro delle specie di ghiande, chiamate "dorini", con le quali si facevano delle collane vendute poi dagli orefici. Dei fratelli di mio padre ricordo Isacco, Salomone, e un altro che mi pare si chiamasse Davide ed era ricevitore del registro prima a Fenestrelle e poi a Pavullo nel Frignano dalle parti di Lodi. Era un bell'uomo ma credo sia finito male. Di Saluzzo ho brutti ricordi perché vi morì il papà. Egli era molto religioso. Faceva lo shammash per guadagnare qualche soldo per mantenere noi che eravamo piccoli. Ci faceva pregare abbastanza. Scriveva bene in ebraico: le sue annotazioni erano quasi tutte in ebraico, anche per i suoi affari. Mia mamma sapeva scrivere poco in ebraico. Io già all'asilo leggevo e scrivevo abbastanza bene in ebraico, a tre anni, ma non ebraico corsivo. Non credo che mio padre scrivesse in corsivo. Usava molte parole in ebraico parlando in casa. Ma non ricordo bene, perché avevo quattro anni quando è morto. A Saluzzo io e mio fratello Lino abbiamo frequentato l'asilo infantile ebraico, con la maestra Levi. Era brava, ma un giorno – non so cosa fosse successo – forse i bambini si erano tirati per i capelli, per punirli accese un fuoco vicino alla cattedra e voleva che Lino, che aveva appena tre anni, vi si sedesse sopra. Mi fece spaventare e ne conservo ancora l'impressione. Alla morte di mio padre, nel 1887, la mamma si trasferì a Torino con i tre figli piccoli, perché a Torino abitavano i suoi fratelli, che avrebbero potuto aiutarla. La sua era una famiglia di dieci figli, ed aveva abitato prima a Moncalieri, da dove poi i figli si erano sparpagliati a Torino e altrove. | << | < | > | >> |Pagina 35Tra il 1915 e il 1918 e oltre, la nostra infanzia, come quella di milioni di altri bambini, fu segnata dalla partecipazione dell'Italia alla Prima guerra mondiale. I ricordi sono tuttora vivissimi, dall'angoscia della mamma che temeva che papà fosse chiamato alle armi, alla scarsezza di viveri, all'oscuramento delle strade, ai dirigibili nel cielo, all'arrivo a Torino prima delle donne venete profughe dalle loro terre invase e bombardate, e più tardi, dei soldati mutilati in varie parti del corpo, soprattutto agli arti inferiori e superiori.Le discussioni in casa della nonna contro gli arricchiti di guerra e l'entusiasmo degli zii per il socialismo liberatore degli sfruttati, mi sono rimasti impressi nella memoria e particolarmente i riferimenti alle grandiose, audaci e spesso pericolose manifestazioni popolari per il pane e contro la guerra, con le mitragliatrici della polizia che senza pietà sparavano sulla folla nei quartieri operai durante gli scioperi proprio contro la fame e la guerra. Tali manifestazioni avvenivano soprattutto nei quartieri più popolari, ad esempio alla barriera di Milano, e come io stessa vidi nel 1917 in via Villafranca (oggi via Dante di Nanni) in borgo S. Paolo, con due file di mitragliatrici schierate dalla polizia al servizio dei padroni. Seppi poi che in quella occasione spararono e uccisero alcuni lavoratori, dei quali i giornali di allora non si degnarono di riportare neppure i nomi. Ricordo nettamente l'incendio della chiesa di San Bernardino in Borgo San Paolo, il fumo, la rabbia dei lavoratori e delle loro famiglie per la scoperta, nelle cantine della chiesa, di abbondanti scorte di viveri che furono in parte saccheggiate dalla folla. Corse voce che l'incitamento fosse venuto da un certo «Rito» Montagnana, riferendosi invece a mia zia Rita, attivissima socialista; però, forse perché si scoprì che «Rito» era una ragazza, arrestarono il fratello diciannovenne, Mario, che rimase rinchiuso in carcere per vari mesi. Mario raccontò più tardi, nell'esilio in Messico durante la Seconda guerra mondiale, questi avvenimenti nel libro Ricordi di un operaio torinese. Mio padre non fu riformato, ma, per fortuna, almeno esonerato temporaneamente dal servizio militare, forse per la sua magrezza e la forte miopia, ma doveva portare sempre, ben visibile, una fascia tricolore sulla manica sinistra dell'abito. Ci raccontava quanti giovani colleghi del suo ufficio, nella sede centrale della Banca Commerciale Italiana dove era impiegato, erano a poco a poco richiamati alle armi e inviati al fronte, sostituiti nel lavoro da donne, come pure avveniva nelle fabbriche, nel servizio tranviario e in altre occupazioni sino allora soltanto maschili. Non ho mai dimenticato un episodio triste che mi ha toccato. Papà mi scattava spesso fotografie e ne aveva mostrata una di me sui