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| << | < | > | >> |Pagina 9Il tempo non va esattamente come dovrebbe.Il primo gennaio del 1947 il Times scrive che gli inglesi non possono fare affidamento sui propri orologi. Per essere del tutto certi che il tempo sia quello che dice di essere si consiglia loro di ascoltare la BBC, che trasmetterà dei notiziari supplementari su quale sia effettivamente l'ora esatta. Gli orologi elettrici risentono delle frequenti interruzioni di corrente, ma anche quelli meccanici vanno controllati. Forse dipende dal freddo. Forse la situazione migliorerà. Nel corso della guerra sono state sganciate sulla Gran Bretagna circa 50.000 tonnellate di bombe. Oltre 4,5 milioni di edifici risultano danneggiati. Ci sono centri rurali minori che sono quasi stati rasi al suolo, come la cittadina portuale scozzese ai cui bombardamenti è addirittura stato dato un nome: il Clydebank Blitz. Nella città austriaca di Wiener Neustadt una volta si contavano 4000 edifici. Ora ne restano intatti solamente diciotto. A Budapest la metà delle case è inabitabile. In Francia sono stati distrutti, nel complesso, 460.000 edifici. In Unione Sovietica sono stati completamente annientati 1700 tra centri minori e villaggi. In Germania le bombe hanno distrutto all'incirca 3,6 milioni di abitazioni; una casa ogni cinque. La metà delle case di Berlino è inabitabile. In tutta la Germania oltre diciotto milioni di persone sono senza dimora. Altri dieci milioni lo sono in Ucraina. Tutti sono costretti a cavarsela con un accesso limitato all'acqua e sporadico all'elettricità. I diritti umani non esistono, il concetto di genocidio è sconosciuto ai più. I superstiti hanno appena cominciato a contare i propri caduti. Molti fanno ritorno a casa senza trovarla, altri si dirigono dovunque tranne che verso il proprio luogo di provenienza. Le campagne d'Europa sono state spogliate, depredate e, in seguito al sabotaggio delle dighe, risultano a tratti allagate. Terreni coltivati, boschi, fattorie – vita, pane e lavoro di tanti – giacciono sotto la cenere, ricoperti di fango. Sotto l'occupazione tedesca la Grecia ha perso un terzo delle proprie aree boschive. Più di mille villaggi sono stati dati alle fiamme. In Jugoslavia oltre la metà del bestiame è stato ucciso e il saccheggio di granaglie, latte e lana ha messo in ginocchio l'economia. Gli eserciti di Stalin e di Hitler non solo hanno seminato devastazione dove avanzavano, hanno pure ricevuto l'ordine di distruggere tutto ciò che trovavano sul proprio cammino in fase di ritirata. La tattica della terra bruciata prevedeva che non si lasciasse nulla alle truppe nemiche. Per usare le parole di Heinrich Himmler: «Nessuna persona, nessun capo di bestiame, nessun carico di cereali, nessuna tratta ferroviaria devono essere lasciati alle spalle [...] Il nemico deve trovare un paese totalmente bruciato e distrutto.» Adesso, dopo la fine della guerra, tutti vanno in cerca di orologi da polso – c'è chi li ruba, chi li nasconde, chi li dimentica, chi li perde. Il tempo rimane incerto. Quando sono le otto di sera a Berlino, a Dresda sono le sette e a Brema invece le nove. Nella zona russa vige il fuso orario russo, mentre nella propria parte di Germania gli inglesi introducono l'ora legale. Se qualcuno chiede l'ora, i più rispondono di non sapere che fine abbia fatto. L'orologio, intendono. Oppure vogliono dire il tempo? | << | < | > | >> |Pagina 13| << | < | > | >> |Pagina 17MalmöI movimenti alla frontiera, gli alberi come tratti neri sul paesaggio bianco, il fatto che sul terreno gelato i passi lascino poche tracce. Il mondo è pieno di profughi che vogliono partire, andare via. Alcuni confini sono meno sorvegliati di altri, le strade piccole e tortuose, la popolazione locale occupata con le proprie cose. Una frontiera tra Germania e Danimarca. Un'altra tra Danimarca e Svezia. Confini d'acqua, confini di terra, linee tracciate su cartine geografiche ma nella realtà contrassegnate da una pietra, da una staccionata, da un migliaio di fili d'erba secchi che frusciano al passaggio del vento. Molti fuggono da ciò che hanno patito. Altri dalle conseguenze delle proprie azioni. Silenzio. Riserbo assoluto. Messaggi cifrati e mai una seconda notte nello stesso posto. Un fiume di uomini si sposta dalla Germania alla Danimarca e prosegue fino alla Svezia. Mani amiche danno loro cibo e posti letto lungo il tragitto. Per Engdahl vuole riavere il suo passaporto. Glielo negano e resta rinchiuso in patria, paese che lui vuole preservare e allo stesso tempo ampliare tanto da farne esplodere i confini. Una visione che si contraddice da sola, ma lui lavorerà sodo per far sì che diventi realtà. La polizia segreta svedese lo classifica come nazista e, dopo una visita a Vidkun Quisling in Norvegia durante la guerra e un successivo viaggio in Finlandia dove incontra alcuni dei più alti rappresentanti della Wehrmacht, gli viene ritirato il passaporto. Malgrado vari tentativi gli ci vorrà del tempo prima di riottenerlo – perciò fa venire gli altri da lui, a Malmö. Ha collaboratori fidati che viaggiano e organizzano al posto suo. Di documenti non ne è rimasto quasi nessuno e nelle carte giunte fino a noi i nomi menzionati sono ben pochi. Bisogna ricorrere a vie traverse per scovare, esaminare e ricostruire ciò che accade durante questi mesi che, messi insieme, vanno a comporre l'anno 1947, un'epoca in cui tutto sembrava possibile perché tutto era già successo. Provengono da ogni angolo d'Europa. La maggior parte ha combattuto nelle divisioni delle SS sul fronte orientale, e poi c'è un gran numero di baltici che rischiano l'estradizione in Unione Sovietica. Hanno tutti bisogno di sfuggire alle conseguenze delle azioni commesse durante la guerra, e ad accoglierli c'è l'uomo senza passaporto. Per Engdahl è il leader dei fascisti svedesi, ma la fiumana bianca di profughi in cerca del suo aiuto vuole tenerla fuori dal movimento, agendo con discrezione e in codice. Ragion per cui la sua casa in Mäster Henriksgatan 2, a Malmö, diventa centrale per l'attività in questione. L'accoglienza assume un'impronta letteraria quando il fascista, che scrive anche poesie, ricorre all'uso di titoli di libri come parole cifrate per indicare i profughi, i loro nascondigli e spostamenti – tutto per tenere all'oscuro la polizia svedese. In