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| << | < | > | >> |IndicePrefazione di Michele Giorgio 7 Guernica in Gaza 17 27 dicembre 2008 Un lento morire in vano ascolto 21 29 dicembre 2008 Le fabbriche degli angeli 25 30 dicembre 2008 Catastrofe innaturale 29 1 gennaio 2009 Fantasmi che chiedono giustizia 33 3 gennaio 2009 Medici con le ali: Arafa Abed Al Dayem R.I.P. 39 5 gennaio 2009 al-Nakba 45 6 gennaio 2009 Fionde contro bombe al fosforo bianco 51 7 gennaio 2009 «Non lascerò il mio paese!» 55 8 gennaio 2009 Hanno ucciso Ippocrate 61 9 gennaio 2009 Distruzione totale: lavori in corso 65 10 gennaio 2009 Avvoltoi e cacciatori di taglie 71 13 gennaio 2009 Figli di un Allah minore 75 14 gennaio 2009 I gironi infernali di Jabalia 81 15 gennaio 2009 Geografie rivoltate 87 106 gennaio 2009 L'amore sotto le bombe 93 17 gennaio 2009 I morti e i vivi 99 19 gennaio 2009 Tracce di morte 103 20 gennaio 2009 Lacrime che hanno visto 107 22 gennaio 2009 Postfazione: La rabbia del vento 111 di Tommaso Di Francesco Breve dizionario del conflitto 119 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Grazie agli occhi di Vittorio Arrigoni, il pacifista dell' International solidarity movement, ben aperti su quanto accadeva a Gaza, il manifesto ha potuto raccontare ai suoi lettori, e non solo a loro, i giorni dell'offensiva israeliana «Piombo fuso», distruttiva, sanguinosa, senza precedenti contro la Striscia, andata avanti dal 27 dicembre al 18 gennaio. Senza i preziosi resoconti quotidiani di Arrigoni, spesso scritti in condizioni difficili, durante i bombardamenti, nei rari internet point dotati di un generatore autonomo di elettricità, anche il nostro giornale sarebbe stato costretto a riferire della guerra a Gaza solo con i lanci delle agenzie di stampa, sperando di poter ottenere, attraverso intermittenti comunicazioni telefoniche, qualche testimonianza diretta di quel bagno di sangue. Accanto all'impegno di Arrigoni, non si può dimenticare il lavoro, eccezionale, svolto dai reporter e dai cameramen palestinesi, quattro dei quali sono rimasti uccisi e altri 35 feriti dai bombardamenti che hanno anche colpito due sedi di giornali ed emittenti radiotelevisive. L'operazione militare israeliana «Piombo fuso», scattata – secondo la versione ufficiale – per colpire Hamas e bloccare i lanci di razzi da Gaza, e che invece ha ucciso circa 1.300 palestinesi (tra i quali centinaia di donne e bambini) e provocato distruzioni stimate in alcuni miliardi di dollari (i morti israeliani sono stati 13, tre dei quali civili), passerà alla storia anche per le restrizioni imposte al lavoro dei giornalisti stranieri. La chiusura del valico di Erez, tra Gaza e Israele, ha impedito per tutto il conflitto, alla stampa estera accreditata nello Stato ebraico, di poter entrare nella Striscia e raccontare la guerra in tutti i suoi aspetti. Per tre settimane a centinaia di giornalisti provenienti da tutto il mondo – secondo cifre non ufficiali, oltre 400 – è stato negato il diritto di cronaca a Gaza e consentito di riferire liberamente soltanto ciò che accadeva nel Sud di Israele, preso di mira dai razzi Qassam e Grad sparati dai palestinesi. Di ciò che è avvenuto a Gaza, le telecamere di decine di stazioni televisive internazionali hanno potuto mostrare, dalle alture circostanti, le esplosioni in lontananza nelle città e nei villaggi, causate dalle bombe sganciate dagli F-16 e dai colpi dell'artiglieria pesante. Dal valico di Rafah, tra Gaza e l'Egitto, sono riusciti successivamente a entrare alcuni giornalisti stranieri; ma a rilanciare ovunque gli effetti spaventosi dell'offensiva israeliana, prima aerea e poi anche di terra, sono stati in prima battuta quasi sempre i giornalisti palestinesi corrispondenti di quotidiani arabi e internazionali e di reti satellitari, come al Jazeera. Un piccolo centro di produzioni televisive, Ramattan, ha lavorato 24 ore su 24 per consentire i collegamenti via satellite che hanno informato il mondo intero. E non va dimenticato che, negli ultimi giorni dell'offensiva militare, un proiettile «vagante» dell'artiglieria israeliana ha colpito