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| << | < | > | >> |IndicePer chi legge 5 MAGIE D'INFANZIA Casa di bambola 9 Le sferruzzatrici 11 La bambina e il soldatino ussaro 13 La verdigiallumina 15 Un cucchiaio di Adisole 17 Madama Conigliut 19 Il medaglione della zia Rosina 21 Io sono Carmen 23 Sorci verdi 25 Del modo di mangiare gli spaghetti 27 L'albero di Aurora 29 Le filastrocche di Tirititùf 31 Lo zucchero di nonna Virginia 33 Camilla e le rose gialle 35 Ninnananna veneziana 37 La Primula Rossa 39 Pioggia di rose 41 Evar e Candullino 43 Don Camillo a Grenoble 45 Gelosie d'infanzia 47 Burro di bagigio 49 I biscotti di zia Enrica 51 Il prosciutto di nonno Carlo 53 Calli e calce 55 Il trenino Märklin 57 Segni di primavera 59 Il cortile dei girasoli parlanti 61 IL COLORE DEI RICORDI Nostalgia di un amore 65 La grotta delle Ninfe 67 Il Fechner Day 69 Di anguille e di veleni 71 Oh mia bella Cunegonda... 73 Kriminal Tango 75 Ippopotami di peluche 77 Agosto alla Ferriera 79 «Accòmodati lo stomaco» 81 Il capitano von Köpenick 83 Un concerto a Göttingen 85 Avventura in Transilvania 87 Il letto come una culla 89 L'acquata 91 I grandi si onorano lavorando 93 Neve 95 Un'avventura di guerra 97 La Cassa Peota 99 Katramìs 101 Panzarottini abruzzesi 103 Il pianoforte di Saddam 105 La contessa Maria 107 L'armeno che voleva imparare l'italiano 109 Oh, mia Cilicia 111 Beneficenza giapponese 113 FRA SACRO E PROFANO Santa Maria delle Armi 117 Angeli 119 Mattutino 121 Generosità di un soldato rodiano 123 Pietra Relitta di Mastro Bonincontro e la catena del bene 125 Solitudine di un parroco 127 San Fortunato dalle scarpette d'argento 129 La lapide dello zio Augusto 131 Santa Patata 133 Le favette dei morti 135 Christmas Spectacular 137 Messe in latino 139 Una domenica a Sant'Ilario 141 La cappella della stazione 143 Messa di mezzanotte a San Gaetano 145 TEMPI MODERNI Furia belluina 149 La curiosità della scimmia 151 Il tempo non fa marcia indietro 153 Le colline di New York 155 Inverno a Venezia 157 Il lamento del tassista 159 Il ritorno del congiuntivo 161 Ingegnosità italica 163 Lacrime e riservatezza 165 Treni di provincia 167 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Convinta che fosse un giorno speciale, avevo deciso che la guerra sarebbe finita per il 30 aprile, il mio compleanno. Comunicai quindi, a pranzo, la cosa all'intera famiglia: ma invece di applaudirmi, tutti si misero a sospirare e a prendermi in giro, dicendo che ci sarebbero voluti ancora dei mesi prima del crollo della Germania. «Con tutta la fiducia che si può avere negli Alleati, io ho studiato a Berlino» disse papà con aria pensierosa «e ti assicuro che non è facile aver ragione di loro, domarli, insomma.» «In guerra, hanno sempre una marcia in più, come i turchi» aggiunse zia Enrica, e impallidì, come ogni volta che ripensava alla terribile storia della sua vita. Io non volevo arrendermi, e allora dissi, con aria petulante: «Scommetto che per la fine di aprile i tedeschi saranno scappati». «Se succederà davvero» disse il nonno «ti farò fare una casetta per le bambole dal signor Bedorin.» «Non viziarla, papà» scattò la mamma «ha già troppe stramberie in testa, manca solo che si metta a fare la profetessa.» Il nonno si accarezzò il pizzetto e concluse: «Vedremo». La guerra finì il 25 aprile, e io ebbi la mia splendida casetta quadrata, con quattro stanze e le tendine alle finestre... La mamma protestò, dicendo che in verità la Germania aveva capitolato solo in maggio. | << | < | > | >> |Pagina 27Papà Khayël non aveva molta pazienza, né tempo, ma sul modo di mangiare gli spaghetti era esigentissimo, sicché quando venivano portati in tavola, un lamento si levava da tutti noi, che dichiaravamo concordi di non aver fame. Non serviva a niente. Dovevamo esibirci ad arrotolarli sulla forchetta, con l'assoluta proibizione di aiutarci col cucchiaio, o di tagliarli, che era il massimo dell'orrore. La faccenda si svolgeva in vari stadi, e finiva sempre in pianti di Carlo, che li chiamava serpenti, e si batteva con ogni spaghetto come fosse nella giungla. C'erano spesso ospiti stranieri, colleghi del papà, i quali naturalmente apprezzavano moltissimo gli spaghetti, ma li mangiavano peggio di noi. Così un giorno decisi di spezzare la tirannia