quanti arrivano? Non è chiaro. Chi sono? Non si sa. In mezzo a queste migliaia di uomini in fuga, però, ce n'è qualcuno che diventa più di un nome, forse addirittura un amico. Come il professor Johann von Leers, braccio destro e protégé del ministro Goebbels, uno tra gli ideologi più influenti dietro la propaganda d'odio dei nazisti. Un antisemita tutto volontà e dedizione ai vertici del partito. Grosso nome, grossa preda. Von Leers era stato fatto prigioniero da truppe americane e internato a Darmstadt, ma era scappato dopo diciotto mesi. Da lì in avanti le sue tracce si fanno vaghe e contraddittorie. Per alcuni anni riesce a svanire nel nulla, poi si sa per certo che ricompare a Buenos Aires nel 1950. C'è chi ritiene che si sia nascosto nella Germania del Nord per diversi anni, altri sostengono che abbia vissuto in incognito in Italia. | << | < | > | >> |Pagina 20RomaSolo qualche giorno prima che il 1946 diventi 1947, cinque uomini si riuniscono in viale Regina Elena a Roma. Un giornalista, un archeologo, un ragioniere, un sindacalista e un uomo che sostiene di essere il figlio illegittimo di Benito Mussolini. Insieme fondano il Movimento sociale italiano, basato sulle stesse idee e sugli stessi ideali del partito fascista di Mussolini. In breve tempo l'MSI raccoglie un gran numero di adesioni e cospicui contributi in denaro sotto forma di donazioni private. Già dopo un mese o due vengono aperte sedi locali in tutta Italia e il movimento può dare inizio alla sua opera di attacco alla democrazia e opposizione al comunismo. E non solo in Italia. L'obiettivo è anche quello di una nuova Europa. Falangisti in Spagna, peronisti in Argentina, fascisti britannici guidati da Oswald Mosley, neonazisti che si radunano illegalmente a Wiesbaden sotto la guida di Karl-Heinz Priester. E poi, in Svezia, Per Engdahl. Sotto, la superficie ci sono loro, e mentre il mondo guarda da un'altra parte loro si muovono. Già adesso mettono in piedi un efficiente sistema di spedizioni interne per aggirare l'ostacolo delle restrizioni su passaporti, visti e valuta. Presto questi uomini si avvicineranno gli uni agli altri, fino a coalizzarsi. L'immobilità accumulata da un pendolo che si prepara al contraccolpo. | << | < | > | >> |Pagina 27| << | < | > | >> |Pagina 45GermaniaMai più, mai più, mai più. Sono quasi due anni che riecheggiano queste parole, dal primo giorno della capitolazione tedesca, nel maggio del 1945, fino al momento in cui viene apposta l'ultima firma sui trattati di pace di Parigi, il 10 febbraio del 1947. Quest'oggi la Seconda guerra mondiale è ufficialmente finita. Sono due anni che la vittoria, i prigionieri, l'onere e la responsabilità gravano su Unione Sovietica, Francia, Gran Bretagna e Stati Uniti. Bisogna dimostrare al mondo che è stato lo schieramento giusto a vincere, che il sistema democratico è migliore di quello autoritario. L'obiettivo è denazificare, demilitarizzare, decentralizzare e democratizzare la Germania. I crimini vanno puniti. Le ferite rimarginate. Gli avvenimenti che per adesso sono semplicemente custoditi nella memoria di singoli individui vanno promossi al rango di azioni punibili per legge e sottoposti al giudizio di un tribunale. Le quattro potenze vincitrici concordano sul fatto che i nazisti dovranno risponderne. Ma cos'è che vogliono? Vendicarsi? Ottenere un risarcimento? Garantire la pace? Tutto questo, sì – ma anche mettere in evidenza alcuni eventi e sorvolare su altri. Fermarsi e, allo stesso tempo, andare avanti. Il racconto della guerra non è ancora stato scritto. Nessuno storico ha passato in rassegna gli archivi lasciati ai posteri. Gli atti del processo penale sulla tirannia dei nazisti costituiscono la prima descrizione completa degli eventi. Il diritto impartirà una lezione di storia, raccoglierà i fatti e dimostrerà, oltretutto, che la giustizia ha trionfato. Dopo l'udienza d'apertura tenutasi il 18 ottobre del 1945 a Berlino, il Tribunale militare internazionale, o IMT, si è insediato nel palazzo di giustizia di Norimberga. Quello che è poi diventato famoso con il nome di processo di Norimberga è stato il primo di una serie complessiva di tredici processi. Ventiquattro alti gerarchi nazisti sono stati accusati di crimini contro la pace, crimini di guerra e crimini contro l'umanità, tra cui omicidio, sterminio, riduzione in schiavitù, deportazione e persecuzione per ragioni politiche, razziali o religiose, e anche di cospirazione al fine di commettere i suddetti crimini. [...] Dodici degli imputati, tra cui Hermann Göring, Hans Frank, Alfred Rosenberg e Julius Streicher, sono stati condannati a morte. Tre sono stati puniti con l'ergastolo, quattro hanno ricevuto pene fino a un massimo di vent'anni di prigione, e tre sono stati assolti. Uno degli accusati, Martin Bormann, non è mai stato catturato, un altro è stato esentato da ogni pena perché gravemente malato e affetto da demenza senile. Il primo grande processo si è concluso con la prima grande sentenza di condanna, e ora se ne pianificano altri dodici sempre a Norimberga e ancora centinaia in ogni singolo paese che sia stato sotto il dominio nazista. I processi giudiziari dovranno ricostruire i fatti appena accaduti indagando tra documenti che non hanno fatto in tempo a essere distrutti e interrogatori pieni di bugie. La verità sconfitta di ieri dovrà essere ricreata con la legge. L'intero procedimento è influenzato da potenti forze politiche. Sono i politici ad assicurarsi di trovare le risorse per il complicato compito di reclutare del personale giuridico competente, di raccogliere prove, di coordinare le indagini tra le quattro potenze vincitrici, di garantire parità di trattamento – in parole povere, di creare una base giuridica comune per gli uomini di legge di quattro nazioni. E sono sempre le forze politiche che presto, molto presto, faranno sospendere i processi. Fattori ideologici lasciano impronte sia nelle requisitorie che nelle descrizioni dei reati. Come una filigrana, visibile solo in controluce, contrassegnano i giuristi delle rispettive nazioni. [...] Adesso, a due anni dal termine del conflitto, gli inglesi sono sempre meno entusiasti dei processi ai criminali di guerra. Molto semplicemente, non se li possono permettere. E le priorità politiche cominciano a interferire. Con la battaglia di potere ideologica che comincia