Copertina
Autore Antonia Arslan
Titolo La strada di Smirne
EdizioneRizzoli, Milano, 2009, La scala , pag. 288, cop.ril., dim. 14,5x22,3x2,7 cm , Isbn 978-88-17-02799-1
LettoreFlo Bertelli, 2010
Classe narrativa italiana , paesi: Armenia
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Indice


Prologo                              11


Verso l'Italia                       19

La rosadina                          49

Hagop e Sylvia                       89

Il sogno anatolico                  131

La fine del sogno anatolico         195

I fuochi di Smirne                  249


Ringraziamenti                      285


 

 

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Pagina 11

Prologo



«Veramente in italiano presse-papiers si dice "ferma-carte"» sospirò la signorina Mac Arpiarian prendendomi dalle mani la pesante palla di vetro tutta piena di colori brillanti, «e non si dovrebbe dare in mano ai bambini.»

Poi la posò sulla scrivania, nel perfetto centro di una pila di lettere pronte per essere firmate da nonno Yerwant, si tirò un pochino indietro e la spostò di lato, a mia grande invidia. Lei poteva toccarla, io no. Questa era la semplice verità della dittatura degli adulti, non credevano mai che tu potessi fare le cose senza rompere qualcosa, toccare il presse-papiers del nonno, mangiare marmellata senza esagerare, rinunciare a fare il riposino pomeridiano ("riposino": che parola orrenda. Dormire nel pomeriggio non aveva niente di un tenero diminutivo, era noioso e pedante, oh, quella porta che si chiudeva impietosa, quel finto buio che chiudeva fuori la luce e i colori del giorno...).

La signorina Arpiarian era una profuga armena, veniva da Costantinopoli. Mi insegnava il francese e a bere caffè orientale. Poi leggeva i fondi e mi prediceva rosei e avventurosi futuri. Era piccolissima, magrissima e povera, e si spaventava facilmente. Portava stravaganti ciabatte ricamate a fiori, con la punta rivolta all'insù, in francese mi faceva leggere poesie sentimentali e brevi raccontini con resoconti di buone azioni, con un accento che lei stessa definiva "deliziosamente costantinopolitano" (imparai prima l'aggettivo che il significato, e la città di Costantino la imparai così, con torri e castelli, principesse velate e scatole di dolci e misteri, in totale familiarità con le fiabe dell' Enciclopedia della Fiaba).

La signorina Arpiarian aveva un nipote in Francia, un nipote importante, alto funzionario di qualche cosa, che non veniva mai a trovarla, e questo era il suo cruccio. «Vedrebbe con i suoi occhi che insegno alla Berlitz School, e ho il mio appartamento, potrei perfino ospitarlo. Vedrebbe che vengo a pranzo da voi ogni settimana, e che il tuo nonno si fida di me, che non sono mica una governante.»

Veramente, pensavo, la signorina Arpiarian era molto meno importante della mia tata. Non comandava a nessuno, e chiedeva sempre un po' d'acqua, per piacere, con una vocina bassa bassa, in francese, così la tata poteva far finta di non capirla. L'acqua gliela portavo sempre io.

Così pensai di poterla ammorbidire facilmente, una volta di più. «Il nonno me la darebbe, la palla» dissi, in perfetta malafede. «Magari si arrabbia se non me la dai.»

Allora mi fece sedere su una delle seggioline basse del salotto di paglia di Vienna che stava dietro la scrivania del nonno. Mi disse di tenere unite le gambe, e il vestito ben tirato. Poi sollevò solennemente la meravigliosa palla di vetro e me la posò sulle ginocchia. Non ho mai dimenticato quel momento. Potevo toccarlo, il presse-papiers, seguire i colori col dito, immaginare le battaglie che si svolgevano al suo interno, far aderire il palmo della mano alla piccola base, dove il cristallo si appiattiva. Sentivo e accarezzavo il meraviglioso levigato freddo della rotondità esterna, e guardavo senza fine il gioco dei colori compressi dentro il vetro, la loro vita raggelata e costretta all'interno del lucido globo. Quei colori urlavano per essere liberati.

«Anch'io ne avevo uno, a Costantinopoli» disse nostalgica la signorina Arpiarían. «E all'interno si vedevano armoniosi intrecci di colori pastello, volute delicate come trine. Mia mamma lo teneva sul tavolino da lavoro, per fermare le gugliate di seta colorata per i cuscini che ricamava. Era un presse-papiers di vetro veneziano, che suo padre le aveva portato da Murano.»

Mi rannuvolai un poco alla descrizione di quella meraviglia. «Quello del nonno è molto più bello» affermai con sicurezza. «E certo è più grande del tuo, e costa molto di più. E poi questo ha dentro delle storie, forse ci si può anche entrare, con qualche incantesimo.»

La signorina Arpiarian mi guardò sbigottita. Sono sicura che in quel momento mi odiò con tutte le forze del suo povero cuore, vide in me una bambina privilegiata e petulante, e poi si detestò, vergognandosi di prendersela con una creatura piccola. E sono anche sicura che poi si domandò se davvero si poteva con qualche incantesimo entrare nel mondo dei presse-papiers. E penso che concluse che sì, si poteva, visto quello che poi successe.

«Sei cattiva, bambina» mi disse. «Non vale la pena di farti dei piaceri. Non ti farò entrare in quel mondo, non ascolterai quelle storie.» E si chinò per portarmi via la palla dalle mani, ma io ero pronta a resistere, e la strinsi con tutte le mie forze.

Avevo mani piccole, ma erano tanto piccole anche le sue: così nessuna delle due riuscì a tenere ben salda la palla, che scivolò atterrando sul pavimento alla veneziana, tutto a gobbe lucenti di frammenti di marmo. E tutte e due sentimmo, con orrore, un tintinnio di sinistro auspicio.