un edificio di Gaza city che ospita le redazioni di diversi media locali e internazionali, provocando il ferimento di un operatore e di un reporter della televisione di Abu Dhabi. Le restrizioni all'accesso della stampa estera nella Striscia di Gaza erano cominciate ben prima di «Piombo fuso». Israele, che di solito garantisce il lavoro dei giornalisti stranieri e il loro libero accesso ai Territori occupati palestinesi, ha improvvisamente deciso, a partire dal 9 novembre dello scorso anno, di sigillare il valico di Erez di fronte ai reporter di altri paesi. Pochi giorni prima, il 4 novembre, era scattata, nonostante la tregua in vigore dal 19 giugno e raramente violata in quei mesi dal lancio di razzi palestinesi (come ha riferito un rapporto dettagliato dell'International Crisis Group), una profonda incursione israeliana diretta contro un tunnel sotterraneo apparentemente scavato da Hamas lungo il confine, allo scopo, presunto, di penetrare nello Stato ebraico. Ormai a conoscenza del tunnel in costruzione, le autorità militari israeliane avrebbero potuto denunciare al mondo le presunte intenzioni di Hamas, mettendo in difficoltà il movimento islamico specie nei confronti del vicino Egitto. Oppure avrebbero potuto organizzarsi per catturare il commando armato palestinese al momento di compiere la sua azione. Invece i comandi israeliani decisero di colpire, e duramente, all'interno di Gaza provocando sei morti tra i miliziani del movimento islamico impegnati nei combattimenti con truppe israeliane. Quel giorno è cambiato tutto. I lanci di razzi palestinesi non si sono più arrestati così come i raid israeliani. Fino al 19 dicembre, giorno di scadenza della tregua, quando Hamas, citando la mancata riapertura dei valichi commerciali promessa dallo Stato ebraico sei mesi prima, ha annunciato di non voler rinnovare il cessate il fuoco e di voler lasciare la fazioni armate palestinesi libere di riprendere la lotta armata. Otto giorni dopo ha avuto inizio l'operazione «Piombo fuso» che Israele, come ha ammesso il ministro della difesa Ehud Barak, stava preparando da mesi. Quando il 27 dicembre scorso, poco prima delle 11, una sessantina di cacciabombardieri israeliani hanno cominciato a martellare Gaza provocando in poche ore oltre cento morti, nella Striscia non c'erano giornalisti stranieri. Tra il 9 novembre e il 27 dicembre, Israele ha riaperto Erez alla stampa estera solo in un paio di occasioni e anche i pochi media (tra i quali il manifesto e Liberazione ) giunti a Gaza in quelle settimane, nell'imminenza dell'avvio di «Piombo fuso» erano in Cisgiordania per coprire gli abituali appuntamenti giornalistici legati alle festività natalizie a Betlemme (tanti peraltro erano in ferie nei loro paesi). È stato tutto frutto del caso? Forse, resta però il dato importante dell'assenza di reporter stranieri a Gaza proprio al momento dell'attacco israeliano. L'Associazione della stampa estera in Israele ha chiesto dopo i primi attacchi aerei la riapertura di Erez per permettere l'ingresso dei giornalisti nella Striscia, senza però ottenere risultati. I comandi militari israeliani e l'Ufficio stampa governativo, responsabile per i rapporti con i corrispondenti e gli inviati, hanno ripetuto che Erez sarebbe rimasto chiuso a causa delle operazioni belliche in corso. La situazione si è sbloccata, ma solo in apparenza, all'inizio di gennaio quando governo ed esercito si sono detti disposti ad autorizzare l'ingresso a Gaza di un pool di otto giornalisti in risposta all'appello, accolto dalla Corte suprema, presentato dall'Associazione della stampa estera. Ma questa promessa è rimasta un pezzo di carta poiché i transiti con Gaza non hanno riaperto. In quei giorni pochi «privilegiati», selezionati dalle autorità israeliane sulla base di criteri mai resi noti ed «embedded» con le truppe occupanti, hanno potuto raggiungere la città palestinese di Beit Lahya vicina al confine, dove hanno constatato le immense distruzioni causate dall'offensiva militare. Nulla ha potuto l'appello lanciato dall'associazione internazionale per la libertà di stampa «Information safety