a scorgersi tra Unione Sovietica e Stati Uniti, l'opinione sulla Germania si modifica. Non c'è una data precisa, un momento esatto in cui l'attenzione passa dalla gestione del passato a quella del futuro. C'è solo questo anno, il 1947, in cui tutto si muove in modo vibrante, senza stabilità e senza meta, perché ogni possibilità è ancora aperta. Che sia giunto il momento, si interrogano gli inglesi, di smetterla di smantellare la nazione tedesca? Magari, oltre ad attribuire colpe e punizioni, c'è bisogno di qualcos'altro? Forse la memoria, la documentazione storica e la giustizia per le vittime hanno cessato di essere la cosa più importante? Più che una Germania pesantemente castigata, all'Europa serve una Germania che funzioni a sufficienza per fare da scudo e difesa contro la diffusione del comunismo. [...] Ciò che non viene detto in tribunale svanisce nel silenzio. La persecuzione e l'omicidio degli omosessuali da parte dei nazisti non rientrano neanche tra i capi d'imputazione e non compaiono nei processi. L'uccisione dei rom viene menzionata da alcuni gerarchi nazisti, ma a nessun testimone rom viene dato spazio. Malgrado il fatto che vi sia stato ucciso circa un milione di ebrei polacchi, non si accenna minimamente né al campo di sterminio di Belzec né a quello di Sobibór nel corso di nessuno dei tredici processi di Norimberga. Il campo di sterminio di Treblinka viene citato una volta di sfuggita e in quell'occasione definito un campo di concentramento. Il destino degli ebrei appare per un istante come un lampo nero, ma il nocciolo dell'ideologia, e cioè l'odio razziale, non è tra le questioni principali. A dominare sono invece l'aggressività del Terzo Reich, la sua ambizione all'egemonia mondiale e i crimini contro la pace. Il mondo costruisce se stesso sul substrato cedevole della dimenticanza. | << | < | > | >> |Pagina 53| << | < | > | >> |Pagina 63EuropaQuello nazista è un sistema chiuso dove soltanto alcuni pensieri possono essere espressi, e la violenza è moneta corrente in un universo fatto di paura. Nel sistema non c'è spazio né per le deviazioni, né per le crepe, né per il dialogo. La sua forza motrice è l'odio. Il principio di conservazione dell'energia, è applicabile qui? Quel postulato secondo cui l'energia non si può né distruggere né creare, secondo cui la sua quantità totale resta invariata nel tempo. Johann von Leers e Per Engdahl. Nei documenti degli archivi mondiali che riguardano i due uomini, quest'anno del primo dopoguerra viene a malapena menzionato. Come se il 1947 non ci fosse mai stato, e costituisse piuttosto un'interruzione nella linea delle loro vite. Ma se il tempo è una mappa, adesso, a posteriori, possiamo stenderla, poggiare la penna sulla carta e fare un segno qui, dove si incontrano, discutono e si separano. Poi sembrano sparire nel nulla, come se fossero in possesso dell'anello di quella saga che il professor John Ronald Reuel Tolkien presenta al suo editore proprio in questi giorni. Allusioni, speculazioni, e qualche raro fatto riguardo le attività dei due uomini sono documentati nell'archivio della CIA, in quello della SAPO a Stoccolma, nell'Archivio federale tedesco di Berlino, negli archivi russi e a Gerusalemme, tanto per citarne alcuni. Un ricercatore può rivolgersi a loro, chiedere di visionare tutto quello che c'è, riempirsi le mani di documenti, ma ritrovarsi comunque a stringere nient'altro che punti interrogativi e frammenti. Nascondersi tra le rovine d'Europa è possibile, e Johann von Leers lo fa. Per Engdahl aspetta tranquillo nell'ombra. Sono permessi soltanto movimenti minuscoli. L'energia è costante ma assume nuove forme. L'incontro tra von Leers ed Engdahl è anche un punto nel tempo da cui si dipartono fili che si protendono in avanti e dove emergono altri nomi. I sogni, però, sono gli stessi: una nuova Europa, un continente unitario nel mondo. Senza classi. Senza partiti. L'individuo subordinato alla collettività. Movimenti autoritari in cui il leader è chiaro nelle sue decisioni e non si spreca tempo in lente e insoddisfacenti procedure democratiche. Un organismo uniforme, armonicamente bianco. Nation Europa, per citare il leader fascista britannico Oswald Mosley. | << | < | > | >> |Pagina 69| << | < | > | >> |Pagina 71DearbornHenry Ford muore il 7 aprile, anche se pare che fosse in ottima salute. Nel corso della sua vita non solo ha introdotto il metodo della catena di montaggio nella produzione di autoveicoli e di materiale bellico – cosa che lo stesso Iosif Stalin ritiene di essenziale importanza per la vittoria degli Alleati sui tedeschi – ma ha anche finanziato, nei primi anni Venti, la traduzione e pubblicazione americana in 500.000 copie dei Protocolli dei Savi di Sion. Nel 1919 rileva il settimanale The Dearborn Independent, che in seguito pubblicherà una serie di articoli antisemiti. Raccolti insieme ai Protocolli dei Savi di Sion, vanno a comporre il libro L'ebreo internazionale, e uno dei lettori che ne trae ispirazione si chiama Baldur von Schirach, più tardi leader della Gioventù hitleriana. «Un libro determinante» per la sua evoluzione antiebraica, lo definisce quando testimonia a Norimberga. Un altro lettore che ne rimane fortemente colpito si chiama Adolf Hitler, e Henry Ford è l'unico americano citato per nome nel Mein Kampf. Certo, è vero che nel 1927 Henry Ford chiede pubblicamente scusa e ammette che alla base dei Protocolli dei Savi di Sion ci sono soltanto menzogne e falsificazioni, ma è altrettanto vero che nel 1938 riceve l'onorificenza nazista più prestigiosa di cui possa essere insignito uno straniero: l'Ordine dell'aquila tedesca, corredato da un saluto personale di Adolf Hitler, che tra l'altro ha un ritratto di Henry appeso nel suo ufficio di Monaco. Adesso Henry Ford è morto. Sono cose che capitano. | << | < | > | >> |Pagina 76JuraIn una fredda e luminosa giornata d'aprile l'orologio batte le tredici. Eric Arthur Blair sbarca sull'isola scozzese di Jura insieme al figlio adottivo di tre anni Richard e a nient'altro. Eileen Blair, sua moglie, è morta nel corso di una banale operazione, un intervento di routine, meno di un anno dopo che avevano adottato il bambino. Ora rimangono solo padre e figlio. [...] Siamo soliti dire che il tempo scorre, che è un fiume potente e tortuoso in cui è impossibile calarsi due volte, che si snoda in