Io mi buttai per terra, la signorina Arpiarian dietro. La preziosa palla era rotolata lontano sul vecchio pavimento inclinato, fino all'angolo più basso, e si era scontrata col termosifone, ma senza spezzarsi. Ora una vistosa crepa la solcava, irradiandosi all'interno con altre crepe sottili, che seguivano i colori intrecciati, e scomparivano come nel fondo di un gorgo misterioso. L'interno del presse-papiers ora appariva davvero la porta di un mondo fatato, con strade, colori, paesaggi ignoti: e a tutte e due, l'ingenua signorina invecchiata e l'ingenua bambina prepotente, si rivelarono per un momento irraggiungibili mondi segreti e femminili armonie.

"Cosa diremo al nonno?" si domandò stropicciandosi nervosamente le mani la signorina Arpiarian; e "Cosa dirò al nonno?" mi domandavo io. Avevo sempre visto quella meraviglia (che ora però, essendosi incrinata, mi pareva fosse diventata quasi mia) accuratamente al centro delle carte sulla scrivania, e solo il nonno poteva maneggiarla. Mille volte l'avevo visto mentre la toccava con delicatezza e autorità, con quelle sue mani piccole e forti, rotonde; e poi se la guardava, come se seguisse i sentieri dei colori interni, come se la sua mente trovasse pace nel contemplarla, nel seguire col dito sulla superficie le linee dei colori.

Infatti, io avevo voluto imitarlo; come avrei voluto portare scarpe simili alle sue, gli scarponcini con la fila di bottoni laterali da allacciare ogni mattina, color grigio perla, o l'orologio da panciotto con la catena d'oro con le monete armene. E mi sarebbe piaciuto da morire che, invece della tata Zaira che mi pettinava ogni mattina i capelli in due trecciolini strettissimi, fosse venuto anche per me ogni due giorni il signor Decassut, detto Barbierut, come veniva per il nonno, a radermi il cranio. Si stava molto freschi senza capelli, e nessuno te li tirava.

E anche se non avessi potuto radermi i capelli (capivo che era una cosa un po' audace, per una bambina), questo avrebbe significato, intanto, che mi avrebbero pettinato ogni due giorni invece che ogni giorno, vantaggio non da poco, ragionavo; e poi, era così bello sentire i due uomini che parlavano quietamente del tempo e dei fatti del mondo. Mi sarebbe piaciuto stare sulla poltroncina, con qualcuno che si affaccendava intorno a me.

Anche la scrivania era bellissima, piena di cassettini, con piccole guglie di legno agli angoli e una ringhierina tutt'intorno, e una tazza di vetro in cui stava infilata la forbice a forma di gru, col becco smaltato che si apriva e che non ero mai riuscita a raggiungere...

La signorina Arpiarian e io, ancora sedute per terra, ci guardammo deglutendo. I passi del nonno si avvicinavano, era troppo tardi per alzarsi, per nascondere la palla, per inventare una scusa.

Lui disse in armeno una frase che, lo sapevo, preannunciava cose terribili, più o meno: «Cosa succede qui?». La disse in armeno perché si rivolgeva alla signorina Arpiarian, la ripeté poi in francese, per me. Non si dimenticò che in quel momento io stavo in teoria facendo lezione con la signorina, e tutto serviva, anche le sgridate, a familiarizzarmi con la lingua.

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Pagina 31

Per prima cosa, Ismene però va da Zareh. Anche Zareh è molto triste stamattina, e si sente abbandonato. Gli incontri furtivi con Djelal, le incessanti ansie per procurare il cibo e ogni necessità ai bambini nascosti in cantina, le ultime raccomandazioni a Shushanig prima della partenza (lui non poteva certo essere presente), lo hanno temprato; e l'alleanza con Marie-Joséphine e con i mendicanti, con Ismene e Isacco lo ha esaltato e confortato.

Ma oggi, anche per lui, il fine è raggiunto, e si sente come svuotato, e ha paura di trovarsi armeno, solo, inoperoso, in una città che lo rinnega. Non è più tempo, gli sembra, di belle imprese, di audacia coraggiosa. La guerra continua, e dappertutto c'è grigiore, penuria, miseria. Miseria dei cuori, prima di tutto. Nessuno qui crede veramente alla vittoria tedesca. Cortei di soldati turchi incattiviti e nervosi arrivano dal fronte, e nessuno racconta vittorie.

E tuttavia, ciò che preoccupa diplomatici e ufficiali è il fronte lontano, dove il conflitto in corso si sta trasformando in una guerra nuova, mostruosa, dai confini incerti, che coinvolge tutti: la Grande Guerra.

Zareh vorrebbe essere là, fare il medico al fronte, come un francese fra tanti, ma non lo può dire a nessuno. Perché è laggiù, lontano lontano, che si decidono davvero le sorti. Qui, l'angoscia dilaga, i residenti stranieri leggono delle trincee e dei pantani, degli eroismi inutili che si spengono in rituali raccapriccianti, delle battaglie infinite per prendere e riprendere un colle, una postazione, la riva di un fiume. Là, tutti respirano a fatica nell'immensa prigione in cui sembra spegnersi per sempre la vita garbata e gradevole dell'Europa ottocentesca.

Aleppo sembra lontana. La Siria, provincia. Ma qui c'è in verità uno dei nuclei profondi del Male che sta sommergendo la terra. Aleppo è il laboratorio dove si fanno le prove operative del vero scenario, profondo dietro la cortina, dell'abisso dei cuori dove le piccole malignità, i rancori meschini, le maldicenze della gente comune si cementano in desiderio di dominio, si trasformano in bramosia di massacro, e l'odio di razza diventa volontà di sterminio a tutti i costi, sopra e contro ogni ragione.