and freedom», affinché il governo israeliano consentisse «ai giornalisti di fare il proprio lavoro, aprendo i confini della Striscia di Gaza», in modo da smentire così chi accusava Tel Aviv «di non volere testimoni indipendenti» dell'operazione «Piombo fuso» dato che si stava svolgendo «con modalità che ignorano tutte le norme contenute nella legislazione internazionale e che la qualificano come illegale». È rimasta inascoltata anche la richiesta di Human Rights Watch (Hrw) di consentire a giornalisti e osservatori l'accesso a Gaza «per monitorare e riferire sulla condotta di entrambe le parti» in conflitto, Israele e Hamas. E se centinaia di giornalisti stranieri, incluso chi scrive, hanno vissuto per tre settimane la frustrazione di non poter svolgere sino in fondo il proprio lavoro, il clima di approvazione popolare dell'attacco contro Gaza che si registrava in Israele in quei giorni è sfociato in fermi e arresti di pacifisti ebrei (una cinquantina) e di centinaia di arabo-israeliani, durante le manifestazioni contro il proseguimento della guerra, ma anche in intimidazioni contro le voci dissidenti nella stampa nazionale. Sono stati tempi duri per i giornalisti israeliani «scomodi». «Piccolo Yonatan», così cominciava il 12 gennaio un annuncio a pagamento pubblicato su mezza pagina del quotidiano Maariv, «siamo stufi di te e puoi anche andare a farti..., da parte mia». Firmato: «Oded Tirah (uno dei principali imprenditori di Israele, ndr) e i bambini del sud di Israele che se la fanno addosso per la paura». Oggetto dell'attacco è stato Yonatan Ghefen, un anziano columnist dello stesso giornale che aveva criticato «Piombo fuso» ed era già stato pesantemente attaccato dal suo editore, Yaakov Nimrodi. «È giusto partecipare al dramma della popolazione israeliana colpita dai razzi palestinesi ma non possiamo certo dimenticare i cadaveri delle vittime civili a Gaza», ha spiegato Ghefen, trovando umiliante che il suo giornale avesse accettato di pubblicare un annuncio a pagamento che lo attaccava in forma scurrile, invece di respingerlo e difendere la sua libertà di opinione. Una nota presentatrice televisiva, Yonit Levy, di Canale 2, è stata addirittura oggetto di una petizione (32mila firme). «Non è possibile – hanno scritto i suoi denigratori rivolgendosi al direttore della rete tv – che nello Stato di Israele, durante un conflitto e anche in via generale, una presentatrice esprima un eccesso di pietà verso i palestinesi e manifesti le sue idee estremiste di fronte a tutti». E non è servita in quei giorni l'apprensione manifestata dal commentatore politico della televisione Canale 10, Raviv Hrucker, sulla acquiescenza dei colleghi della stampa di fronte ad attacchi così pesanti. Dopo la guerra sono poi arrivate le sanzioni contro i giornalisti di al Jazeera, in apparente reazione alla decisione del Qatar di chiudere l'ufficio commerciale israeliano a Doha. Le autorità dello Stato ebraico non rinnoveranno o non concederanno visti di ingresso e permessi di lavoro al personale non israeliano dell'emittente, riducendo le possibilità di accesso dei suoi giornalisti a personalità di governo e militari e a briefing e conferenze stampa. Una ritorsione verso al Jazeera che pure, specie nel suo canale in lingua inglese, ha dato spazio per tutta la durata della guerra alle opinioni dei rappresentanti ufficiali israeliani, a cominciare dal ministro degli esteri Tzipi Livni e, assieme ad altre emittenti, ha anche denunciato le intimidazioni subite dai giornalisti arabi a Gaza da parte dei miliziani di Hamas. «L'attacco israeliano ai media è stato chirurgico, con l'obiettivo di distruggere non solo i media di Hamas ma anche voci libere di Gaza... Questa nostra convinzione è provata dalla casualità delle bombe: alcuni edifici sono stati colpiti, altri no, così anche moltissime abitazioni private», ha commentato in quei giorni Paolo Serventi Longhi, membro dell'esecutivo della Federazione internazionale della stampa, ricordando inoltre che il sindacato dei giornalisti palestinesi ad un certo punto ha dovuto sospendere le proprie attività poiché i suoi