meandri ma si muove comunque in avanti. Come se avesse una sorgente, una direzione e, da qualche parte, un oceano che lo aspetta, come se potesse sfociare, mescolarsi e trasformarsi in un infinito, un tutto, un niente, una fine. A volte ci sono persone che si calano in mezzo a questa metafora e diventano strumenti di misura e analisti. Dove ci porta la corrente, in che direzione circola il sangue, cosa ne fanno gli esseri umani dei propri pensieri? Quali parole vengono usate e qual è il senso che cercano di celare? Eric Blair è una di queste persone. Sull'isola di Jura, coi suoi conigli bianchi e i suoi marassi, osserva la realtà attorno con la stessa lucidità e la stessa assenza di sentimentalismo con cui osserva la lingua che lo circonda. Sotto lo pseudonimo di George Orwell scrive: «Di questi tempi, i discorsi e gli scritti politici sono in gran parte la difesa dell'indifendibile. Cose come la persistenza del Governo britannico in India, le purghe e le deportazioni russe, lo sgancio delle bombe atomiche sul Giappone, possono invero essere difese, ma solo con argomenti che sono troppo brutali da affrontare per la maggior parte delle persone, e che non quadrano con gli obiettivi dichiarati dai partiti politici. Così, il linguaggio politico deve in larga misura consistere in eufemismi, domande e mera e oscura vaghezza. Villaggi indifesi sono bombardati dal cielo, gli abitanti sono dispersi nelle campagne, il bestiame è mitragliato, le capanne messe a fuoco con proiettili incendiari: questa viene chiamata pacificazione. Milioni di contadini sono derubati delle loro fattorie e buttati per strada con non più di quanto possano trasportare: questo viene chiamato trasferimento della popolazione o rettifica delle frontiere. La gente viene incarcerata per anni senza un processo o le viene sparato alla nuca o viene mandata a morire di scorbuto in accampamenti artici di legno: questa viene chiamata eliminazione degli elementi inaffidabili. Tale fraseologia è necessaria se si vuole dare un nome alle cose senza richiamare le immagini mentali delle stesse.» | << | < | > | >> |Pagina 103| << | < | > | >> |Pagina 113TorinoAmore e rabbia. Primo Levi ha ventotto anni e lavora al suo libro passando da uno stato d'animo all'altro, altalenando tra due estremi che si possono anche considerare gemelli. Da gennaio cerca di far pubblicare il suo manoscritto, da gennaio sei diverse case editrici lo hanno respinto. È inizio estate adesso a Torino. Una specie di quotidianità. Una sorta di silenzio. Chi vuole guardare indietro quando ogni ricordo provoca dolore, ciò che è stato è stato, e parlarne in continuazione non serve ad alleviare le atrocità già commesse? Questa sembra essere l'opinione tacita ma diffusa della maggioranza. Lascia perdere, va' avanti. Primo Levi lavora, parla con la sorella, frequenta gli amici, scrive poesie d'amore alla sua Lucia, però a rassegnarsi non ci riesce. Quello che davvero lo fa soffrire è il rifiuto della prestigiosa casa editrice Einaudi. Ora come ora sta rivedendo il testo, cerca nuove strade per far pubblicare la sua testimonianza, il suo libro, e riflette sul titolo. Di colpo ha dei soldi che gli avanzano, così mette via la bici e si compra una Lambretta. Questa nuova libertà viene festeggiata con un giro fino alla frontiera francese, dove Primo si ricongiunge con l'amico Jean Samuel. Glielo dice che adesso è scritto, il racconto della loro vita da schiavi ad Auschwitz? Certo, nessuno lo vuole pubblicare, ma parla comunque a Jean del capitolo nato dalla loro prigionia e dalla loro amicizia? Sì, gliene parla. Jean, chiamato Pikolo nel libro, ricorda ma in un altro modo, può menzionare gli stessi dettagli ma da un'angolazione diversa. Pone l'attenzione sul loro primo incontro, nel pieno della paura di morire durante un attacco aereo, su come sí siano aperti raccontando delle rispettive madri. La memoria di Jean non è la memoria di Primo, ma non ha importanza. Ascolta senza dire una parola. La descrizione dei due giovani uomini nel campo di concentramento in Polonia costituisce il cuore del libro ancora inedito. Il punto nevralgico. È questo un uomo? L'interrogativo riguarda non solo la riduzione della vittima in vittima ma anche quella del carnefice in boia. Immaginate quel giorno di giugno sotto il cielo polacco. Immaginate la violenza, l'improvviso attimo di tregua. Primo e Pikolo devono andare a prendere la zuppa per il resto della squadra e scelgono una strada più lunga per guadagnare un po' di tempo in più, un po' d'aria più, per ricordarsi che esiste una cosa chiamata libertà, anche se soltanto per dieci minuti. La terra odora di vernice e catrame, di colpo a Primo Levi torna in mente una qualche spiaggia dell'infanzia e poi arrivano le parole, versi della Divina Commedia di Dante, rimasugli di conoscenze liceali. Spiega al paziente Pikolo chi è Dante, che cosa è la Commedia, come è suddiviso l'Inferno, e viene colto da una smania. È come se sentisse quelle parole per la prima volta, in un crescendo di ricordi frammentati, ed è sul punto di riuscire a spiegare tutto ciò che c'è da spiegare sulla natura umana, la sua storia e la sua capacità di fare il bene e il male. «Ecco, attento Pikolo, apri gli orecchi e la mente, ho bisogno che tu capisca.» Come mai gli venga in mente proprio il canto di Ulisse, non se lo spiega bene neanche lui. Ma in quel momento il poeta Dante incontra il campo di sterminio di Auschwitz – una delle opere in versi più sofisticate dell'umanità e uno degli orrori più elaborati dell'umanità si uniscono nel giovane Primo Levi. Lui è il punto di rottura, la civiltà un fuggitivo che incrocia le proprie tracce. | << | < | > | >> |Pagina 155| << | < | > | >> |Pagina 160ParigiPer il giovane Maurice Bardèche la vita prese una nuova piega quando poté lasciare il villaggio di Dun-sur-Auron e la sua esistenza di figlio di un ombrellaio. Una borsa di studio gli diede la possibilità di cominciare a frequentare la prestigiosa scuola Louis-le-Grand di Parigi. Aveva diciotto anni, era un goffo ragazzo di campagna, e nella grande città si sentiva smarrito. Subito dopo il suo arrivo, però, accadde quello che fu l'inizio del resto della sua vita. In uno dei portici che circondavano il cortile dell'istituto incontrò due coetanei che, ciascuno in piedi sulla propria sedia, declamavano all'unisono poesie di