Ad Aleppo si esplorano i confini dell'orrore umano, e la città è in bilico. Una misteriosa bilancia del fato è sospesa sopra di lei, e le forze del Bene sembrano disperse, inermi, prive di fiducia. Sembrano in rotta di fronte a una malvagità organizzata e moderna, che sposta popolazioni intere con ordini dati a tavolino, e fa avanzare mostri di ferro dai confini del mondo. Lo scalpitio di generosi cavalli contro il sordo ritmico clangore di carri armati, pensa Zareh, che ha letto di questi nuovi spaventosi arnesi di guerra: ed è convinto che questi, come la grande Berta, il mitico cannone dei Krupp, possano essere inventati solo dai tedeschi.

Il suo cuore palpita, ovviamente, per francesi e inglesi (gli americani sono ancora dietro l'orizzonte). E sente la morte del suo mondo, e pensa con orrore, come a un simbolo, all'affondamento del Titanic.


I pochi armeni sopravvissuti delle carovane arrivate dal Nord, è l'ordine, devono venir spediti più oltre, nel deserto siriano, fino a Deir-es-Zor, fino alla morte. Tutti gli armeni di Aleppo, compreso Zareh, aspettano trepidanti, nascosti come talpe cieche, sudando paura.

Ismene, che è sempre molto prudente quando va da Zareh, oggi raddoppia le precauzioni; ma sa che deve parlargli. Entra guizzante dalla porticina sul retro, scansa il gatto di casa, e lo trova seduto a fumare meditabondo, con la zimarra a quadri che indossa solo in casa, e indica solitudine e malinconia. Marie-Joséphine non l'ha infatti mai visto, il camicione sotto cui si nasconde Zareh quando si ricorda di essere armeno, e per niente francese, e di essere in pericolo quanto qualsiasi altro pastore d'Anatolia.

«Le docteur» dice Ismene, convinta che questa sia una formula molto rispettosa e molto elegante, «le docteur, vieni con me. Devo farti vedere una cosa importante.»

«Non ho tempo» risponde Zareh con tono ansioso, «non vedi che sto pensando? Devo decidere tante cose.»

«Le docteur, niente devi decidere» risponde sibillina Ismene. «È già tutto deciso.»

Spaventato, Zareh la fissa. "Deportazione? Anch'io? Hanno scoperto Shushanig?" si agitano i pensieri nella sua mente, come frutti velenosi della paura.

Ismene capisce tutto, ma quando ha uno scopo, diventa spietata: «Vieni con me, e vedrai» ripete. Ma non gli dice di non avere paura.

Così Zareh si guarda intorno, patetico; afferra la sua borsa di medico, poi ci ripensa, e cerca il sacchetto con un po' di pane e di cibo, sempre pronto nel vano della finestra che dà sul cortile.

Ismene a questo punto capisce che ha esagerato, perché vuole lavorare ancora con lui, le è simpatico, e poi è fratello di Sempad. Così gli dice: «Non è successo niente, le docteur, non aver paura, vieni soltanto con me» e gli mostra il dollaro d'oro, «dobbiamo comprare del cibo e andare all'orfanotrofio tedesco».


Quando Fräulein Nussbaum vede arrivare Zareh con Ismene, che le dice: «Ho portato un medico; il cibo arriverà tra poco», sempre più si convince che la sua preghiera è stata ascoltata, e che questi sono angeli. Ma quando vede arrivare un facchino con un asino e due casse di pane e di frutta, allora si mette a piangere quietamente in tedesco; e sempre poi racconterà, durante la sua lunga vita operosa di infermiera e caposala, che quello è stato il momento più felice della sua vita, e che il facchino era certamente un Arcangelo.


Lontano, nella verde Italia, è la seconda estate di guerra. Il tempo si trascina fra un attacco e l'altro, avanti e indietro nelle trincee; le fortune sembrano oscillare, si percepisce soltanto che l'incertezza durerà a lungo.

"L'Italia ha scelto. Ma ha scelto bene?" si domanda Yerwant, ansioso, ferito, che non può parlare con nessuno. Ma di fronte all'orrore di un'alleanza coi turchi...

Dopo l'azione fulminea che ha salvato Shushanig e i bambini, Zareh gli ha scritto per via diplomatica una lettera piena di informazioni, e gli ha chiesto consiglio, e riflessione. Yerwant è il maggiore, ma sono rimasti soltanto in tre, e bisogna consultare anche Rupen, laggiù a Boston.

Lettere nervose si incrociano, e Yerwant si sente investito di un'angosciosa responsabilità. In quell'anno terribile si trova a reimparare la pazienza e le astuzie orientali, a giocare sulle scacchiere misteriose dove ogni mossa può essere fatale.

Cosa fare dei bambini, e di Shushanig? Dove farli approdare, per ricostruirgli una vita decente? Shushanig, consultata, non ha deciso niente. La sua forza sembra essersi spezzata; ha incaricato Zareh di dire a Yerwant che non si offenda, lei andrebbe volentieri in America. Anzi, più lontano possibile, in California.

California, il paese sognato; o l'Italia, il paese di Yerwant? E tuttavia nessun progetto le appare concreto; Shushanig sa, dentro di sé, che nessun progetto la riguarda più — e non può dirlo forte. Sa che deve stringere i denti ancora per poco, finché Zareh riuscirà alla fine a organizzare il viaggio, e che devono passare questi lenti mesi in cantina. Occupa tutto il tempo con le figlie ritrose, con Henriette silenziosa, a insegnarle a leggere, con Nubar, inventando giochi con l'aiuto di Ismene. Il suo bel viso sciupato non si arrotonda più, e le sue tasche pendono sguarnite come malinconiche saccocce svuotate.

