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| << | < | > | >> |Indice3 La prima volta 5 Rosetta 41 Enrichetto ed Erminia 70 Il camionista solitario 118 L'alba 145 Il ritorno 158 Sessantacinque 172 Trippoli 252 Il Vecchione e la Bella Fanciulla 300 L'ultima volta |
| << | < | > | >> |Pagina 3La prima voltaLevò la testa dalla tazza del caffellatte dove galleggiavano pezzetti di pane e biscotto, e prese lentamente a frignare. In realtà non sapeva bene perché, ma al tempo stesso sapeva bene che non poteva farne a meno. «Perché piangi, Emanuele?», gli disse la madre che in piedi accanto a lui lo sovrastava dall'alto. «Adesso succede una cosa bella, una cosa nuova... Vedrai, vedrai...» Tacque un attimo; anche lei aveva bisogno di rincuorarsi, ma al tempo stesso fidava sul fatto, inconfutabile per lei come per tutti, che al mondo esistono cose che non si possono non fare, che vanno fatte al momento giusto e che, una volta fatte, possono essere anche motivo di grande allegria e soddisfazione (questo, in verità, si apprende solo dopo, anzi, generalmente molto piú tardi, quando ci possiamo consentire di riversare sugli altri le esperienze che noi stessi abbiamo dolorosamente compiuto: allora diventano utili, o nobili, a seconda dei casi, o cosí sembra che sia, anche per noi, sia pure solo retrospettivamente, — e cioè del tutto inutilmente). Pian piano percorsero il non lungo tratto di strada che separava la loro casa da un formicaio brulicante di bambini e di madri. Emanuele non ne aveva mai visti tanti insieme, e la cosa lo preoccupò oltre misura. Una signora, alta e composta, facendosi strada in mezzo a tutta quella confusione, venne loro incontro, e disse: «Oh, e come si chiama questo bel bambino?» La madre, quasi riconoscente di quell'accoglienza, sollecita rispose: «Si chiama Emanuele, ma spesso in casa lo chiamiamo Manu!» «Oh, — fece di nuovo la signora alta e composta, — Emanuele, che bel nome! Vieni, Emanuele, vieni Manu, andiamo dai tuoi compagni!» La mano di Emanuele passò da quella della madre a quella della signora alta e composta, e ambedue si allontanarono verso la schiera già schiamazzante dei suoi presunti compagni. Sempre camminando al fianco di quella signora, che ogni tanto, sia pure dolcemente, lo strattonava per la mano, Emanuele volse la testa e si guardò indietro. Perché sua madre non veniva anche lei? Perché se ne andava? Perché lo salutava da lontano con quello strano sguardo negli occhi, — sorpresa, stupore, dispiacere, malessere, imbarazzo, rammarico, insomma chissà, — che prima non c'era mai stato? Emanuele capí che il mondo in quel momento era cambiato; e che non sarebbe mai piú stato come prima. Abbandonato a se stesso dalla mano protettiva della signora alta e composta, la quale nel frattempo si allontanava a compiere lo stesso cortese servizio con altri bambini sopravvenienti, si guardò intorno smarrito. In mezzo a tutto quel fracasso, in mezzo a quel brulicare di mani, gambe, piedi, occhi, capelli e grida, lui era rimasto solo, lui era stato lasciato solo. Non lo avrebbe mai dimenticato. | << | < | > | >> |Pagina 70Il camionista solitarioHans Dietrich Müller lavorava come camionista per l'Lkw Walter, grande ditta di trasporti automobilistici, che operava in tutta Europa, o quasi. Dalla città di residenza, - un centro industriale di primissimo ordine, - partiva una o due volte la settimana, a seconda della durata presumibile del percorso, - andata e ritorno, s'intende, - arrivava a destinazione, - a seconda dei casi in Francia, Austria, Slovacchia, Polonia, Spagna, persino in Russia, anche se meno frequentemente, Gran Bretagna, Portogallo, paesi scandinavi, - depositava il suo carico, - in genere pezzi di ricambio, il piú delle volte dotazioni normali, ogni volta ricorrenti, talvolta invece il frutto delle ordinazioni diversificate dei molteplici clienti periferici, - e poi, con il suo immenso veicolo vuoto, a meno che non ci fossero auto o pezzi da rispedire per un qualche motivo al punto di partenza, se ne tornava a casa. Faceva questo lavoro da dodici anni: quando aveva cominciato ne aveva ventidue. A casa lo aspettavano la giovane moglie, Gudrun, e due figli piccini, di cinque e due anni, Wilfried Siegfried e Hannelore. Dal giorno del loro matrimonio, sei anni prima, abitavano in una casetta periferica, nel sobborgo, metà industriale e metà residenziale, di Isenbüttel. Erano tutti molto felici.