Baudelaire. Uno dei due era Robert Brasillach. Era abbronzato, con i capelli scuri, quasi neri, un volto rotondo e gli occhiali, come notò il giovane Maurice Bardèche, che fece anche caso all'abbigliamento e al buon umore di Brasillach. Con stupore di Bardèche, Robert Brasillach ricambiò il suo interesse. Diventarono talmente amici che i loro compagni di scuola li chiamavano Brassillèche e Bardach. Fu in quegli anni che Maurice Bardèche si innamorò della sorella di Robert Brasillach, Suzanne, si fidanzò, si sposò e andò in viaggio di nozze con lei nella Spagna della guerra civile. In compagnia di Robert Brasillach. È un'amicizia che significherà tutto. Insieme, Maurice Bardèche e Robert Brasillach lavorano e sviluppano argomenti contro la democrazia. Nel 1935 pubblicano un libro fondamentale sulla storia e l'estetica del cinema, scrivono di letteratura e di politica. Ai loro occhi, la Francia si sta indebolendo sotto l'influsso dell'alcolismo, del calo delle nascite e dell'invasione ebraica. Vedono la soluzione in un ideale eroico, uomini dai corpi forti, un culto per l'aria fresca e lo sport, e attacchi contro il comunismo e la borghesia. Il Je suis partout è il grande periodico fascista di Francia, con una tiratura che sfiora le 300.000 copie. Robert Brasillach ne diventa caporedattore. Si autodefinisce un «antisemita moderato», chiede che gli ebrei vengano esclusi dal consorzio civile e in seguito «eliminati» del tutto dalla Francia, «bambini piccoli compresi». Il giornale appoggia Benito Mussolini, è favorevole ai falangisti in Spagna, si rallegra dei fascisti inglesi, della Guardia di ferro rumena e dei fascisti in Belgio. A partire dal 1936 mostra di simpatizzare per Hitler e per il nazismo. Brasillach elogia la «bellezza ben organizzata» della Germania nazista e paragona invece la Terza Repubblica francese a una «vecchia puttana [...] sifilitica, che puzza di patchouli e di perdite bianche». Durante gli anni della guerra Brasillach usò la sua penna per denunciare e fare i nomi di persone impegnate nella Resistenza, e anche per augurare loro la morte. Per questo nel 1945 venne incriminato, e condannato alla pena capitale. Non fu il solo. Al termine del conflitto furono all'incirca 170.000 i cittadini francesi portati in giudizio, con l'accusa di aver favoreggiato e collaborato coi nazisti. 50.000 di questi vennero puniti con la perdita dei diritti civili – la cosiddetta dégradation nationale – e 800 circa furono giustiziati. Altre decine di migliaia vennero uccisi per via extragiudiziale, tra linciaggi ed esecuzioni sommarie. Quasi diecimila donne furono punite con la rasatura dei capelli e l'umiliazione pubblica per via della loro presunta collaboration horizontale. La condanna a morte di Robert Brasillach, però, scatenò forti reazioni. Una grossa parte della Francia letteraria protestò, perfino gli antifascisti. Lo scrittore ed eroe della Resistenza François Mauriac si rivolse al generale de Gaulle pregandolo di far annullare la pena inflitta all'avversario ideologico – si trattava pur sempre di libertà di espressione – e de Gaulle acconsentì alla richiesta. François Mauriac prese anche l'iniziativa di promuovere una petizione in favore della grazia, che fu sottoscritta tra gli altri da Paul Valéry, Paul Claudel, Colette, Albert Camus e Jean Cocteau, mentre Simone de Beauvoir, Jean-Paul Sartre, Pablo Picasso e André Gide si rifiutarono. Per la Resistenza francese Robert Brasillach era un traditore che operava servendosi della penna, e la sua morte sarebbe stata il simbolo della morte del fascismo. Malgrado la sua promessa, de Gaulle cedette alle pressioni e cambiò di nuovo la sentenza. Brasillach venne fucilato nel febbraio del 1945. Maurice Bardèche sprofondò nel lutto e nel rancore. Solo ora, due anni più tardi, torna a essere se stesso e si ripresenta al mondo, scrivendo due libri in aperta protesta contro quella che chiama la falsità dell'epoca, la democrazia e l'ipocrisia intorno all' épuration, le false pene per falsi reati. Stava per soccombere e invece risorge sotto nuove sembianze, quelle dell'animale politico: «Io sono uno scrittore fascista.» Non appena il primo libro sulla Resistenza e sui processi di guerra, Lettre à François Mauriac, è stampato, comincia a lavorare al successivo. Maurice Bardèche non si riconosce. Il suo paese gli risulta estraneo e altrettanto estranea gli è la sua storiografia. L'odio s'è impossessato della bilancia della giustizia, è diventato la divinità dei tempi moderni. Dovunque avverte l'odio nei confronti degli sconfitti. Non che lui provi particolare simpatia per la Germania o per i tedeschi, chiarisce. Non è il popolo tedesco che ama, e neppure il nazionalsocialismo, ma il coraggio, la lealtà e la fraternità in battaglia. Nemmeno sa nulla di questi uomini, scrive, questi generali e statisti portati in tribunale a Norimberga e condannati, malgrado abbia letto tutti e quaranta i volumi dei verbali stenografati dall'IMT nel corso del primo grande processo. Sa soltanto che sono gli sconfitti. E che questa è l'unica cosa che conta. Il loro è stato l'esercito di un piccolo paese europeo, scrive, che per quattro anni si è battuto contro gli eserciti di tutto il mondo – e ha perso. Ora devono anche essere biasimati, puniti e giustiziati per questo? Maurice Bardèche prova compassione per le vittime della guerra – il popolo tedesco – ed è per questo motivo che adesso scrive il libro Nuremberg ou la Terre promise. Il coraggio e la sofferenza del popolo tedesco meritano rispetto. Perciò Bardèche dice quello che nessun altro dice, scrive quello che nessun altro scrive: le prove del genocidio degli ebrei sono contraffatte. È vero che sono morti degli ebrei, ma è accaduto a causa della fame e delle malattie, non per omicidio. Tutti i documenti che parlano di una «soluzione finale» si riferiscono in realtà al loro trasferimento fuori dalla Germania nazista, e a nient'altro. Di fatto, scrive, ciò che è capitato agli ebrei è colpa loro. Sono stati loro ad appoggiare la pace di Versailles e a sostenere l'Unione Sovietica. I veri crimini di guerra li hanno commessi gli Alleati quando hanno bombardato Dresda e altre città. Le camere a gas, tra l'altro, venivano usate per disinfettare i prigionieri, tutto qui. «Io non prendo le difese della Germania. Prendo le difese della verità», continua, formulando