Lontano, nella verde Italia, Teresa dei conti Sartena sta in trepidante attesa delle decisioni di Yerwant, che non sa decidere. Per parte sua, li manderebbe tutti in America: non è contraria, certo, ad aiutare i nipoti orfani e Shushanig; vorrebbe solo tenerli lontani, collocarli da qualche parte, ma altrove. E se proprio dovesse accettare una delle ragazze, mandarla subito in collegio, a sgrezzarsi e imparare le buone maniere.

Rupen da parte sua allarga le braccia di là dal mare. Lui vorrebbe tutti, fare famiglia. Non lo spaventano le bocche in più, anzi pregusta già le sere al caldo in casa, a contarsela all'armena coi piedi sotto la coperta, invece delle salsicce fredde sulla carta oleata che mangia nella sua stanza in affitto. Il lavoro non manca in America, e i giornali parlano tutti i giorni degli starving Armenians. Rupen vorrebbe sposarsi, tra poco, e gli piacerebbe che la saggia cognata Shushanig vivesse con lui e la giovane moglie, trasferendole i costumi e i cibi del Vecchio Paese, che lui sogna ogni notte.

Da quando ha saputo della barbara morte di Sempad il fratello maggiore che gli ha insegnato tante cose, e che lo ha spinto ad andare in America, Rupen soffre e si prepara. Ha sempre avuto scarsi rapporti col mitico Yerwant, che è tanto più vecchio di lui, e ha studiato tanto. È ingenuo e sportivo, Rupen: si è appassionato del gioco nuovo che ha visto a Boston, il baseball, va con un gruppo di amici a tutte le partite dei Red Sox ed è diventato, crede lui, un esperto.

Rupen crede anche che il suo inglese sia perfetto, e spera di insegnarlo per bene ai nipoti in arrivo. Ma intanto, tutti e due i fratelli mandano un po' di soldi a Zareh, e aspettano.

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Pagina 64

Ma dopo una giornata di estenuanti pellegrinaggi, Hagop e Sylvia, due dodicenni dello stesso paese che stanno sempre appiccicati, immersi in una loro fitta nuvola di pena, e che pure avrebbero trovato asilo in due famiglie di brava gente, si inginocchiano insieme ai piedi di Ismene e dicono, insieme:

«Abbiamo cambiato idea. Non ci separate. Quando saremo più grandi, ci sposeremo, ma intanto, lasciateci insieme. Non possiamo tradirli. I nostri morti non sono morti del tutto, se noi due possiamo parlare con loro, e raccontargli la vita».

Allora Ismene li fa rialzare, e dice: «Certo che vi sposerete. Sembrate fatti l'uno per l'altra. E io vi farò da testimone, e vi farò ridere con i miei fazzoletti colorati, e i giochi di prestigio. Sono bravissima, sapete?».

Hagop e Sylvia la guardano incantati. Sono piccoli e brutti, con le faccette un po' gonfie ("Troppe patate" pensa Ismene, "ma come fare?"). La ragazzina è grassa, di quel grasso malaticcio di chi mangia improvvisamente a sazietà dopo mesi di fatica e di digiuno; il ragazzo ha un grosso testone rapato da cui emergono due occhi infossati e tristi, che sembra non sorrideranno mai più.

Ma oggi fa uno sforzo, e si comporta da uomo: «Nessuno ti toccherà più, Sylvia cara» pronuncia solennemente, e le mette una mano sotto il braccio, come un fidanzato vero. Vengono da Erzerum, da un convoglio di deportati dei più miserabili, dove il numero dei morti è stato altissimo.

Se Hagop parlasse, e raccontasse come per salvarsi, con una zia, ha dovuto sciogliersi dalla mano del suo fratellino più piccolo, e lasciarlo indietro, nel deserto, da solo, che gridava il suo nome; e se Sylvia, che sembra aver misteriosamente dimenticato tutto, ricordasse l'odore e il peso su di lei della guardia che l'ha violentata, forse non penserebbero che a morire, come tanti hanno fatto; ma le grosse, abili mani di Ismene e il suo sorriso misterioso e antico li hanno confortati.

(Si attaccheranno a lei come agnellini; e moriranno insieme nel fuoco e nelle fiamme di Smirne.)


In una settimana, è deciso, dovranno andarsene. Il comando tedesco fornirà dei mezzi militari per il trasporto, e garantisce una sistemazione decorosa a Smirne: il fatto è che molti tedeschi si sentono assai a disagio, nell'avere a che fare con la catastrofe degli armeni e con le sue conseguenze. Potendo, non vogliono altri morti, soprattutto non tra i bambini già salvati; e spedirli nella grande città, abitata in maggioranza da cristiani, è sembrata un'ottima soluzione.

«Così ci leviamo di torno Fräulein Nussbaum, quella noiosa zitelluccia, sempre a protestare, incapace e stolida, e anche quella terribile strega della greca» sibila fra i denti il capitano Ziegler, responsabile della logistica, perseguitato tutti i giorni dalla Fräulein, che si lamenta, con la cuffietta da infermiera di traverso, e dalla sbrigativa Ismene, che invece di lamentarsi grida con voce possente le sue ricche maledizioni.

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Pagina 113

Nello stesso giorno in cui Ismene va a Chio, a Smirne, nella stanzetta di Sylvia, Hagop si è inginocchiato per terra, e le sta abbracciando le ginocchia, inconsapevolmente ripetendo il gesto solenne del supplice che si prosterna davanti alla divinità.

