Copertina
Autore Elliot Aronson
Titolo L'animale sociale
EdizioneApogeo, Milano, 2006 , pag. 542, cop.fle., dim. 137x209x31 mm , Isbn 978-88-503-2409-5
OriginaleThe Social Animal
EdizioneWorth, New York, 2004
TraduttoreSilvia Codo
LettoreLuca Vita, 2006
Classe psicologia , sociologia
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Indice

Presentazione dell'edizione italiana                  xi
di Luciano Arcuri

Perché ho scritto questo libro                       xxi

Ringraziamenti                                     xxvii

Capitolo 1
Che cos'è la psicologia sociale?                       1

Una definizione                                        5
Chi si comporta in modo stravagante
    non è necessariamente pazzo                        9

Capitolo 2
Il conformismo                                        13

Che cos'è il conformismo?                             19
Fattori che favoriscono il conformismo                24
Ricompense e punizioni versus informazione            28
Livelli di reazione all'influenza sociale             35
L'obbedienza come forma di acquiescenza               41
Il testimone come conformista                         47
Gli esperimenti e l'etica                             55

Capitolo 3
Comunicazioni di massa, propaganda e persuasione      57

Il contagio mediatico                                 61
I politici come intrattenitori                        64
L'efficacia degli appelli dei media                   65
Educazione o propaganda?                              70
Le due vie principali della persuasione               72
La fonte della comunicazione                          73
La natura della comunicazione                         82
Le caratteristiche del pubblico                      100
Conclusioni                                          106

Capitolo 4
La cognizione sociale                                115

Come diamo senso al mondo?                           117
L'influenza del contesto sul giudizio sociale        122
Le euristiche del giudizio                           134
La categorizzazione e gli stereotipi sociali         143
La memoria ricostruttiva                             148
La memoria autobiografica                            151
Il carattere conservativo dei processi
    cognitivi umani                                  157
L'influenza degli atteggiamenti e delle credenze
    sul comportamento                                160
Tre possibili distorsioni nei processi
    di attribuzione                                  168

Capitolo 5
La giustificazione di sé                             183

Comportamenti di riduzione della dissonanza
    e comportamenti razionali                        195
La dissonanza come conseguenza di una decisione      197
Alcuni esempi storici delle conseguenze delle
    decisioni                                        200
L'importanza dell'irrevocabilità                     204
La psicologia della giustificazione insufficiente    209
La giustificazione degli sforzi                      226
La giustificazione della crudeltà                    230
La psicologia dell'inevitabilità                     236
L'importanza dell'autostima                          240
Disagio o autopercezione?                            243
Effetti fisiologici e motivazionali della dissonanza 245
Applicazioni pratiche della teoria della dissonanza  247
Il rapporto fra riduzione della dissonanza e cultura 255
L'uomo non può vivere di sola consonanza             255

Capitolo 6
L'aggressività                                       257

Una definizione di aggressività                      258
L'aggressività è istintiva?                          259
L'aggressività è utile?                              264
Le cause dell'aggressività                           273
Come ridurre la violenza                             298

Capitolo 7
Il pregiudizio                                       309

Gli stereotipi e il pregiudizio                      311
Stereotipi e attribuzioni                            319
Biasimare la vittima                                 324
Pregiudizio e scienza                                326
Gli effetti impercettibili del pregiudizio           328
Il pregiudizio e i media                             336
Le cause del pregiudizio                             340
Le leggi possono cambiare le consuetudini            355
L'interdipendenza: una possibile soluzione           364

Capitolo 8
La simpatia, l'amore e la sensibilità interpersonale 375

Gli effetti delle lodi e dei favori                  379
Gli attributi personali                              385
Somiglianza e attrazione                             397
Apprezzare gli altri ed essere apprezzati:
    l'importanza dell'autostima                      398
Il guadagno e la perdita della stima                 402
L'amore e l'intimità                                 409
Intimità, autenticità e comunicazione                418
Le caratteristiche della comunicazione efficace      423

Capitolo 9
La psicologia sociale come scienza                   429

Che cos'è il metodo scientifico?                     431
Dall'ipotesi alla sperimentazione                    432
L'importanza dell'assegnazione casuale alla
    condizione                                       438
Le difficoltà della sperimentazione nell'ambito
    della psicologia sociale                         442
Problemi etici                                       447
Che cosa potrebbe accadere se si facesse
    un cattivo uso delle nostre scoperte?            453