cinque anni, paffutella e ricciolina, a un giovane collega in partenza. Questi pregò il papà che gliela donasse, perché desiderava portarsela al fronte come portafortuna. Ma purtroppo anch'egli, come altri colleghi di banca, cadde sul campo di battaglia. Il cibo era tesserato e scarseggiava; si parlava di speculatori che si arricchivano con la borsa nera e con la produzione di forniture di guerra ed erano soprannominati da tutti «pescicani» per la loro voracità. Disprezzati erano anche gli «imboscati», ossia coloro che avevano tutti i requisiti per essere chiamati alle armi, ma per raccomandazioni o perché ricchi o amici di potenti vivevano tranquillamente nelle loro belle case. La mamma con i suoi quattro bambini, Enrichetta detta Riki, Giorgina detta Giangi, Arturo ed Emilio soprannominati rispettivamente Ciunu e Jecia, che nel '17, anno in cui la fame già cominciava a preoccupare, avevano rispettivamente otto, sette, cinque e tre anni, era sempre affannosamente alla ricerca di alimenti fuori tessera. Con altre donne andava anche alla caserma vicina ogni volta che correva voce di una probabile distribuzione alla gente di grosse forme rotonde di pane militare, fatto di poca farina bianca e molta di granoturco e, si diceva, anche con un po' di segatura, come del resto il pane tesserato delle panetterie. Ricordo che per ottenere un po' di carne le donne facevano lunghe code dinanzi a quelle macellerie dove si diceva fosse arrivato un rifornimento; vi si recavano all'alba o anche nel cuore della notte e stavano ore e ore in piedi, al caldo estivo come al freddo invernale. In quel periodo, la mamma comprava, pur di avere carne, anche quella di cavallo e, se lo trovava, qualche fetta di prosciutto, entrambi cibi proibiti dalla religione ebraica e che assaggiavamo per la prima volta. Per lo zucchero, di cui la razione della tessera era più che mai insufficiente per garantire la salute e la crescita dei bambini, ci venne in aiuto lo zio Augusto Muggia, marito della sorella Celeste della nonna, che gestiva la farmacia «Porta Susa», all'inizio di corso Francia. Infatti per legge le farmacie ricevevano dosi superiori di zucchero per la confezione delle medicine che a quell'epoca per la maggior parte non erano pronte in scatole come oggi, ma venivano confezionate, seguendo la ricetta medica, in un apposito laboratorio nel retro della farmacia con tanto di bilancino e pestello. Un grande contributo al nostro rifornimento di zucchero lo diede anche papà richiedendone un po' in ogni drogheria che incontrava nel suo quotidiano percorso a piedi tra casa e la Banca Commerciale. Lo ricordo benissimo quando, appena rientrato, si avvicinava al tavolo da pranzo e faceva uscire dalle tasche, dinanzi a noi in curiosissima attesa, tanti minuscoli pacchettini avvolti in carta bianca contenenti quel poco che con tanta pazienza era riuscito a raggranellare qua e là. Un vocabolo che nel cuore della guerra entrò nelle conversazioni dei torinesi fu «profugo». Si parlava molto di questi nuovi arrivati dalle zone di guerra più pericolose, per lo più donne o invalidi, costretti a fuggire dinanzi all'avanzata degli eserciti nemici. Le donne, le «venete» come i torinesi spesso le indicavano, erano ovviamente in cerca di lavoro e si distinsero soprattutto come ottime donne di servizio e per la loro pulizia. Alcune erano già vedove di guerra, altre erano state messe incinte da qualche militare, austriaco o italiano. La maggior parte di esse si sposò con un torinese e rinunciò a tornare nelle terre di origine dove era passata la distruzione bellica.
Non mi pare che la nostra maestra abbia mai fatto durante le
lezioni propaganda sulla guerra, sull'eroismo dell'esercito italiano,
sul dovere di noi bambini di fare sacrifici per garantire la vittoria
sul nemico. Ricordo invece le poche prove di evacuazione in caso
di bombardamenti, che per fortuna non si verificarono mai. A un
determinato suono, un fischio o la campana, tutti uscivamo in fila
dalle aule, che erano quelle della Casa Benefica, e ci fermavamo in
piazza Benefica guardando il cielo. Una volta un dirigibile, che a
me parve enorme, rimase per alcuni giorni sospeso nel nostro pezzo
di cielo; in città in alcune zone avevano disteso in aria lunghe reti
che, si diceva, dovevano trattenere i dirigibili, l'arma misteriosa e
quindi più temibile dei lontani cannoni. Segno tipico dello stato di
guerra furono anche le luci oscurate con un colore violaceo, sia per
le strade che nelle abitazioni.
|