Sylvia e Hagop ora hanno quattordici anni, e hanno un aspetto migliore, tutti e due. Qualche volta sorridono, soprattutto quando si guardano, e sono diventati le ombre servizievoli di Ismene e Isacco, sempre pronti a qualsiasi incombenza, svelti e capaci di intrufolarsi dovunque. Ma sono rimasti piccoli e brutti, e sanno bene che per ciascuno dei due non c'è speranza che nell'altro e ciascuno vede nell'altro una misteriosa bellezza, l'incanto di quel Mondo Perduto che solo loro conoscono, e la voce sussurrante dei loro morti.

Ma il sangue ancora vivo preme nei loro fianchi sgraziati, la forza dell'istinto si risveglia, chiama, li travolge.

La vicinanza fisica, il contatto dei corpi è stata l'unica forza positiva che li ha fatti incontrare durante la deportazione, e gli ha permesso di sopravvivere. Stringersi, annusarsi, l'odore non del sangue e della morte ma della carne e della vita, accoccolarsi l'uno nelle braccia dell'altro, questo li ha protetti e medicati nelle lunghe notti di ansiosa attesa, mentre in ogni momento aspettavano che un calcio brutale li facesse balzare in piedi, che una faccia stravolta dall'odio li staccasse uno dall'altra.

Hagop e Sylvia non si sono più staccati; e sanno tutto dell'uomo e della donna. Hanno imparato tutto, guardando con gli occhi spalancati e asciutti le donne che gridavano nei cespugli, le ragazze scarmigliate, singhiozzanti dopo il passaggio dei soldati.

Ma ora la tenerezza non basta più. Nel più fondo del loro essere vogliono toccarsi davvero, vogliono consolarsi. E se Sylvia esita, mentre il terrore di quei giorni lontani riaffiora potente, Hagop sente che deve un poco forzarla, per il suo bene.

E in quel pomeriggio, mentre Ismene è a Chio, e parla coi serpenti della Nea Moni, il gesto umile di Hagop, con le braccia che tremano intorno alle ginocchia di Sylvia, e il viso appoggiato fiduciosamente sul suo grembo, le spezzano le catene intorno al cuore. Dalla finestra semichiusa, un occhio di luce danza sulla mano di Hagop.

E così i due ragazzi si spogliano lentamente e si guardano nella loro povera nudità. E poi ognuno di loro si immerge negli occhi dell'altro, e allora si sorridono in placida attesa. Le mani e i corpi si toccano appena, i piccoli seni di lei si irrigidiscono, e come in una danza serena essi trovano rifugio l'uno nell'altra. Ma nel fondo di quella tranquilla fiducia, ecco, nasce improvvisa la passione, l'umido calore di una tremula felicità.

E poi, stretti nel lettuccio di Sylvia, si mettono a canticchiare una canzone del villaggio, bevono un sorso d'acqua e si addormentano.

Così li troverà Ismene, ore dopo. La luce dorata del tramonto smussa gli angoli e inganna: e per un momento li vedrà quasi belli, coi capelli di Sylvia umidi, sparsi per il cuscino, e le mani di Hagop che li trattengono appena.

Ismene silenziosamente entrerà, e stenderà su di loro una copertina leggera di cotone bianco, senza accorgersi che sembra un sudario.

Il giorno dopo, Ismene parla a Isacco, e decidono che è giusto farli sposare. Loro non vogliono altro, non sanno più di passato né di futuro, vogliono soltanto vivere nella stessa stanza, mangiare insieme e dormire insieme. E intrecciare le mani nel sonno. È giusto accontentarli, dice Isacco, e ne nascerà qualche cosa di buono.

E infatti col matrimonio di Sylvia e Hagop l'orfanotrofio s'infiamma. La loro timida gioia ha ceduto il posto alla bruciante passione con cui s'inseguono dappertutto, al calore sensuale che li circonda, e tutti i ragazzi si sentono sferzati da un'improvvisa energia irrequieta.

Tutti cominciano a cercarsi parenti lontani o famiglie adottive, a fare progetti, a guardare con rinnovata pazienza i fatti del mondo. Molte cose sembrano assestarsi, nonostante la guerra; tutti si danno da fare, in un modo o nell'altro, e il tempo ricomincia a scorrere.

Ma un bel giorno la guerra finisce.

Novembre 1918: le potenze dell'Intesa hanno vinto. Il governo che ha portato l'Impero al disastro crolla rovinosamente, e così i fantasmi miserabili degli armeni scomparsi riaffiorano, e il Sultano riprende il potere: nomina una commissione d'inchiesta e dà ordine al primo ministro, suo genero Damad Ferid Pascià, di installare un tribunale speciale per i crimini commessi contro le minoranze.

Dappertutto, l'Europa è in pezzi. Nuove nazioni nascono dai frantumi dei grandi imperi tedesco e austro-ungarico, la geografia si ridisegna, anche l'Italia è in crisi profonda.


Passano alcuni mesi. Una notte, verso l'alba, quando il buio è più fitto, un bussare frettoloso e nervoso alla porta sveglia Ismene.

Curiosamente, non si allarma. Ha capito che là fuori è una donna che bussa. "Una sventurata che gira a quest'ora è una fuggitiva o una puttana" pensa Ismene, che conosce bene entrambe le categorie: e apre la porta, con cautela.

Le appare un fantasma infagottato, con un fitto velo calato sugli occhi, ma è un fagotto di cenci da cui escono delle mani strane, colorate, che neppure la vasta esperienza di Ismene riesce a riconoscere. «Sei Ismene la greca?» chiede il fantasma sussurrando appena, e al cenno di risposta si infila frettolosa in casa e si appoggia alla porta ansimando.