Glossario                                            455
Note bibliografiche                                  465
Indice dei nomi                                      517
Indice analitico                                     535

 

 

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Pagina XXI

PERCHÉ HO SCRITTO QUESTO LIBRO


Nel 1970 venni invitato a trascorrere un anno accademico ('70-'71) all'Università di Stanford in California presso il Center for Advanced Study in Behavioral Sciences. Durante quell'anno mi vennero offerti tutto l'appoggio, l'incoraggiamento e la libertà desiderabili e mi venne assicurato che non avrei dovuto rispondere a nessuno del mio operato. In quel luogo, su una bellissima collina più o meno a trenta chilometri da San Francisco (la mia città preferita), con la prospettiva di avere davanti un intero anno per fare qualsiasi cosa desiderassi, decisi di scrivere questo libro. Circondato dalla bellezza della campagna e tanto vicino a una città stimolante come San Francisco, perché mai decisi di chiudermi in uno stanzino a scrivere un libro? Non ero pazzo, né avevo bisogno di denaro: l'unica ragione per la quale decisi di scrivere questo libro è che una volta mi ero reso conto di aver detto a una classe di studenti del secondo anno che «la psicologia sociale è una scienza giovane», e questo mi aveva fatto sentire un vigliacco.

Permettetemi di spiegare che cosa intendo: noi psicologi sociali abbiamo il vizio di dire che ci occupiamo di una scienza giovane – e di fatto la psicologia sociale è una scienza giovane. Infatti, sebbene ci siano stati osservatori acuti che hanno fatto affermazioni profonde e ipotesi interessanti sui fenomeni sociali fin dai tempi di Aristotele, nessuna di esse venne mai seriamente verificata fino al secolo XX. Da quel che mi risulta, i primi esperimenti sistematici nell'ambito della psicologia sociale vennero condotti da Triplett nel 1898 (misurò gli effetti della competitività sul rendimento), ma fu solo verso la fine degli anni '30 che la psicologia sociale sperimentale prese veramente il via, soprattutto grazie all'opera di Kurt Lewin e dei suoi studenti. Allo stesso modo, è interessante notare che, sebbene alcuni dei principi di base dell'influenza sociale fossero stati formulati per la prima volta da Aristotele nel 350 a.C., fu solo intorno alla metà del XX secolo che tali principi vennero sottoposti a una verifica sperimentale da Carl Hovland e colleghi.

Sotto un altro punto di vista, tuttavia, affermare che la psicologia sociale è una scienza giovane equivale a un clamoroso tentativo di tirarsi indietro, perché è un modo di chiedere agli interlocutori di non avere troppe aspettative nei nostri confronti. Nello specifico può costituire il nostro tentativo di eludere la responsabilità ed evitare i rischi che si possono correre al momento di applicare le nostre scoperte ai problemi del mondo in cui viviamo. In questo senso, dichiarare che la psicologia sociale è una scienza giovane equivale a dire che noi non siamo ancora pronti per dire qualcosa di importante, utile e pertinente.

Lo scopo di questo lavoro è quello di illustrare senza alcun pudore (e con qualche preoccupazione) l'applicabilità della ricerca sociopsicologica ad alcuni dei problemi che tormentano la società contemporanea. La maggior parte dei dati che verranno presentati in seguito si basa su esperimenti, mentre la maggior parte delle spiegazioni e degli esempi è tratta da problemi sociali d'attualità, quali il pregiudizio, la propaganda, la guerra, l'alienazione, l'aggressività, i conflitti politici. Questa dualità riflette due delle mie convinzioni personali (convinzioni che mi sono molto care): la prima è che il metodo sperimentale è il metodo migliore per comprendere un fenomeno complesso. In campo scientifico è una verità lapalissiana dire che l'unico modo per conoscere realmente il mondo è ricostruirlo, ovvero che per comprendere veramente il rapporto di causalità tra due fenomeni, c'è bisogno di andare oltre la semplice osservazione e si deve riuscire a riprodurre il primo fenomeno per poter affermare con certezza che è la vera causa del secondo. D'altra parte sono anche convinto che l'unico modo per assicurarsi che i rapporti di causalità svelati in laboratorio sono validi sia quello di portarli fuori dal laboratorio, nel mondo reale. Pertanto, in qualità di scienziato mi piace lavorare in laboratorio, ma in qualità di cittadino mi piace anche avere a disposizione delle finestre attraverso le quali poter osservare il mondo. Tali finestre, chiaramente, funzionano in entrambe le direzioni: spesso infatti traiamo ispirazione dalla vita di tutti i giorni per formulare le ipotesi, ma queste si possono testare al meglio soltanto nelle condizioni sterili del laboratorio. Allo stesso tempo, tuttavia, per cercare di evitare di rendere sterili anche le nostre idee, tentiamo di portare le scoperte fuori dal laboratorio per vedere se nel mondo reale possono funzionare.