rappresentanti sono stati minacciati da Hamas. Non è andata meglio ai giornalisti della Cisgiordania, tenuti sotto pressione dai servizi di sicurezza dell'Autorità nazionale palestinese di Abu Mazen. Pieno accesso a Gaza la stampa estera lo ha avuto solo il 23 gennaio quando le autorità israeliane hanno finalmente revocato la chiusura ai giornalisti stranieri del valico di Erez. Nei giorni precedenti erano stati autorizzati ad entrare alcuni corrispondenti, in base ai criteri discrezionali dell'Ufficio stampa governativo e dei comandi militari. Di fronte a questa prolungata e senza precedenti violazione della libertà di informazione nei Territori occupati palestinesi, emerge ancora più forte l'eccezionalità del lavoro di racconto e descrizione svolto, ogni giorno per tre settimane, da Vittorio Arrigoni che a Gaza era ritornato, grazie alle imbarcazioni pacifiste del Free Gaza Movement, appena qualche giorno prima dell'offensiva israeliana. Era voluto rientrare in Palestina per stare accanto ai civili sottoposti da mesi ad un embargo durissimo, nonostante qualche settimana prima fosse stato «catturato» in mare (mentre era a bordo di un peschereccio palestinese al largo tra Khan Yunis e Rafah) dalla Marina militare israeliana e, dopo una settimana di reclusione vicino Tel Aviv, espulso per «ingresso illegale nel paese» dove lui non era entrato ma era stato trascinato contro la sua volontà. I suoi racconti della vita a Gaza sotto le bombe hanno permesso a tanti di noi di conoscere cosa è accaduto in quel lembo di terra palestinese. Rileggerli ora con più calma ci aiuterà a capire ancora di più la vita di 1,5 milioni di persone nella più grande prigione a cielo aperto del mondo. | << | < | > | >> |Pagina 17Il mio appartamento di Gaza dà sul mare. Ha una vista panoramica che mi ha sempre riconciliato il morale, anche quand'ero affranto per la miseria a cui è costretta una vita sotto assedio. Prima di stamattina. Quando dalla mia finestra si è affacciato l'inferno. Ci siamo svegliati sotto le bombe oggi a Gaza, e molte sono cadute a poche centinaia di metri da casa mia. E molti miei amici, ci sono rimasti sotto. Siamo a 210 morti accertati finora, ma il bilancio è destinato a crescere. Una strage senza precedenti. Hanno spianato il porto e raso al suolo le centrali di polizia. Mi riferiscono che i media occidentali hanno digerito e ripetono a memoria i comunicati diramati dai militari israeliani secondo i quali gli attacchi avrebbero colpito chirurgicamente solo le basi terroristiche di Hamas. In realtà visitando l'ospedale di Al Shifa, il principale di Gaza City, abbiamo visto dei corpi distesi nel cortile — alcuni in attesa di cure, la maggior parte degni di sepoltura — decine di civili. Avete presente Gaza? Ogni casa è arroccata sull'altra, ciascun edificio è posato sull'altro. Gaza è il posto al mondo a più alta densità abitativa, per cui se bombardi a diecimila metri di altezza è inevitabile che tu faccia una strage di civili. Ne sei cosciente e colpevole, non si tratta di errore, di danni collaterali. Così, bombardando la caserma di polizia di Al Abbas, in pieno centro, è rimasta coinvolta nelle esplosioni ancne la scuola elementare lì a fianco. Era la fine delle lezioni e i bambini erano già in strada, decine di grembiulini azzurri svolazzanti si sono macchiati di sangue. Durante l'attacco alla scuola di polizia Dair Al Balah, si sono registrati morti e feriti nel suq vicino, il mercato centrale di Gaza. Abbiamo visto corpi di animali e di uomini mescolare il loro sangue in rivoli che scorrevano lungo l'asfalto. Una Guernica fuoriuscita dalla tela per trasfigurarsi nella realtà. Ho visto molti cadaveri in divisa nei vari ospedali che ho visitato. Molti di quei ragazzi li conoscevo. Li salutavo tutti i giorni sulla strada per il porto, o la sera mentre camminavo verso i caffè del centro. Diversi li conoscevo per nome. Un nome, una storia, una famiglia mutilata. La maggior parte erano giovani, sui diciotto vent'anni, per lo più non schierati né con Fatah né Hamas: semplicemente si erano arruolati in polizia una volta finita l'università, alla ricerca