«Tu chi sei?» dice Ismene brusca, ma la donna non risponde, si stringe nei suoi stracci e chiede in fretta: «Sei tu, forse, che hai il mio bambino?».

Ismene crede che sia una delle madri degli orfani, che si è salvata e ha scoperto di avere ancora un figlio. Succede, a volte. E così risponde: «Vieni dentro al caldo, ti do un po' di latte e di pane. Domani mattina cercherai se c'è tuo figlio fra i nostri bambini».

Ma la donna sembra non ascoltare, e ripete la sua domanda, agitando le mani. Ismene si accorge che non sono sporche, come le era sembrato, ma tutte percorse da tatuaggi azzurrini, linee e cerchi che girano intorno alle dita. E ricorda che così sono tatuate le donne beduine del deserto siriano. Ma questa parla armeno, dunque è una fuggitiva che è scappata approfittando della fine della guerra. Una famiglia beduina l'ha di certo raccolta per fare la serva.

E con una mossa vivace Ismene le scosta il velo dal viso. È una ragazza abbastanza in carne, ma il viso è stranamente affilato, anch'esso tutto decorato di tatuaggi azzurrini. Qualcuno l'ha sposata, evidentemente, e l'ha fatta diventare una donna beduina. Ma questa non porta, come le altre, i suoi tatuaggi con orgoglio: gli occhi sono spenti e fissi, e si passa le mani sulle guance sfregiate, con un gesto meccanico e innaturale.

Ismene comincia a preoccuparsi. Ci sarà anche un marito da qualche parte, che probabilmente la sta inseguendo, e lei non vuole pasticci. Deve pensare ai bambini. "E poi, com'è arrivata fin qui? Chi l'ha indirizzata da noi?" Ismene e Isacco stanno bene a Smirne-la-Bella, le autorità li lasciano tranquilli, ma infine, non sono tempi da essere imprudenti.

La donna le prende le mani con forza, e ripete ancora: «Hai tu il mio bambino? È così piccolo, ma è robusto, sai. Ce la farà». E chinandosi su se stessa intreccia le mani come a fare una culla di carne, e comincia a dondolarsi cantando una ninnananna, su un motivo che Ismene non ha mai sentito, aspro e straziante.

«Lo vedi?» dice. «Non sembra tanto dimagrito. Ma io non ho più latte.» E improvvisamente esplode in un urlo lamentoso, e Ismene la guarda di nuovo in viso, e sotto i tatuaggi riconosce Vartuhi la bionda, la ragazza che era stata salvata da Shushanig col famoso rubino offerto al capo curdo che voleva rapirla, all'inizio della deportazione.

Ma troppo bella era, e troppo bionda, Vartuhi. Pochi giorni dopo essere scampata al rapimento, fu violentata da un gruppo di soldati, e rimase incinta, e poi se ne persero le tracce. Shushanig, Azniv, Veron e i bambini erano troppo presi dall'impresa di sopravvivere per badare agli altri della carovana. Vartuhi partorì da sola nascondendosi in un cespuglio, e nessuno si accorse di lei, e nessuno l'aspettò. E così si unì a un'altra carovana che passava di là, qualche giorno dopo, e con quelle altre povere donne arrivò ad Aleppo, ma non ebbe fortuna e fu tra quelli costretti a riprendere il cammino verso la meta finale, Deir-es-Zor nel deserto siriano. Vartuhi si strizzava i seni per un poco di latte, però mangiava solo erba, e il bambino morì per la strada. Ma Vartuhi continuava a cullare cantando il suo bambino morto di fame, e glielo dovettero strappare dalle braccia.

E un beduino del deserto la scelse e le salvò la vita, ma non la ragione. Vartuhi per tutti gli anni di guerra fu la sposa e la serva del beduino, che la fece tatuare per renderla più sua, perché era un brav'uomo, e voleva darle altri figli che cancellassero il ricordo del primo. Vartuhi lavorava molto, ed era sottomessa al marito, ma bisognava lasciarla cantare la sua ninnananna. Quando la intonava, si trasfigurava e vedeva il suo bambino, e la famiglia beduina rispettosamente le faceva spazio intorno e la lasciava cantare insieme ai bambini della tribù che intonavano con lei la canzone.

Finché un giorno, nel grigio novembre del 1918, un mercante di passaggio portò la notizia della fine della guerra, e aggiunse: «Ora gli armeni potranno ritornare a casa».

«Chi, i morti?» gli rispose il padrone di casa, accennando alla moglie, che sembrava non avesse sentito.

Ma quella stessa notte Vartuhi si alzò furtivamente, e lieve come il fantasma che era raccolse pochi stracci, una borraccia e del pane, e scomparve nel buio.

Ora, per le vie misteriose degli innocenti e dei pazzi, è arrivata da Ismene, a Smirne. E quando la riconosce, Ismene dice: «Canta per me, Vartuhi. Cantami la tua canzone». E Vartuhi si accoccola per terra, scosta il velo dal viso, e comincia a voce altissima la ninnananna delle deportate.

Agli ultimi versi la sua voce si fa sommessa, e inquieta: «Non ho più latte da darti» singhiozza, «solo sangue esce dai miei occhi». E Ismene allora la circonda con le sue braccia, e ripete con lei, cullandola, le parole della canzone. Stanno così per un lungo momento, dondolandosi insieme.

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Zareh ha intanto deciso, col fratello, di lasciare gli orfani in Italia, e in una calda mattina di metà giugno, già assorto nelle delizie che lo aspettano, si congeda dai nipoti con molti sorrisi, frasi affettuose e un profondo sospiro di sollievo. Ha fatto il suo dovere nel momento del pericolo: ora, povero Zareh, ha voglia di godersi le meraviglie dell'Occidente, e soprattutto di fare un po' il parigino. Là lo aspettano vecchi amici, fanciulle in fiore, ogni modernità e divertimento, pensa, prima di tornare ad Aleppo e giudiziosamente sposare la sua ragazza assira, che sta preparando il corredo.