L'idea implicita che si nasconde dietro queste parole è che, personalmente, credo che la psicologia sociale sia estremamente importante e che gli psicologi sociali possano svolgere un ruolo fondamentale nel trasformare il mondo in un posto migliore. In realtà, nei miei momenti di maggior ambizione, alimento la mia credenza segreta secondo cui gli psicologi sociali si trovano nella straordinaria posizione di poter esercitare un impatto profondo e benefico sulle nostre vite offrendoci la possibilità di comprendere meglio fenomeni importanti, quali il conformismo, la persuasione, il pregiudizio, l'amore e l'aggressività. Ora che ho svelato la mia credenza segreta posso soltanto promettere di non cercare, nel corso del libro, di inculcarla nella mente dei lettori e di lasciarli, invece, liberi di decidere, una volta conclusa la lettura, se gli psicologi sociali hanno scoperto o potranno mai scoprire, se non un qualcosa di straordinariamente importante, quantomeno un qualcosa di utile.

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Pagina 57

CAPITOLO 3

Comunicazioni di massa, propaganda e persuasione


Negli ultimi trent'anni, la grande diffusione dei mezzi di comunicazione di massa ha trasformato il mondo in un villaggio globale; tale fenomeno si può riscontrare soprattutto negli Stati Uniti, dove quasi ogni famiglia possiede almeno un televisore e, di conseguenza, l'intera popolazione è virtualmente esposta alle stesse informazioni non appena diventano disponibili. Ecco alcuni dati concreti relativi al fenomeno e alle sue conseguenze. Nel 1977, la televisione americana presentò la prima miniserie di successo: più di 130 milioni di telespettatori accendevano la tv per vedere almeno una delle puntate di Radici, la versione televisiva del romanzo di Alex Haley che segue per diverse generazioni la storia di una famiglia africana deportata negli Stati Uniti. La serie riscosse un enorme successo perché era uno strumento di diffusione della storia dei neri e perché contribuì a far nascere nelle persone di colore un sentimento di orgoglio nei confronti del proprio patrimonio culturale. Sei anni più tardi, la stessa rete televisiva mandò in onda The day after - Il giorno dopo, un film prodotto per la televisione che descriveva le conseguenze di un attacco nucleare agli Stati Uniti. Nel novembre del 1983, furono più di 40 milioni i telespettatori che seguirono il programma, molti di più di quanto era stato previsto. Alcune settimane prima che venisse trasmesso, Il giorno dopo era stato sulle prime pagine di tutti i giornali nazionali e diversi attori di successo, fisici e leader politici (compreso il presidente) avevano espresso le proprie opinioni sul film e sugli effetti che avrebbe potuto avere sul pubblico.

E infatti l'impatto del film fu davvero notevole, anche su chi ne aveva soltanto sentito parlare. Dopo la sua trasmissione, gli americani iniziarono a pensare molto di più alla guerra nucleare e a considerarla una possibilità molto più reale; pensarono anche che sopravvivere a un evento del genere sarebbe stato molto più difficile e che la sopravvivenza non sarebbe comunque stata una cosa piacevole. Inoltre, tutti affermarono di voler collaborare per evitare che si realizzasse tale eventualità, sostenendo iniziative di denuclearizzazione e campagne antinucleari. Ovviamente, l'impatto de Il giorno dopo fu molto maggiore sulle persone che lo videro rispetto a quelle che non lo videro, ma quel che più colpisce è che un programma di due ore trasmesso in prima serata ebbe un'influenza notevole sia sugli atteggiamenti degli americani che sulla loro volontà di impegnarsi seriamente per contrastare la minaccia di una guerra nucleare.