di un posto di lavoro sicuro in una Gaza che sotto il criminale assedio israeliano vede più del 60% della popolazione disoccupata. Mi disinteresso della propaganda, lascio parlare i miei occhi, le mie orecchie tese allo stridio delle sirene e ai boati del tritolo. Non ho visto terroristi fra le vittime, ma solo civili e poliziotti. Soltanto il giorno prima li prendevo in giro per come si erano imbacuccati per ripararsi dal freddo. Vorrei che almeno la verità rendesse giustizia a queste morti. Non hanno mai sparato un colpo verso Israele, né mai lo avrebbero fatto, perché non era quella la loro mansione. Si occupavano di dirigere il traffico e della sicurezza interna, tanto più che al porto siamo ben distanti dai confini israeliani. Ho una videocamera con me ma ho scoperto oggi di essere un pessimo cameraman, non riesco a riprendere i corpi maciullati e i volti in lacrime. Non ce la faccio. Non riesco perché piango anche io. Sono andato a donare il sangue all'ospedale Al Shifa, insieme agli altri dell'Intemational solidarity movement (Ism). E lì abbiamo ricevuto la telefonata: Sara, una nostra cara amica, è rimasta uccisa da un frammento di esplosivo vicino alla sua abitazione nel campo profughi di Jabalia. Una persona dolce, un'anima solare, era uscita pe' comprare il pane per la sua famiglia. Lascia 13 figli. Poco fa mi ha chiamato da Cipro Tofiq. Tofiq è uno dei fortunati studenti palestinesi che grazie alle nostre barche del Free Gaza Movement è riuscito a lasciare l'immensa prigione a cielo aperto della Striscia e a rifarsi una vita altrove. Mi ha chiesto se ero andato a trovare suo zio e se l'avevo salutato da parte sua, come gli avevo promesso. Titubante mi sono scusato perché non avevo ancora trovato il tempo. Troppo tardi, è rimasto sotto le macerie del porto insieme a tanti altri. Da Israele giunge una minaccia terribile: questo è solo il primo giorno di una campagna di bombardamenti che potrebbe protrarsi per due settimane. Faranno il deserto e lo chiameranno pace. Il silenzio del «mondo civile» è molto più assordante delle esplosioni che ricoprono la città come un sudario di terrore e morte. Restiamo umani. | << | < | > | >> |Pagina 51«Prendi dei gattini, dei teneri micetti e mettili dentro una scatola» mi dice Jamal, chirurgo dell'ospedale Al Shifa, il principale di Gaza, mentre un infermiere appoggia per terra dinanzi a noi proprio un paio di scatoloni di cartone, coperti di chiazze di sangue. «Sigilla la scatola, quindi con tutto il tuo peso e la tua forza saltaci sopra sino a quando senti scricchiolare gli ossicini, e l'ultimo miagolio soffocato». Fisso gli scatoloni attonito, il dottore continua «Cerca ora di immaginare cosa accadrebbe subito dopo la diffusione di una scena del genere, la reazione giustamente sdegnata dell'opinione pubblica mondiale, le denunce delle organizzazioni animaliste...»; il medico continua il suo racconto e io non riesco a spostare un attimo gli occhi da quelle scatole poggiate ai miei piedi. «Israele ha rinchiuso centinaia di civili in una scuola come in una scatola, decine di bambini, e poi l'ha schiacciata con tutto il peso delle sue bombe. E quali sono state le reazioni nel mondo? Quasi nulla. Tanto valeva nascere animali, piuttosto che palestinesi, saremmo stati più tutelati». A questo punto il dottore si china verso una scatola e me la scoperchia davanti. Dentro ci sono gli arti mutilati, braccia e gambe dal ginocchio in giù o interi femori, amputati ai feriti provenienti dalla scuola delle Nazioni Unite Al Fakhura di Jabalia, più di cinquanta finora le vittime. Fingo una telefonata urgente, mi congedo da Jamal, in realtà mi dirigo verso i servizi igienici, mi piego in due e vomito. Poco prima mi ero intrattenuto in una discussione con il dottor Abdel, oftalmologo, circa i rumors, le voci incontrollate che da giorni circolano lungo tutta la Striscia secondo le quali l'esercito israeliano ci starebbe tirando addosso una pioggia di armi non convenzionali, vietate dalla Convenzione di Ginevra. Cluster bombs e bombe al fosforo bianco. Esattamente le stesse che l'esercito di Tsahal utilizzò nell'ultima