D'altronde, le ragazze hanno capito subito che Zareh non è venuto per riportarle indietro con sé, adesso che la guerra è finita: e così gli hanno confidato la loro ferma intenzione di andarsene aldilà del mare, in America, appena finito il collegio. Rupen, da Boston, ha scritto che è pronto ad accoglierle.

E per convincere tutti che questo è davvero ciò che vogliono, cercano in ogni modo di restare estranee, non si sforzano di imparare l'italiano, fanno patetici dispetti alle Suore Orsoline, che vorrebbero farle diventare maestre.

«Maestre di che?» sussurra Arussiag furiosa. «Ti pare che il nostro destino sia quello di insegnare l'alfabeto italiano?» e ride, un risolino stridente, alla bizzarra idea.

«Ma tu non vorresti tornare indietro, nella nostra casa, alla nostra Piccola città?» chiede la sorella, mitemente, con una luce nostalgica negli occhi. «Lo zio ha detto che molti stanno tornando indietro. Ci sono le case, i negozi, i campi, i frutteti...»

Arussiag ride ancora, scoprendo un po' i denti: «Io non tornerò mai laggiù, a meno di convertirmi, e trovare un bel turco grasso che mi mantenga nell'ozio». Entrambe ridono convulsamente, e il discorso finisce lì. Piano piano, un passo alla volta, cominciano ad abituarsi all'idea della Grande Traversata, a cercare notizie sulle navi che fanno la rotta delle Americhe, a sognare – un poco – che forse là incontreranno qualcuno da cui farsi proteggere per tutta la vita.

Eppure non sanno che, nei loro silenziosi colloqui, Yerwant e Zareh hanno discusso proprio di cose molto concrete, di questi affari urgenti di famiglia. È vero che molti sopravvissuti stanno tornando alle loro case; è vero che stanno ricominciando a lavorare i campi, a riaprire le botteghe, a rifornire i magazzini. Il nuovo governo turco non è affatto contrario al ritorno di carpentieri, calderai, fabbri, cuoiai, orologiai, tessitori, di tutto quel mondo di artigiani abili e industriosi che è stato spazzato via dalla deportazione e dallo sterminio.

Sicché Yerwant ha detto al fratello: «Sempad è morto, io avevo rinunciato a ogni diritto ereditario in suo favore, se tu accetti trasferisco a te questo mio dono».

Zareh ha subito rifiutato, rabbrividendo. In un momento gli è passata davanti agli occhi la vita nella Piccola città, quella da cui tanti anni fa è fuggito, ma terribilmente immiserita. Case e chiese saccheggiate e distrutte, ombre di morti dappertutto, frutteti abbandonati, giardini ridotti a stalle, e lavoro duro, e i turchi di cui non ci si può più fidare, e la fertile dorata pianura di fronte alla cittadella inselvatichita da anni di abbandono... No, non è cosa per lui.

Lui preferisce il mondo siriano e la tranquilla vita di Aleppo, i suoi clienti arabi, il circolo degli scacchi, le serate danzanti all'Hotel Baron, e qualche ragazza morbida a cui raccontare finalmente le sue avventure, il coraggio che ha avuto, i nipoti salvati, l'ospitalità in cantina, il rischio affrontato quotidianamente. Perciò finge di riflettere per un paio di giorni, per non dare al fratello maggiore l'impressione di disdegnare la sua offerta, e poi solennemente rinuncia anche lui a qualsiasi diritto sulla Masseria delle Allodole, sulla campagna intorno, sulla casa in città, sulla farmacia.

Ma quello è il loro paese, quella la Patria Perduta, là sono le origini, la luce dei giorni assolati, il pane e il vino del cuore. E c'è ancora qualcuno. I figli di Sempad il farmacista, l'uomo dal semplice cuore: alcuni sono sopravvissuti.

E così insieme decidono che manderanno qualcuno a occuparsi di tutto, qualcuno di abile, un parente, possibilmente, in attesa che possa ritornare, a prendere il posto che gli spetta nella Piccola città, il piccolo Nubar, una volta divenuto medico o farmacista. E intorno a lui cominciano a costruire un nuovo sogno armeno, uno spiraglio di fiducia.

Le potenze alleate hanno vinto, i capi del governo dei Giovani Turchi sono in fuga, il Sultano ha installato un tribunale speciale per i crimini contro gli armeni, riflettono i due fratelli; siamo morti in tanti, più di un milione, si dice, le nostre donne sono state rapite, le nostre ragazze violentate, gli ultimi sopravvissuti sono stati fatti a pezzi nel deserto siriano. Ma ora che la guerra degli Imperi è persa, ora che Costantinopoli è occupata dalle truppe alleate, perché dovremmo continuare a vivere nel terrore?

La situazione è rovesciata, scrive uno zio Kardiashian da Costantinopoli, e i due nipoti, fumando quieti nello studio, se lo ripetono (ma a voce bassissima); la Grecia sbarca a Smirne, ci sarà uno stato armeno dopo mille anni, perché non riprenderci quello che è nostro? (Ma Yerwant non sembra poi molto interessato, parla appena, e dopo un poco le loro voci si abbassano, e i due fratelli scivolano nei ricordi d'infanzia, negli scherzi fatti al pastore protestante, sempre serissimo nel suo collarino, e alla scuola domenicale di vartabed Sarkis, col suo viso rotondo, che finiva ogni lezione chiedendo scusa al Signore Iddio per la sua scarsa abilità nell'insegnare a bambini così intelligenti, e poi li portava tutti nella vigna a tastare i fichi maturi.)