Ma un programma televisivo può anche avere effetti estremamente negativi, frenando il desiderio delle persone di agire in determinate situazioni. Ne è un esempio la messa in onda, alcuni anni fa, del film Consegne a domicilio che raccontava la storia di una ragazza, vittima di uno stupro, che decideva di denunciare il proprio aggressore e che per questo correva il rischio di vivere un'esperienza tanto drammatica quanto lo stupro stesso. Lo stupratore, infatti, con l'aria innocente di un bambino, riusciva a difendersi dicendo che la ragazza l'aveva sedotto. Nelle settimane che seguirono la trasmissione del film, il numero di stupri denunciati alla polizia diminuì considerevolmente, forse perché le vittime, influenzate da ciò che avevano visto in tv, temevano che, se fossero andate alla polizia, nessuno avrebbe loro creduto.

Nel 1995, decine di milioni di telespettatori rimasero per mesi incollati alla tv per seguire il processo a O.J. Simpson. Durante quel periodo, avvocati di ogni sorta sfilavano davanti alle telecamere per dare il proprio giudizio da esperti su ogni aspetto del procedimento e sembrava che i telespettatori fossero insaziabili: non si stancavano mai di vedere il processo. Quando, infine, si giunse al verdetto e Simpson venne dichiarato non colpevole, l'America si divise in due: la maggior parte delle persone di colore pensava che fosse stato emesso un verdetto giusto, mentre i bianchi dicevano che si trattava di un errore giudiziario. Era come se gli appartenenti alle due razze avessero visto due processi diversi.

Poi c'è l'11 settembre. Quante volte i telespettatori hanno visto il crollo delle Torri Gemelle? Le immagini del crollo, dei testimoni attoniti, degli eroici soccorritori e del dolore dei familiari sono impresse nelle menti degli americani e hanno avuto un ruolo fondamentale nel far nascere la paura, la rabbia nei confronti dei terroristi, nell'alimentare il patriottismo e il desiderio di andare in guerra degli americani e, purtroppo, per alcune persone, hanno anche contribuito a fomentare ingiustificati pregiudizi contro i musulmani.


Tentativi di persuasione. È ormai una verità lapalissiana dire che viviamo nell'era delle comunicazioni di massa, anzi si potrebbe addirittura dire che viviamo in un'era caratterizzata da tentativi di persuasione di massa. Ogni volta che accendiamo la radio o la televisione, ogni volta che apriamo un libro o un giornale troviamo qualcuno che cerca di educarci, di convincerci ad acquistare un determinato prodotto, di persuaderci a votare per un certo candidato o a condividere le sue idee su ciò che è giusto, vero o bello. Tali tentativi sono ancora più espliciti nel caso della pubblicità: fabbricanti di prodotti praticamente identici (come l'aspirina, il dentifricio o i detersivi) spendono enormi somme di denaro per persuaderci a comprare il loro prodotto. Ma non è necessario che i tentativi di persuasione siano così palesi: come dimostrano gli esempi di Radici, Il giorno dopo e il processo di O.J. Simpson l'impatto di film e documentari va ben oltre i limiti del previsto. Si tratta di un tipo di influenza che agisce in modo molto sottile, seppur involontario, come dimostra perfettamente l'esempio di Consegne a domicilio: anche quando i comunicatori non stanno facendo un tentativo diretto di venderci qualcosa, riescono comunque a influenzare la nostra visione del mondo e le nostre reazioni di fronte a determinati eventi.

[...]