dello spaghetto: e al buon professor Huizinga l'olandese, da noi amatissimo perché sapeva muovere le orecchie da sole (oltre che le sopracciglia, che andavano ognuna per suo conto), spiegai che il giusto modo di mangiare quella delizia italiana era di tirarli su dal piatto uno a uno, succhiando rumorosamente. Quando arrivò il piattone fumante, Huizinga fu servito per primo, e tutti aspettavamo ansiosi. Lui succhiò su dal piatto il primo spaghetto, con aria compita; e allora papà guardò lui, e poi me, sospirò, e attaccò anche lui a succhiare. | << | < | > | >> |Pagina 41Avevo appena imparato a leggere, dopo aver imbrogliato per molti mesi nonni e zii, facendo finta di capire la prima pagina di un numero del «Corriere dei Piccoli» che amavo moltissimo, e che sapevo a memoria. Allora stavamo al Dolo, sulla Riviera del Brenta. E dopo pochi giorni di scuola, scoprii la cartolibreria di fronte al canale. Sul davanti, era un negozio come tanti altri; ma dietro, c'era un retrobottega odoroso di legno e di libri, il profumo della felicità. Mi arrampicavo sulla vecchia scaletta di legno con i gradini scricchiolanti (e dal tipo di rumore il vecchio signor Arrigo, il proprietario, sapeva su quale scalino ero arrampicata, e a volte veniva a tirarmi giù: «No la xe par ti, sta roba», diceva con autorità). Ma un giorno trovai Pioggia di rose, una raccolta di novelle di Ferenc Herczeg, edizione Corticelli. Mi innamorai di ogni storia di quel libro. Mi piaceva ogni cosa: la copertina un po' rigida, le illustrazioni dal segno netto, senza sfumature, le pagine dalla stampa ben spaziata, che si leggeva facilmente; e soprattutto il titolo. E lo lessi tutto, seduta sulla scaletta, finché un pomeriggio trovai il coraggio di chiedere al signor Arrigo se mi permetteva di portarmelo a casa. «Certo» rispose «ma prima, sai, devi pagarmelo. Ricordati che chi legge, paga.» | << | < | > | >> |Pagina 43I libri della Scala d'Oro erano stipati nel vano di una vecchia porta, in casa dei nonni. Avevano comprato tutta la collezione, e l'avevano sistemata là per i nipoti. Quella porta era per me un paradiso e un tesoro, di cui non volevo far parte con nessuno. Andare a Roma dai nonni significava la vecchia casa di via Nomentana, i piccoli aeroplani e i manifesti della crociera transatlantica di Balbo (in casa del nonno erano tutti aviatori), la pizzeria in viale Regina Margherita e il negozietto di verdura al di là della strada, dove potevo andare da sola e ascoltare l'affettuoso romanesco della sora Letizia; ma anche la Scala d'Oro, da leggere all'infinito, entrando nelle storie e nei disegni meravigliosi. Il più amato era il libro delle avventure di Candullino, l'eroe d'Irlanda dai capelli fiammeggianti. Il bravissimo disegnatore era, ricordo, Vsevolod Nicouline, e Diego Valeri raccontava le gesta straordinarie dell'eroe e della sua innamorata, Evar dalle bionde trecce e dagli occhi di viola, che un disegno mostrava bellissima, con le trecce mollemente semisciolte intorno al viso. Volevo imitarla, con passione: ma non mi riuscì mai di rendere seduttive le mie treccioline scure, strettamente legate ogni mattina dalla signora Zaira, che non ammetteva teste vuote né frivolezze. | << | < | > | >> |Pagina 57Nel "camerone" in fondo al corridoio dormivano eventuali cugini in visita e troneggiava il trenino Märklin del papà. Non era permesso toccarlo. Il signor Bedorin, che aveva costruito il tavolone che serviva da base per le locomotive, i vagoncini, le stazioncine e la casetta dei ferrovieri, aveva fatto anche le collinette e il laghetto. «Ci sono perfino i pesci disegnati sul fondo!», commentò un giorno ammirata nonna Virginia. Lo sfondo era stato realizzato, con colori vividi e un segno forte, da un giovane pittore silenzioso, che in pochi giorni affrescò anche tutta la parete, e poi scomparve. Non riuscimmo mai a sapere il suo nome, nonostante andassimo da lui in ogni momento libero, estasiati per come lavorava. C'erano alte montagne e paesaggi lunari, neve e sole, realistici edelweiss e fiori sconosciuti; un camoscio snello, in bilico su una vetta, esibiva le sue corna orgogliose. Pastori dall'aria severa pascolavano mucche e pecore e capre in idilliaca libertà su prati smeraldini; ma ai lati c'erano vipere in agguato, così minacciose che