il suo credo e scrivendo la sua bibbia. È nato il negazionismo e Maurice Bardèche ne è il padre. | << | < | > | >> |Pagina 171HaifaÈ il 18 di luglio e dalla banchina di Haifa due uomini osservano la nave speronata Exodus entrare in porto con il suo carico umano: il presidente svedese della commissione incaricata di risolvere il problema palestinese e uno dei suoi collaboratori. Indossano completi di lino e cappelli per proteggersi dalla calura. Hanno portato lì i profughi di proposito? L'arrivo della nave in Palestina è stato pianificato per farlo coincidere con la visita del comitato dell'ONU? I due uomini della commissione vedono i bambini lasciare la nave per primi, più di 1000, e si chiedono se non sia un trucco propagandistico per le telecamere accorse sul posto. [...] La nave speronata che viene trainata in porto, i sopravvissuti a cui manca tutto tranne la volontà di sopravvivere, il piroscafo ribattezzato Exodus, che da semplice nave da crociera diventa il simbolo del desiderio e della speranza dei profughi, sono un racconto che si diffonde in tutto il mondo, su ciascun quotidiano e in ciascun cinegiornale. Quando risulta chiaro che gli inglesi hanno intenzione di riportare in Francia gli ex prigionieri dei campi di concentramento, la reazione si fa accesa e fortemente critica. Là dove i britannici vogliono mostrare saldezza di principi e scoraggiare altri tentativi illegali di raggiungere la Palestina, il mondo vede crudeltà e mancanza di umanità. Riportarli in Europa, in una Francia che non ha la possibilità di prendersene cura, è disumano, scrive il Washington Post. A quanto pare l'indole degli inglesi prevede che la legge vada seguita a qualsiasi costo, scrive l'ex presidente del Consiglio francese Léon Blum. Non c'è spazio per la compassione individuale. Gran parte del mondo concorda con lui. Mandateli nei campi a Cipro, dove altri ebrei sono stati radunati in attesa del visto per la Palestina, o almeno trasferiteli in Africa del Nord, scrivono. Qualunque cosa ma non di nuovo in Europa. Gli inglesi, invece, portano a termine il proprio piano. I 4500 ebrei vengono condotti a Port-de-Bouc, nel sud della Francia, ed esortati a sbarcare. Come se tutto fosse compiuto, finito e superato, di ritorno al punto in cui erano poco tempo prima. Come se la traversata, il battesimo della nave, la battaglia a colpi di patate, la speranza e la delusione non fossero mai accaduti. Ma i profughi non sbarcano. «Gli ebrei si trovano in uno stato d'animo pericoloso», riferiscono gli inviati britannici al Foreign Office. «Costringerli a lasciare la nave è impossibile, c'è aria di rivolta e di lotta, non possiamo fare nulla.» 4500 persone con l'obiettivo di una vita dopo la morte.
Il caldo. L'attesa. Il mondo che sta a guardare.
Washington
Naturalmente le notizie sulla Exodus giungono anche al presidente Truman. Alle 06:00 di pomeriggio del 21 luglio riceve una chiamata dell'ex segretario al Tesoro Henry Morgenthau, che vuole parlare della situazione dei profughi. La telefonata dura dieci minuti. Truman si vede costretto a promettere che affronterà la faccenda con il segretario di Stato Marshall. «Non stava certo a lui chiamarmi. Questi ebrei non hanno alcun senso della misura, né alcuna capacità di giudizio in fatto di questioni internazionali», scrive poi di getto su qualche foglio sciolto, che in seguito verrà allegato al diario blu. «Gli ebrei mi sembrano molto, ma molto egoisti. A loro non importa quanti estoni, lettoni, finlandesi, polacchi, jugoslavi o greci vengano uccisi o maltrattati perché profughi, ma solo che gli ebrei ricevano un trattamento di favore. Quando però sono loro ad avere il potere, fisico, finanziario o politico, non hanno nulla da invidiare né a Hitler né a Stalin in fatto di crudeltà o angherie nei confronti del più debole. Metti un perseguitato al potere e non farà alcuna differenza che sia russo, ebreo, negro, industriale, operaio, mormone o battista: perderà la testa.» | << | < | > | >> |Pagina 181| << | < | > | >> |Pagina 183Francoforte sul MenoIl mondo è sempre più spaccato in due. Allo stesso tempo, da più parti si va sviluppando il pensiero di una terza potenza, un'Europa unita, l'idea di far saltare i confini nazionali pur mantenendoli. Può funzionare. Deve funzionare. Non c'è altra possibilità. Se il nazionalismo è stato l'esplosivo che ha incendiato la Prima guerra mondiale, la sua messa in discussione è ora vista come una via possibile per una pace duratura. La parola del giorno è universalismo. L'epoca degli stati nazionali è finita. L'Europa deve unirsi o andare in rovina. Qua e là, in maniera all'inizio confusa ma presto sempre più coordinata, nascono associazioni e organizzazioni. Vengono pubblicati testi, sviluppate riflessioni politiche, elaborati programmi economici. Gli Stati Uniti d'Europa? Una federazione? Un coordinamento? Un'intesa doganale? L'abolizione dei confini? Con la Gran Bretagna? Senza la Gran Bretagna? Il sogno di un'Europa unita. Nessuno può dire con certezza cosa succederà, per mezzo di chi, o in che modo. Nessuno sa quando. In quella che un tempo era la Germania, però, il vento dei sogni aumenta di intensità e si trasforma in un'intera visione. Quando il primo di agosto tutte le associazioni tedesche che condividono questo sogno si uniscono a formare l'Europa-Bund, in un documento comune scrivono: «La vita spirituale dell'Europa può svilupparsi solo se gli europei supereranno i limiti e l'egoismo dello stato nazionale. Spetta a tutti i popoli del continente, soprattutto a quello tedesco, prepararsi per lo sviluppo dell'Europa che ci troviamo davanti. [...] I problemi economici, i problemi di comunicazione in tutti gli stati europei, i progetti di un'unione doganale, l'idea di una moneta comune europea – tutto punta nella stessa direzione.» Niente è successo ancora, le strade non sono state scelte, né le decisioni formulate, prese o ratificate, ma è solo una questione di giorni. | << | < | > | >> |Pagina 200NorimbergaI processi si svolgono in parallelo in tutta Europa – a Cracovia, Norimberga, Amburgo, Venezia. Le dimensioni della violenza vengono misurate e annotate. I giuristi e un'opinione pubblica sempre più disinteressata si radunano intorno al buco nero della morale e cercano di scorgerne il fondo. Quest'anno iniziano, proseguono o si concludono: • Il processo