È molto importante tenersi informati e i mass media svolgono un ruolo fondamentale nel diffondere l'informazione, ma questo tipo di esposizione può anche avere delle conseguenze negative. Che sia intenzionale o meno, la trasmissione di certe immagini può influenzare atteggiamenti e opinioni: le sequenze del crollo delle Torri Gemelle e gli slogan bellicosi trasmessi in continuazione dalle tv («La guerra al terrorismo, «L'America contrattacca» ecc.) non hanno fatto altro che suscitare forti emozioni nei telespettatori e sicuramente hanno anche contribuito a diminuire le possibilità di portare avanti un vero dibattito sulla sensatezza della decisione di invadere l'Afghanistan. Inoltre, quando, un anno dopo gli attacchi, il presidente Bush riuscì in qualche modo a collegare Saddam Hussein ai terroristi di al-Qaida, la sua richiesta per ottenere l'autorizzazione di invadere l'Iraq venne accolta dal Parlamento senza che venisse mossa la minima opposizione. Vorrei precisare che non sto sostenendo che si trattò di decisioni avventate, sto soltanto cercando di dire che, in una democrazia, decisioni importanti come quella di andare in guerra dovrebbero essere aperte a un dibattito pubblico, libero e razionale, e che spesso emozioni particolarmente intense ostacolano il dibattito e il dissenso. Come disse Hermann Göring, uno dei principali esponenti del Terzo Reich, prima di essere condannato a morte dal tribunale di Norimberga: «Le persone possono sempre essere sottomesse agli ordini dei capi politici... Basta dire loro che stanno per essere attaccate, denunciare i pacifisti per mancanza di patriottismo, dire che espongono il Paese al pericolo. È un processo che si ripete in tutti i Paesi».

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Pagina 115

CAPITOLO 4

La cognizione sociale


Nel suo capolavoro, L'opinione pubblica, il famoso analista politico Walter Lippmann racconta la storia di una bambina cresciuta in un piccolo paese minerario che un giorno cadde improvvisamente in un profondo stato di dolore perché, in seguito a un colpo di vento, si era rotto il vetro di una finestra. La bambina sembrava inconsolabile e continuò a disperarsi per ore. Quando si riprese e finalmente riuscì a fare un discorso sensato, disse che, quando si rompeva il vetro di una finestra, voleva dire che un parente stretto era morto: lei stava quindi piangendo per il padre, che pensava fosse appena passato a miglior vita. La ragazzina rimase affranta fino a quando, pochi giorni dopo, non arrivò un telegramma del padre in cui si diceva che era ancora vivo e che stava bene. La bambina si era costruita una storia partendo da un semplice evento esterno (la rottura del vetro di una finestra), una superstizione (quando si rompe un vetro significa che un parente stretto è morto), la paura, e l'amore nei confronti del padre.

Nel medioevo, era una pratica comune svuotare i vasi da notte gettando fuori dalla finestra il loro contenuto, che rimaneva sulla strada e contribuiva così alla diffusione delle malattie. Ai nostri occhi può sembrare una pratica primitiva, barbara e del tutto stupida, soprattutto se si considera che i Romani avevano già inventato strutture igienico-sanitarie al coperto. Come si arrivò, allora, all'uso del vaso da notte? Nel medioevo si sviluppò una credenza secondo cui spogliarsi era un peccato e poteva esporre le persone al pericolo di venire possedute da spiriti maligni. Per questo motivo, l'abitudine romana di farsi il bagno ogni giorno venne abbandonata e la gente iniziò a lavarsi molto più raramente. Con il passare del tempo, i bagni costruiti dai Romani andarono in rovina, le conoscenze idrauliche per la costruzione di tali impianti andarono perdute e, per necessità, si dovette ricorrere al vaso da notte. Ci vollero secoli prima che l'idea che le malattie fossero dovute ad attacchi da parte di spiriti maligni venisse sostituita dalle moderne teorie sui virus e i batteri.

Non ho scelto di portare questi esempi per descrivere il funzionamento di una mente anormale o per parlare dei progressi fatti dall'uomo dal punto di vista igienico e medico; ne ho voluto parlare per sollevare un'importante questione: in che misura noi moderni ci comportiamo come la bambina del paesino di minatori o come gli uomini del medioevo? In che modo le nostre fantasie condizionano il nostro comportamento e le nostre azioni? Non rimarrei sorpreso se l'autore di un manuale di psicologia sociale del XXII secolo iniziasse il capitolo sulla cognizione sociale portando come esempi storie sull'uso dei pesticidi o sulle morti dovute al virus dell'AIDS. Il racconto potrebbe iniziare nel modo seguente:


Nel XX e nel XXI secolo milioni di persone morirono di fame, non a causa della mancanza di cibo, ma per via dell'avvelenamento degli alimenti dovuto all'uso prolungato ed eccessivo di sostanze chimiche, che aveva progressivamente contaminato l'intera catena alimentare. Nonostante gli avvertimenti degli esperti, che avevano previsto si potesse verificare un disastro di tali dimensioni, non venne fatto nulla per evitarlo.