guerra in Libano e l'aviazione Usa a Falluja, in violazione delle norme internazionali. Davanti all'ospedale Al Awda siamo stati testimoni (e abbiamo filmato) dell'utilizzo di bombe al fosforo bianco, cadute a circa cinquecento metri da dove ci trovavamo, troppo lontano per essere certi che sotto gli Apache israeliani ci fossero dei civili, ma tremendamente troppo vicino a noi. Il Trattato di Ginevra del 1980 prevede che il fosforo bianco non debba essere usato direttamente come arma di guerra nelle aree civili, ma solo come fumogeno o per l'illuminazione. Non c'è dubbio che utilizzare quest'arma sopra Gaza, una striscia di terra dove si concentra la più alta densità abitativa del mondo, è già un crimine a priori. Il dottor Abdel mi ha riferito che all'ospedale Al Shifa non hanno la competenza militare e medica specifica per comprendere se alcune ferite di cadaveri che hanno esaminato siano state prodotte effettivamente da armi illegali. A detta sua però, in venti anni di mestiere, non ha mai visto casi di decessi come quelli portati all'ospedale nelle ultime ore. Mi ha spiegato di traumi al cranio, con fratture a vomere, mandibola, osso zigomatico, osso lacrimale, osso nasale e osso palatino che indicherebbero l'impatto di una forza immensa sul volto della vittima. Quello che, dal suo punto di vista è totalmente inspiegabile, è la totale assenza di globi oculari, che anche in presenza di traumi di tale entità dovrebbe rimanere al loro posto, almeno in tracce, all'interno del cranio. Invece stanno arrivando negli ospedali palestinesi cadaveri senza più occhi, come se qualcuno li avesse rimossi chirurgicamente prima di consegnarli al coroner. Israele ci ha fatto sapere che da oggi ci è generosamente concessa una tregua ai suoi bombardamenti di 3 ore quotidiane, dalle 13 alle 16. Queste dichiarazioni dei vertici militari israeliani vengono prese dalla popolazione di Gaza con la stessa fiducia di quelle dei leaders di Hamas quando dichiarano di aver fatto strage di soldati nemici. Sia chiaro, il peggior nemico dei soldati di Tel Aviv sono gli stessi combattenti sotto la stella di Davide. Ieri una nave da guerra, al largo del porto di Gaza, ha individuato un nutrito gruppo di guerriglieri della resistenza palestinese che si muoveva compatto intorno a Jabalia e ha cannoneggiato. Erano invece dei loro commilitoni, risultato: 3 soldati israeliani uccisi, una ventina i feriti. Alle tregue sbandierate da Israele qui non ci crede ormai nessuno, infatti alle 14 di oggi Rafah era colpita dall'aeronautica e a Jabalia l'ennesima strage di bambini: tre sorelline di 2, 4, e 6 anni della famiglia Abed Rabbu. Sempre a Jabalia una mezz'ora prima erano le nostre ambulanze ad essere sotto attacco. Eva e Alberto, miei compagni dell'Ism, che si trovavano a bordo, hanno videodocumentato l'accaduto, passando poi i video e le foto ai maggiori media. I cecchini israeliani hanno gambizzato Hassan, fresco di lutto per la morte del suo migliore amico, Araf, il paramedico ucciso due giorni fa mentre soccorreva i feriti a Gaza City. I miei compagni sull'ambulanza della mezzaluna rossa, che si erano fermati a raccogliere il corpo di un ferito agonizzante in mezzo alla strada, sono stati bersagliati da una decina di colpi. Un proiettile ha colpito alla gamba Hassan e ridotto l'ambulanza a un colabrodo. Andando verso l'ospedale di Al Quds, correndo su uno dei pochi taxi temerari che zigzagando ancora sfidano il tiro a segno delle bombe, ho visto fermi a un angolo di strada un gruppo di ragazzini sporchi, coi vestiti rattoppati, tali e quali ai nostri sciuscià del dopoguerra. Con delle fionde lanciavano pietre verso il cielo, in direzione di un nemico lontanissimo e inavvicinabile che si fa gioco delle loro vite. La metafora impazzita che fotografa l'assurdità di questi tempi e di questi luoghi. Restiamo umani. | << | < | > | >> |Pagina 113Cosa raccontano i reportage straordinari, tra testimonianza diretta e scrittura, di Vittorio Arrigoni? Che la lunga strage in Palestina, a Gaza, si è consumata tra sangue e silenzio. Il nostro occidentale e colpevole silenzio. Perché la