l'attenzione finiva per convergere su di loro. «È un profugo» disse papà quando gli domandammo di lui «non vedete dal quadro quanta paura ha? Al contrario di voi, non ha più una casa, non può fermarsi in nessun posto: deve continuare a scappare.» | << | < | > | >> |Pagina 85Andai in Germania dopo l'esame di maturità. La città di Göttingen, con la sua grande università, era stata poco toccata dalla guerra, e nel mio ricordo è piena di alberi e fontane; la più nota si chiamava Gänseliesel, la Lisetta con l'oca. Era una statua di modesta altezza, dall'aria gentile e romantica — affabile, direi — che ci inteneriva tutti, una ragazzina campagnola che portava a spasso una bella oca grassa. Non c'erano tradizioni né leggende antiche dietro il suo bel visetto, ma solo l'amore della città, che, volendo una bella fontana nella centrale piazza del Mercato, decise che fosse una popolana, invece che qualche austero universitario. Tutti noi studenti l'amavamo, e le portavamo mazzi di fiori, da quando salire a baciarla era stato tassativamente proibito dalle autorità civili e accademiche. Con Bruno, il mio ragazzo di allora (provvisorio: non volevo studenti di medicina!), un giorno arrivammo con un mazzetto di giunchiglie e ci sedemmo sul bordo della fontana. Poi lui si aprì sulle ginocchia un piccolo giradischi e disse: «Chiudi gli occhi e ascolta». Fu così che io, ignorantissima di musica, ascoltai per la prima volta sul serio, con un'intensità moltiplicata dall'emozione amorosa, il Concerto per violino e orchestra di Beethoven, e me ne innamorai per sempre. | << | < | > | >> |Pagina 105La signora Seta era una pianista di vaglio; vivendo in Iraq, dove i pianisti non abbondavano, era diventata la più importante del paese. Saddam Hussein, allora al potere, la ascoltò in un concerto a Baghdad, alla presenza dell'intero corpo diplomatico, e decise di mostrarle il suo gradimento donandole un bellissimo pianoforte a gran coda. Seta e i suoi furono molto grati per il munifico dono, e lui poi convocò la pianista in diverse occasioni, per esibire lei e il suo meraviglioso strumento. Ma quando la vita per gli armeni in Iraq si fece difficile, molti se ne andarono dal paese, e con loro Seta, la sua famiglia e il pianoforte. Io la conobbi diversi anni dopo, a St. Paul, Minnesota. Era una vecchina vivace e dallo sguardo acuto, che ancora si entusiasmava quando conosceva gente nuova. Mi invitò a casa sua per un tè «con pasticcini orientali, non queste schifezze di qui», mi specificò. Quel giorno mi mostrò il suo famoso «pianoforte di Saddam», e suonò qualche pezzo classico e un paio di canzoni popolari, accompagnandosi con una vocina esile, ma ancora perfettamente intonata. E infine disse: «Sono senza soldi, dovrei venderlo, ma nessuno lo comprerebbe!» e, alzando il coperchio, ci mostrò l'interno, dove campeggiava, a eterna memoria del dono, il faccione del dittatore. | << | < | > | >> |Pagina 109Mi viene a trovare un amico dalla Turchia. Ogni volta mi porta qualche frammento che trova qua e là, resti della grande civiltà armena di Turchia anteriore al 1915: un piattino, un pezzetto di stoffa... Ieri è arrivato con un libro, un esile volumetto malconcio, Cento regole di grammatica italiana a uso della quarta e quinta classe elementare, stampato dalla Paravia a Torino nel 1889. Qualcuno lo ha studiato con diligenza: ci sono molti segni a penna e a matita, crocette, annotazioni. Sulla prima pagina, in bella calligrafia, il nome dello studente, e la data: «Gabriele Attar, 1893»; sull'ultima, alla rovescia, la stessa mano ha scritto lo stesso nome in armeno, ma completo: «Gabriel Attarian». Chi era Gabriele, quali sogni, quali speranze nutriva questo giovane che voleva imparare l'italiano, e si comprò per cominciare un breve compendio per le scuole elementari? Qual era la sua città, quale fu il suo destino? L'anno dopo, nel 1894, cominciò il calvario degli armeni dell'impero. 200.000 vittime fra il 1894 e il 1896, opera del Sultano Rosso Abdul Hamid; 30.000 nei massacri di Adana, 1909; più di un milione nel genocidio del 1915-16. Poi il buio e l'oblio.
Chissà dove sarà finito, se è sopravvissuto. Dal mare della storia mi è
arrivato un frammento della sua vita, un silenzioso appello.
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