Inoltre, più di 150 milioni di persone morirono di AIDS, malattia che avevano contratto perché si rifiutavano di utilizzare i preservativi. È lecito chiedersi, per il lettore moderno, come persone appartenenti a una cultura in grado di inviare gli uomini nello spazio e di curare un numero enorme di malattie potessero comportarsi in modo talmente stupido. Una possibile spiegazione è che, a quell'epoca, le persone credevano che parlare apertamente della propria attività sessuale fosse peccaminoso e potenzialmente nocivo. All'inizio del XXI secolo, per esempio, la maggior parte dei genitori dei ragazzi adolescenti era rimasta ancorata alla primitiva credenza secondo cui distribuire preservativi nei licei avrebbe favorito la promiscuità, nonostante ricerche accurate avessero dimostrato il contrario.

Portando questi esempi, non voglio dimostrare quanto ingenui fossero gli uomini del XX e del XXI secolo, ma voglio porvi una domanda importante: «Quanto assomigliamo ai malati di AIDS che non avevano preso le precauzioni adeguate e ai contadini che avevano utilizzato i pesticidi in modo tanto imprudente?».


Siamo costantemente impegnati nel tentativo di dare senso al mondo sociale e il modo in cui lo facciamo può avere conseguenze notevoli. Ogni volta che incontriamo una persona che non conosciamo, ci formiamo una prima impressione; ogni volta che entriamo in un supermercato e camminiamo in un reparto pieno di prodotti di marche diverse, dobbiamo cercare di scegliere quello che meglio soddisfa le nostre esigenze; ogni volta che qualcuno ci fa una domanda che ci riguarda personalmente dobbiamo ripensare a tutti i frammenti che compongono la nostra vita per elaborare una risposta secondo noi precisa. Ogni giorno, dobbiamo prendere delle decisioni (quali vestiti indossare, con chi pranzare, che cosa mangiare, che film guardare, se rispondere o meno al telefono); a volte si tratta di decisioni di importanza fondamentale, come, per esempio, di chi fidarci, che cosa studiare, che lavoro fare, che linea politica sostenere, chi sposare, se avere o meno dei figli ecc. Il modo in cui prendiamo le nostre decisioni, siano esse importanti o banali, dipende dal modo in cui diamo senso al nostro mondo sociale.


Come diamo senso al mondo?

Gli esseri umani sono dotati di menti potenti ed efficienti ma, per quanto meravigliosa possa essere, la mente umana è ben lungi dall'essere perfetta. Una delle conseguenze è che la maggior parte di noi finisce per "sapere" molte cose che non sono vere. Facciamo un esempio molto semplice: molte persone credono che le coppie parzialmente sterili che adottano un bambino abbiano maggiori probabilità di concepirne uno rispetto alle coppie che non ricorrono all'adozione. Si pensa, infatti, che, dopo l'adozione, le pressioni vengano meno e, nel momento in cui la coppia è rilassata, il concepimento avvenga più facilmente. Sebbene si tratti di un modo di ragionare molto diffuso, Tom Gilovich ha dimostrato che è del tutto infondato perché non è vero che le coppie relativamente sterili che adottano un bambino abbiano, in un secondo momento, più probabilità di concepirne uno. Per quale motivo, allora, molti sono convinti del contrario? Le ragioni sono due: è un'idea piacevole e confortante e quindi vogliamo credere che sia vera; inoltre, tendiamo sempre a concentrare la nostra attenzione su quei rari casi in cui una coppia che ha adottato un bambino è poi riuscita a concepirne uno e non teniamo in considerazione quelli in cui ciò non è avvenuto o in cui coppie che non hanno adottato figli sono poi riuscite ad averne uno. Tale fenomeno è dovuto agli effetti dell'attenzione e della memoria selettiva che fanno apparire le eccezioni come la regola.