situazione per Israele è arrivata ad un punto di non ritorno, di svolta nel baratro. Le denunce delle organizzazioni internazionali e l'iniziativa dell'Onu di aprire indagini per crimini di guerra, ci dicono che qualcosa di grave e irreparabile è avvenuto, che va perfino al di là della terribile, insopportabile conta dei morti. Del resto la cronaca quotidiana di questi giorni già parlava chiaro e ancora parla, anzi urla, con nitidezza. Più di un terzo delle 1.300 vittime sono bambini, anche stavolta come nell'invasione del Libano nel 1996 e due anni fa nel 2006 sono stati colpiti civili in fuga riparati nelle sedi Onu, che per ben tre volte è stata l'obiettivo mirato dei bombardamenti, da cielo, terra e mare, dell'esercito israeliano. La Croce Rossa Internazionale è entrata nelle zone da cui era esclusa nei primi giorni dell'offensiva e denuncia, prove testimoniali alla mano, la realtà dei feriti lasciati morire e la scoperta in quel che rimane dei sottoscala di molti eccidi «diretti» di donne e bambini, mitragliati o passati all'arma bianca; l'Onu accusa l'esercito israeliano di avere ammassato forzatamente 110 palestinesi, intere famiglie, a Zeitoun e poi di avere deliberatamente bombardato quell'edificio. Probabilmente il lungo elenco degli orrori non è ancora finito con la cosiddetta «tregua» fragilissima appesa a un filo che pure permette la cura dei quattromila feriti e l'arrivo di aiuti nonostante i valichi della gabbia della Striscia restino blindati. Quanto bisognerà aspettare per la fine di questa incredibile «campagna elettorale» israeliana ben concepita da un anno e in prossimità della transizione presidenziale americana, che ha preso a pretesto i disperati e controproducenti razzi di Hamas, non è dato sapere. Ma una cosa sappiamo ormai per certo. Israele ha bombardato insieme al suo futuro anche il suo passato. Quel che è accaduto infatti è assai più grave di Sabra e Shatila, di quel feroce giorno dell'ottobre del 1982, quando 2.500 palestinesi, donne e bambini, vennero massacrati dalle milizie della Falange libanese d'estrema destra e cristiana. l'esercito israeliano che addestrava, finanziava e comandava quelle milizie, aveva occupato Beirut alla guida di Sharon che le autorizzò ad «entrare» nei campi palestinesi per completare l'opera del tiro al piccione. Fu così evidente che le stesse istituzioni di Israele corsero ai ripari con una commissione d'inchiesta del parlamento che si concluse con la condanna dell'operato di Sharon e con la richiesta ufficiale di interdire l'allora comandante israeliano dalle funzioni politiche. In realtà Sharon poi diventò ministro dell'agricoltura e avviò la gran parte degli insediamenti che rendono impossibile lo Stato di Palestina, poi ministro della difesa con cui cominciò la caccia ad Arafat, e infine addirittura premier, con l'allegra costruzione del Muro di sicurezza «contro il terrorismo» ma sostanzialmente mirato all'apartheid demografico. Perché stavolta è peggio di Sabra e Shatila? Perché allora, per il lavoro sporco, l'esercito israeliano chiamò i macellai falangisti. Stavolta nei massacri sembrano impegnati direttamente i soldati di Tsahal, sia i giovani militari che i riservisti, sia la prima leva che le truppe speciali. Per un bagno di sangue una complicità generazionale. Come se i civili palestinesi fossero davvero il «nemico» da sterminare e non un popolo dall'infelice destino comune. Impossibile non vedere come il fardello dell'Olocausto che dovremmo portare noi, in Europa, viene utilizzato – come ha scritto Tony Judt, lo scrittore di origini ebraiche premio Hannah Arendt nel 2008 – in chiave ideologica-emozionale «troppo legato alla sola difesa d'Israele», strumentalizzato in chiave statuale e politica, tanto da «perdere così la sua rilevanza universale». E, ahimé, scaricato addosso ad una realtà a questo estranea. La soluzione finale, quella conferenza nazista di Wannsee del 20 gennaio 1942 fu infatti concepita dalla ragione perversa dell'Occidente colto e raffinato, malato e razionale, perfino con l'aiuto moderno del calcolo dell'Ibm per l'aritmetica binaria dei campi di