contro il feldmaresciallo Erhard Milch, accusato di crimini di guerra e contro l'umanità. • Il processo contro sedici, tra giuristi e giudici, responsabili delle leggi che hanno permesso l'omicidio per questioni di «igiene razziale». • Il processo contro Oswald Pohl e altri ufficiali delle SS, per l'organizzazione e l'attiva partecipazione nella cosiddetta «soluzione finale». • Il processo contro Friedrich Flick e altri, tra i vari capi d'accusa per lo sfruttamento del lavoro schiavile all'interno delle proprie industrie. • Il processo contro i dirigenti della IG Farben, tra i vari capi d'accusa per lo sfruttamento del lavoro schiavile all'interno delle proprie industrie e per aver prodotto il gas letale Zyklon B. • Il processo contro dodici generali, tra i vari capi d'accusa per lo sterminio di civili in Grecia, Jugoslavia e Albania. • Il processo contro quattordici ufficiali responsabili di atti di pulizia etnica commessi tramite aborti coatti, rapimento di bambini e deportazione di intere popolazioni. • Il processo contro i direttori del gruppo Krupp per sfruttamento del lavoro schiavile. • Il processo contro quattordici militari di alto grado accusati di crimini di guerra, contro la pace e contro l'umanità. • Il processo contro medici e infermiere del centro di Hadamar, colpevoli di aver ucciso migliaia di persone affette da ritardi o malattie mentali. • Il processo contro le guardie di Auschwitz. • Il processo contro Rudolf Höß, comandante di Auschwitz.
• Il processo contro le Einsatzgruppen.
Il 19 agosto viene emessa la condanna per i ventitré medici accusati di aver condotto esperimenti clinici sugli internati dei lager. Diversi tra questi si difendono dicendo che i loro esperimenti non si differenziano molto da quelli di altri medici americani e tedeschi, e che non c'è nessuna legge internazionale che tracci un confine tra esperimenti legali e illegali sull'uomo. Turbati da tali affermazioni, due medici dell'accusa iniziano a formulare delle condizioni per rendere la sperimentazione umana compatibile con l'etica professionale. Nel primo punto mettono in chiaro che la sperimentazione sull'uomo dev'essere volontaria da parte di chi vi si sottopone. La ricerca deve mirare a risultati positivi per la società e i rischi per chi è soggetto agli esperimenti vanno ridotti al minimo. Il loro «codice di Norimberga» entra a far parte della sentenza di condanna, della futura etica della ricerca scientifica e di quella dichiarazione sui diritti umani che è in corso di formulazione. L'immoralità va combattuta con la moralità. Che il mondo quest'oggi sia diventato un po' migliore? | << | < | > | >> |Pagina 215| << | < | > | >> |Pagina 218Cambridge, MassachusettsEsistono mille ragioni per aprire un orologio. La misura del tempo è subordinata a un meccanismo. Questo è formato da almeno sei ruote dentate che si azionano l'un l'altra facendo così muovere ciascuna lancetta alla giusta velocità. Dentro c'è una molla piatta, alloggiata nel suo bariletto. Intorno al bariletto c'è una corona dentata. Il pendolo passa da un ticchettio a un altro. L'oscillazione tra i due è detta tempo. Grace Hopper ha un interesse per i calcoli. Ha sette anni quando apre tutti e sette gli orologi di casa. Dopodiché i suoi genitori fanno in modo che abbia la possibilità di studiare fisica e matematica. La sua vita sarà poi un susseguirsi di incarichi lavorativi senza titolo, per il semplice motivo che è lei stessa a inventarli. Grace Hopper accoglie il futuro sempre più dentro di sé. Attualmente si trova all'Università di Harvard, dove è stata inviata in tempo di guerra per servire la marina come matematica – nonostante sia una donna. (Il suo capo, il brillante Mr. Aiken, non smette mai di sottolineare questo fatto.) Il calcolatore elettromagnetico Mark II è grande come una stanza. Quando il pomeriggio del 9 settembre, come al suo solito, cessa di funzionare, l'orologio segna un orario compreso tra le 15:25 e le 15:45. Dopo lunghi turni di lavoro e accurate annotazioni sul registro di errori e successi, Grace Hopper conosce il Mark II tanto bene quanto conosceva il suo predecessore, il Mark I. Ora si fa strada all'interno del calcolatore in un rituale di minuziosa ricerca dei problemi. Ha familiarità con tutti i sentieri dei territori interni della macchina. Malgrado questo: un fatto imprevedibile, un'anomalia. Nel relè numero 70 del pannello F trova l'errore: una falena. Sul registro appunta: «First actual case of bug being found.» | << | < | > | >> |Pagina 245| << | < | > | >> |Pagina 247MoscaL'Unione Sovietica è un mistero, anche per se stessa. La burocrazia diffonde disinformazione tra coloro che detengono il potere a livelli diversi e in pochi sanno con esattezza cosa facciano gli altri. Ancor meno sanno gli osservatori esterni, che si chiamano Occidente. Questi traggono l'errata conclusione che all'URSS manchi ancora molto prima di avere una propria bomba atomica. Nel paese i tempi peggiori volgono finalmente al termine. La fame che nel 1946 ha mietuto le vite di oltre un milione di cittadini sovietici si è attenuata. Il cibo forse non basta, ma c'è. Le tessere annonarie vengono abolite. Stalin svetta sul piedistallo dei piedistalli, a nessuno è concesso di adorare nient'altro come viene adorato lui. Il 1947 costituisce un punto di svolta. Non solo perché presto l'arma di Michail sarà nelle mani di ogni soldato, ma anche perché ora l'Unione Sovietica è in grado di produrre ordigni nucleari. La bomba d'esordio, la RDS-1, viene soprannominata Primo Lampo. Il 10 ottobre Michail riceve l'esito ufficiale dei test dal quartier generale delle forze armate sovietiche. La sua arma è stata selezionata insieme ad altri due modelli per essere ulteriormente sviluppata. Michail ne semplifica e modifica la struttura. L'arma diventa più leggera, con un numero inferiore di componenti, riesce a sopportare più sollecitazioni senza conseguenze. Un'arma per l'esercito degli inesperti. Un'arma dal peso ridotto, che non smette mai di funzionare a prescindere dalla quantità di urti, di sporco e di logorio a cui viene sottoposta. Un'arma dai bassi costi di produzione. Non sempre la più infallibile nel centrare il bersaglio – ma affidabile quanto basta, e dotata di un selettore di fuoco che permette di scegliere se sparare un colpo alla volta oppure in modalità automatica.