Siamo esseri razionali oppure no? Sicuramente proviamo a esserlo. Secondo le opinioni più diffuse, la cognizione umana si serve di processi razionali perché ogni individuo cerca di fare del proprio meglio per essere nel giusto e per dimostrare di avere opinioni e credenze corrette. Uno dei sostenitori principali di questo punto di vista fu il filosofo utilitarista Jeremy Bentham che, nel XVIII secolo, parlò della possibilità di effettuare una sorta di calcolo della felicità attraverso cui gli esseri umani potevano stabilire cosa fosse giusto e cosa non lo fosse. Immaginate, per esempio, che io voglia comprare un'auto nuova: per decidere quale modello scegliere dovrò sommare i vantaggi di ogni marca (linea sportiva, interni comodi, motore potente) e sottrarre gli svantaggi (l'ammontare delle rate mensili, i costi del carburante ecc.). Alla fine, sceglierò l'auto che comporterà i vantaggi maggiori con i minori svantaggi. Secondo Bentham era compito del governo e del sistema economico assicurare «la maggior felicità per il maggior numero possibile di persone»; altri pensatori si trovarono d'accordo con lui e il suo concetto di calcolo della felicità divenne uno dei principi di base del capitalismo moderno.

Più recentemente, lo psicologo sociale Harold Kelley ha avanzato un'ipotesi più complessa sulla razionalità del pensiero umano sostenendo che le persone tentano di agire come se fossero degli scienziati ingenui. Per riuscire a spiegare un evento o un fenomeno dato, gli scienziati vanno alla ricerca della covariazione nei dati a loro disposizione, tentano cioè di individuare i casi in cui «X viene prima di Y e varia sempre al variare di Y per concludere che X causa Y». Quando tentano di spiegare il comportamento degli altri, le persone utilizzano un processo simile andando alla ricerca di tre elementi informativi: la coerenza (la persona osservata si comporta in quel determinato modo anche in situazioni e in momenti diversi?); il consenso (quando si trovano nella stessa situazione, le altre persone si comportano allo stesso modo?); la specificità (la persona osservata è l'unica a comportarsi in quel modo?).

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CAPITOLO 9

La psicologia sociale come scienza


Quando studiavo al college iniziai ad avvicinarmi alla psicologia sociale perché si occupava di alcuni degli aspetti più interessanti dell'esistenza umana, quali l'amore, l'odio, il pregiudizio, l'aggressività, l'altruismo, l'influenza sociale, il conformismo ecc. A quell'epoca non mi interessava molto sapere come quel notevole insieme di conoscenze fosse stato sviluppato, perché l'unica cosa che mi interessava era conoscere ciò che era stato scoperto. Fu solo dopo che iniziai il corso di specializzazione che si fece strada nella mia mente l'idea che avrei potuto essere qualcosa di più di un semplice fruitore di quelle conoscenze, e che sarei potuto diventarne io stesso un produttore. In quel momento, un nuovo mondo si aprì davanti ai miei occhi: il mondo della psicologia sociale scientifica. Così imparai come fare domande importanti, come condurre gli esperimenti per trovare le risposte, e così contribuire, nel mio piccolo, ad accrescere quell'insieme di conoscenze che avevo studiato in precedenza. Da allora, mi sono sempre dedicato con passione a questa attività.

Leggere questo capitolo non servirà a farvi diventare degli scienziati; le mie intenzioni sono meno ambiziose, ma non per questo meno importanti: questo capitolo ha infatti lo scopo di contribuire a migliorare la vostra capacità di pensare scientificamente a ciò che accade nel mondo sociale. Ho sempre ritenuto che fosse una capacità molto utile, nonostante a volte possa anche indurre a non crearsi troppe illusioni. Servirà a un esempio chiarire il significato di quest'ultima affermazione. Non molto tempo fa, mi è capitato di leggere sulla rivista The New Yorker un ottimo saggio di James Kunen sui programmi di istruzione universitaria nelle carceri, in cui l'autore parlava in tono entusiastico della loro efficacia e denunciava il fatto che una maggioranza parlamentare orientata in senso punitivo stesse eliminando tali programmi dopo averli definiti una perdita di tempo e un trattamento eccessivamente benevolo da riservare ai criminali.

Il saggio di Kunen conteneva alcuni esempi molto vividi di storie di detenuti che, mentre erano in carcere, avevano partecipato al programma e che, dopo essere stati rilasciati, avevano condotto vite molto produttive. Sebbene si trattasse di storie toccanti, dal mio punto di vista di scienziato volevo sapere se esistevano dati sistematici a cui far riferimento per valutare l'efficacia complessiva del programma. Kunen riportava i dati di uno studio pubblicato nel 1991 dal New York State Department of Correctional Services che indicavano come a quattro anni dal rilascio, il tasso di recidività dei detenuti maschi che avevano portato a termine uno o più anni di università in carcere fosse più basso del 20% rispetto alla media.