Trovano infine un lontano cugino, che è sempre stato sfortunato negli affari, ma fortunato per essere sopravvissuto tranquillamente alla Catastrofe, avendo scelto di vivere a Damasco, inosservato, factotum di un ricco signore arabo, che lo nutre con la famiglia, ma lo paga pochissimo. Aris (così si chiama) si è fatto vivo, come sempre ogni anno, per battere cassa con il ricco cugino italiano, e la sua lettera a Yerwant è quest'anno particolarmente lamentosa, perché il suo padrone, con la scusa che gli ha salvato la vita, è diventato ancora più stretto coi soldi.

«Aris è furbo» sospira Yerwant, «un camaleonte. È la persona giusta, se riusciamo a convincerlo. Parla arabo come un arabo, e turco come un turco.»

«Bisogna scrivergli una carta di delega, ma è meglio in italiano, con tutti i timbri ufficiali possibili» dice Zareh, «tanto più che l'Italia è una delle grandi potenze vincitrici, adesso.» Yerwant fa un sorrisetto amaro. Ma il fratello, quasi fra sé, aggiunge: «Ma tu sei cittadino italiano, no? Sicché ti sarà più facile rivendicare i beni di nostro fratello assassinato».

E così si decide. Una lettera con tutti i dettagli parte per Damasco, con l'annuncio di una forte cifra, e la promessa di un bel terreno, e della casetta vicino alla Masseria delle Allodole, dall'altra parte del giardino. "Sarà tutto da sistemare" scrivono al cugino i due fratelli, contenti della soluzione trovata, "ma tu diventi proprietario, e sei libero di assumere chi vuoi, e sarai protetto dalla bandiera italiana. Devi soltanto rivendicare la proprietà, risistemare tutto, riaprire la farmacia, se trovi qualcuno che se ne occupi, altrimenti lasciala chiusa. Quello che guadagni, a parte le spese, per il momento lo puoi tenere."

Aris si fa un po' pregare, naturalmente. E poi sua moglie ha paura, ha sentito troppe orribili storie, e i due bambini sono piccoli... Ma infine, il padrone è davvero esoso, a Damasco, e l'argomento principe, per Talin, la moglie, è la casa, che le è stata promessa tutta sua, e ben arredata. Già Talin vede dove metterà le sue pentole, e forse ci sarà anche un bel tappeto, e un tonir grande per il pane; e gli alberi da frutta in giardino, basta poco, una bella potatura, per farli prosperare di nuovo.

Incantata, come tutte le donne armene, da queste e simili visioni di pace domestica e di vita serena, tanto più accanitamente inseguite quanto più fallaci, Talin acconsente a lasciare l'amata Damasco, dove non è che una serva, per un avvenire che spera radioso nell'antica patria di suo marito, la Piccola città, da cui tutti gli armeni sono stati cacciati.

Ma quando si mettono in moto, ottimisti e allegri, con una bella bandiera italiana che sventola sopra il carro, quello che presto li atterrisce è l'aspetto totalmente desolato dei villaggi che attraversano, i campi abbandonati, la solitudine agghiacciante, dove si aggira solo qualche sparuto fantasma.

Sembra loro di passare in mezzo a una folla di ombre, di attraversare luoghi spettrali da cui ogni vita è scomparsa. Sono tanti anni che Aris se n'è andato, ma non è il tempo che ha cambiato il paese, è un turbine folle che ha bruciato le case, svuotato le botteghe, scardinato le porte, ridotto in macerie le chiese, le scuole, il piccolo ospedale. E dappertutto sospette macchie color ruggine alludono, ricordano, fanno pensare alle vive creature che hanno sparso quel sangue: e dappertutto tracce di fuoco, cimiteri devastati con le lapidi spezzate. Cancellata qualsiasi traccia dell'aborrito alfabeto armeno, qualsiasi croce in cima a una cappella; vicino alle case, fra le erbacce e le magre fioriture superstiti, un fitto tappeto di vetri infranti, porte divelte, finestre come occhi ciechi che danno su un buio raggelante, che nessuna luce, nessuna fiamma riscalda.

Atterriti, Aris e Talin procedono in silenzio, guardandosi intorno. I bambini sul carro si sono appisolati insieme sotto una coperta. La meta non è lontana, ma conviene fermarsi, non è consigliabile continuare la strada al buio, e la lanterna del carro non fa molta luce.

Così, nell'ultimo villaggio, si guardano intorno. Possibile che non ci sia proprio nessuno? E alla fine, come raccónterà Aris nella prima lettera ai cugini, che riflette un panico non ancora dissolto, al pianoterra di una casa semidiroccata vicino alle macerie della chiesa scorgono una luce appena visibile dall'esterno, e trovano due ragazzetti cenciosi e ostili, che stanno scaldando un pentolino di qualcosa su un piccolo fuoco. Stanno usando tavole di legno ben piallate, forse mogano, resti di chissà quale saccheggio, e dietro di loro una pila di assi accuratamente ammucchiate rivela che si sono piazzati là da qualche giorno.

Ma quando Aris, sorridendo, mette piede nella stanza con le mani protese, parlando gentilmente in turco, i due ragazzi si alzano di scatto: uno si appoggia tremando al muro, l'altro sfodera un coltello che punta alla gola di Aris.

Talin, che sta entrando coi bambini, per fortuna tace, pietrificata. Ma Aris ci sa fare: velocemente cambia lingua e comincia a dire, in armeno, con un'intonazione di dolce cantilena, parole e frasi una dopo l'altra, una che s'incatena all'altra, come un fratello maggiore, come una madre.

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