Alla fine questo diventa un fattore determinante. L'invenzione che porta il
suo nome viene scelta per essere prodotta in serie dall'industria bellica
dell'URSS e distribuita all'intero esercito sovietico. L'arma campeggerà poi
sulla bandiera di un paese e verrà usata da oltre 50 milioni di combattenti in
lotte di liberazione e atti terroristici. Il nome di Michail Kalašnikov
diventerà la parola russa più conosciuta al mondo, al pari di vodka.
Torino
Per il chimico italiano Primo Levi l'anno sembra assumere un'altra forma e aprirsi in un sì. Prima c'è Lucia, la sua seria fidanzata, che è ormai già da un mese diventata l'amata moglie. Poi nella sua vita entra Franco Antonicelli, un antifascista e poeta di Torino che dirige la piccola casa editrice Francesco De Silva. La pubblicazione del libro di Primo Levi, la descrizione del suo anno da schiavo della IG Farben nel campo di lavoro di Monowitz, ad Auschwitz, diventerà realtà. Forse adesso le giornate potranno schiarirsi, la prigionia abbandonare il suo corpo e lui, finalmente, essere libero? Ha ventotto anni e forse è perfino felice. L'editore Antonicelli cambia il titolo del manoscritto di Primo Levi in Se questo è un uomo e lo manda in stampa. L'11 ottobre viene pubblicato in 2500 copie. Carta economica, nessuna campagna pubblicitaria che si possa definire tale, ma è pur sempre qualcosa. La classe media di Torino un po' se ne interessa, esce qualche recensione. Tutto qui. Nient'altro. Il testo scompare nel nulla. La testimonianza rimane inascoltata. | << | < | > | >> |Pagina 267| << | < | > | >> |Pagina 270PalestinaLa prima ondata. Anche così si può descrivere la moltitudine di persone che raccoglie i propri averi tra spari e scoppi di bombe, sotto i tetti dove i cecchini della morte aspettano con i fucili carichi. I bambini e i loro libri di scuola, le fotografie, i gioielli, una pipa, un peso infinito di giorni vissuti, immagini accumulate a formare un bagaglio di esperienza. Chiavi appese al collo con un laccio, con una catenina, chiavi che abbandonano la propria serratura, bambini che abbandonano i giochi sotto cespugli di rose, bambini che si lasciano alle spalle porte e serrature e appendono le chiavi alla memoria. Chiavi nelle mani, sotto il vestito, appese a una catenina al collo, a un filo, la chiave fredda contro la pelle, innominabile come la sofferenza. Il 4 dicembre al-Halisa è il primo di una lista di nomi dolorosi, di ulivi abbandonati e polvere di strada, un elenco scritto nella pietra, nella memoria delle 750.000 persone presto in fuga. Poi seguono: Haifa, Lifta, al-Mas`udiyya, Mansurat al-Kheit, Wadi `Ara, Cesarea, al-Haram, al-Mirr, Khirbat al-Manara, Madahíl, al-`Ulmaniyya, `Arab al-Zubeid, al-Husseiniyya, Tuleil, Kirad al-Ghannama, al-'Ubeidiyya, Qumya, Kirad al-Baqqara, al-Majdal, Ghuweir Abu Shusha, Nasir al-Din, Tiberiade, Kafr Sabt, al-Samra, Samakh, Ma'dhar, Hadatha, `Awlam, Sirin, al-Tira, `Arab al-Subeih, Betlemme, Umm al-`Amad, Yajur, Balad al-Sheikh, `Arab al-Ghawarinà, Deir Muheisin, Beit Jiz, Beit Susin, Deir Ayyub, Saris, al-Qastai, Beit Naqquba, Qalunya, `Ein Karim, al-Maliha, Deir Yassin, gli uomini ammazzati a Deir Yassin. Una raccolta di nomi che copre alcuni mesi: la prima ondata della prima ondata, il principio del principio. Gli abitanti che abbandonano tutto tranne le chiavi saranno i primi profughi. Scappano ma si voltano indietro di continuo. Di continuo. | << | < | > | >> |Pagina 287Il tempo è asimmetrico. Passa dall'ordine al disordine ed è impossibile che torni indietro. Un bicchiere che cade a terra e va in pezzi non può tornare a essere intero. Né è possibile individuare un punto che più di ogni altro equivalga al presente.Forse non è l'anno che voglio ricomporre. La ricomposizione riguarda me stessa. Non è il tempo a dover essere tenuto insieme, sono io, io e il dolore frantumato che provo e che aumenta sempre più. Il dolore per la violenza, la vergogna per la violenza, il dolore per la vergogna. È questa la mia eredità, il mio lavoro? È questo il mio primo compito – raccogliere pioggia, raccogliere vergogna? Acque sotterranee avvelenate di violenza. Gli orologi in movimento vanno più lenti di quelli in quiete. Una conseguenza del fatto che il tempo non è assoluto è che il concetto di contemporaneità è privo di significato. I giorni si avvicendano, uno dopo l'altro, e io li seguo. Gli eventi si dispongono uno accanto all'altro e io faccio una selezione. In realtà ne esce un'equazione semplice: il tempo, gli eventi più la mia cernita. Il risultato un filo spinato.
Tra le conseguenze della violenza c'è che le
persone che vivevano prima di me non ci sono
più, che í ricordi vengono annientati, che l'intero universo viene sepolto sotto
palazzi fatti esplodere. Il dolore si tramanda, in un flusso
costante che passa dall'ordine al disordine, ed
è impossibile che torni indietro. I ricordi sono
là, li vedo nell'oscurità, sotto la pioggia. Sono la
mia famiglia. Il buio la mia luce.
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