Tali dati sembrano a dir poco impressionanti, ma se consideriamo la questione in un'ottica scientifica, è necessario porsi una domanda fondamentale: prima di partecipare al programma, i detenuti che si sono iscritti presentavano caratteristiche simili a quelli che non si sono iscritti? Non potrebbe anche darsi che i detenuti che si sono iscritti al programma e hanno completato un anno di studi fossero diversi (dal punto di vista della motivazione, delle capacità, dell'intelligenza, del livello di istruzione, della salute mentale, ecc...) rispetto a quelli che non si sono iscritti? Tengo a sottolineare che non si tratta di una pignoleria, perché se esistesse veramente una differenza di base, allora è probabile (o almeno possibile) che tra i detenuti che si sono iscritti al corso di studi si sarebbe riscontrato un tasso di recidività inferiore anche se non avessero partecipato al programma e, in tal caso, non sarebbe possibile affermare che il programma di istruzione era stato la causa dell'abbassamento del tasso di recidività.

Mentre leggevo l'articolo di Kunen, la parte di me più progressista e umanitaria desiderava credere alla validità dei risultati dello studio, perché sarebbe stato fantastico avere a disposizione prove convincenti che dimostrano che fornire un'istruzione ai detenuti dà buoni risultati, ma purtroppo la parte più scientifica ha preso il sopravvento, con il suo scetticismo. È questo il motivo per cui dico che guardare il mondo sociale attraverso gli occhi di uno scienziato può indurre a non farsi illusioni. Nonostante ciò, questa opportunità ci fornisce una maggiore capacità di valutazione; soltanto in questo modo potremo determinare con un certo grado di chiarezza in quale tra le migliaia di programmi possibili valga la pena investire tempo, fatica e denaro. Come vedremo in seguito, nella maggior parte dei casi non è nemmeno difficile condurre correttamente l'esperimento necessario a determinarlo,


Che cos'è il metodo scientifico?

Indipendentemente dal fatto che venga applicato nell'ambito della fisica, della chimica, della biologia o della psicologia sociale, il metodo scientifico è il metodo migliore che gli esseri umani hanno a disposizione per soddisfare la propria sete di conoscenza. Più precisamente, tale metodo si utilizza nel tentativo di scoprire le giuste relazioni tra le cose, che si tratti di sostanze chimiche, di pianeti o dei presupposti del pregiudizio o dell'amore. La prima fase del procedimento riguarda l'osservazione. In fisica potrebbe trattarsi di una frase del tipo: se c'è una palla di gomma su un carro, quando si spinge il carro in avanti, sembra che la palla rotoli all'indietro (in realtà, non rotola all'indietro, sembra soltanto che ciò accada); quando il carro si ferma di colpo, invece, la palla viene subito sbalzata in avanti. In psicologia sociale, una semplice osservazione potrebbe assomigliare a una frase del tipo: se, quando sto servendo ai tavoli, mi sento di buonumore e sorrido molto ai clienti, le mance sembrano leggermente più alte di quando sono di cattivo umore e sorrido di meno.

La fase successiva consiste nel fare una supposizione sul motivo per cui un determinato fenomeno si verifica, nel tentativo di scoprire le "giuste relazioni" che abbiamo menzionato in precedenza. Nella terza fase si formula la supposizione in modo da trasformarla in un'ipotesi verificabile, e infine si progetta un esperimento (o una serie di esperimenti) che servirà a confermare o a smentire l'ipotesi. Se una serie di esperimenti ben ideati e ben eseguiti smentisce le previsioni iniziali, allora l'ipotesi dovrà essere abbandonata perché, come ha osservato il fisico Richard Feynman, «non importa quanto valida sia la supposizione o quanto intelligente o famoso sia chi l'ha elaborata: se l'esperimento la smentisce, allora sarà falsa. Non c'è altra spiegazione!». Personalmente ritengo che l'essenza e la bellezza della scienza risiedano proprio in questo, nel fatto che in quest'ambito non esistono verità incontrovertibili.

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