sterminio. Non da Hamas o dagli abitanti di Gaza City o da quelli di Cisgiordania. Ora Israele ha le mani sporche di sangue innocente. Forse come non mai. L'Onu, diversamente da altri massacri, stavolta vuole indagare. Stavolta. Ché pure sono state feroci le tante, troppe, guerre, ben 10, che hanno avuto origine dal nodo mai sciolto scientemente dai governi israeliani del diritto dei palestinesi di avere una terra e uno stato, fermo restando il diritto eguale d'Israele. Che però se non lo riconosce nei fatti per la Palestina – con gli insediamenti che annullano la continuità territoriale dello stato palestinese, con la costruzione del Muro che ruba terre ed esclude, con il non diritto di milioni di profughi a tornare, con la detenzione di 10mila prigionieri politici, con l'eterodeterminazione delle leadership politiche palestinesi – perché dovrebbe pretenderlo per sé. I due termini ormai si sostengono solo a vicenda. Con l'ultima guerra di Gaza, sono stati bombardati insieme il futuro, perché si allarga il territorio dell'odio, e il passato. Siamo alla dissipazione da parte di Israele della sua profonda memoria storica. Ha scritto Franco Lattes Fortini nella sua straordinaria «Lettera aperta agli abrei italiani» del 24 maggio 1989, durante la fase più acuta della prima Intifada palestinese: «Con ogni casa che gli israeliani distruggono, con ogni vita che quotidianamente uccidono e perfino con ogni giorno di scuola che fanno perdere ai ragazzi di Palestina, va perduta una parte dell'immenso deposito di verità e di sapienza che, nella e per la cultura occidentale, è stato accumulato dalle generazioni della Diaspora, dalla sventura gloriosa o nefanda dei ghetti e attraverso la ferocia delle persecuzioni antiche e recenti. Una grande donna ebrea e cristiana, Simone Weil, ha ricordato che la spada ferisce da due parti. Anche da più di due, oso aggiungere». Così non è bastata ai governanti di Israele, che infatti si sono assai risentiti del contenuto dell'opera, la lezione venuta dal film di Steven Spielberg Munich, contro il diritto comunque e dovunque, alla rappresaglia che spesso coinvolge innocenti e alimenta il fuoco che invece si voleva minacciare e sradicare. Provate a guardarlo ancora quel film dopo i massacri di Gaza. Ma soprattutto azzerata sembra quella memoria interna dei grandi fondatori dello stato d'Israele che, come Ben Gurion, riconoscevano perfino il diritto dei palestinesi a lottare in armi contro i nuovi occupanti, quella laicità dei Leibowitz. Quella verità degli scrittori non ancora «a contratto» del governo di Tel Aviv come Amos Oz e Avrham Yehoshua che si sono dichiarati subito a favore dell'offensiva armata di Israele, salvo poi prendere tardivamente le distanze viste le troppe, assai prevedibili, vittime civili. Parlo della grande lezione etica di S. Yizhar (Izhar Smilansky) il fondatore della letteratura israeliana, che in un piccolo romanzo La rabbia del vento del 1949 – vale la pena riflettere sulla data – racconta la storia di una brigata dell'esercito israeliano impegnata con la violenza a cacciare famiglie palestinesi dalla loro terra, e che aprì proprio alle origini un dibattito serrato sulle basi etiche del nuovo Stato d'Israele. Che così si conclude: «I campi saranno seminati e mietuti e verranno compiute grandi opere. Evviva la città ebraica di Khiza! Chi penserà mai che prima qui ci fosse una certa Khirbet Khiza la cui popolazione era stata cacciata e di cui noi ci eravamo impadroniti? Eravamo venuti, avevamo sparato, bruciato, fatto esplodere, bandito ed esiliato...». E ancora: «... finché le lacrime di un bambino che camminava con la madre non avessero brillato, e lei non avesse trattenuto un tacito pianto di rabbia, io non avrei potuto rassegnarmi. E quel bambino andava in esilio portando con sé il ruggito di un torto ricevuto, ed era impossibile che non ci fosse al mondo nessuno disposto a raccogliere un urlo talmente grande. Allora dissi: non abbiamo alcun diritto a mandarli via da qui!...». Un solo impegno ci rimane: restiamo umani, come inesorabilmente ci ammoniscono i reportage di Vittorio Arrigoni. | << | < | |