Secondo i criteri giustamente prudenziali adottati dalla
direzione della Lkw Walter, i viaggi superiori ai duemila chilometri di
percorrenza, e dunque, approssimativamente, ai
quattro-cinque giorni di durata, - la velocità media era calcolata intorno ai
sessanta-settanta chilometri l'ora, date le
dimensioni del gigantesco autotreno e considerando anche
la portata assai rilevante del carico, anche se tutti sapevano
che, all'atto pratico, gli autisti premevano assai piú energicamente
sull'acceleratore, - prevedevano la presenza di due
autisti, che si davano il cambio fra loro ogni due-trecento chilometri. Hans
Dietrich non faticò molto, tuttavia, a imporre
una regola diversa. Dotato di grandi energie fisiche e nervose,
si sentiva in grado di farcela da solo anche sui lunghi o lunghissimi percorsi.
Ma soprattutto, soprattutto gli dava noia
trascorrere le lunghe ore rinchiuso nella cabina del camion
con l'obbligo di comunicare e condividere con un suo simile parole, discorsi,
musica, qualche intervallo nelle stazioni
di servizio, le scelte delle refezioni e dei pasti, la durata del
sonno, le decisioni, per quanto il piú delle volte prefissate e
obbligate, da prendere. Hans Dietrich preferiva di gran lunga fare da solo:
dunque, non parlare, anzi, come lui preferiva
pensare, puramente e semplicemente non aprire mai bocca;
accendere e spegnere la musica quando lui voleva; scegliere
i programmi da lui preferiti; fermarsi quando ne avvertiva il
bisogno; ripartire oppure no come e quando gli veniva voglia
di farlo; sovraintendere ai lavori di scarico, trattando direttamente con i
tecnici e gli operai, tedeschi, austriaci, polacchi, spagnoli, portoghesi,
eccetera eccetera, che li eseguivano; ripartire, o non ripartire, secondo quanto
gli sembrava opportuno fare. Del resto, anche a casa, con Gudrun aveva
instaurato un rapporto del genere, cui Gudrun si era volentieri (o almeno cosí
sembrava) adeguata. Quell'uomo, che del
resto trascorreva abitualmente due terzi o quattro quinti della settimana fuori
delle mura domestiche, quando c'era colloquiava con lei piú con lo sguardo e con
le mani che con la voce e le parole. Quando i bambini dormivano, non importa
se di giorno o di notte, la rovesciava sul letto con affettuosa
violenza e la penetrava senza neanche aspettare che lei si cavasse di dosso gli
ultimi indumenti o la camicia da notte appena indossata. Siccome ambedue ne
provavano un grande piacere, le modalità dell'atto, un po' sbrigative,
passavano, - almeno cosí sembrava che fosse, - in secondo piano.
Tenendo conto delle modalità lavorative da lui prescelte, Hans Dietrich Müller aveva a disposizione un tempo enorme per pensare: di piú, - non v'è ombra di dubbio, - anzi, molto di piú di qualunque altro essere umano impegnato in professioni anche meno servili della sua, impiegati di ufficio, medici, ingegneri, funzionari di banca, operai edili, e quant'altro; e sicuramente piú di qualunque, per quanto puntiglioso e vanaglorioso, intellettuale da strapazzo (il piú delle volte dedito, piú che al pensiero, all'esercizio vantaggioso delle proprie mondane attività e prestazioni). Ma, ovviamente, non lo impiegava tutto per pensare, non, almeno, nel senso che comunemente si attribuisce a tale termine. Una grande porzione di quel tempo era consumata infatti allo scopo di programmare e continuamente ri-programmare modalità, scelte ed espedienti del percorso che andava lentamente (lentamente, s'intende, in senso relativo rispetto alle velocità assolutamente diseguali delle auto private che gli saettavano intorno) compiendo. Se mai, in quel pensiero applicato al suo proprio movimento, e alle finalità banalmente commerciali dalle quali esso era motivato, doveva evitare, in certi momenti al piú alto grado possibile, a non farsene come ipnotizzare: a forza di stare attento alla guida, poteva accadere che si dimenticasse di cosa realmente stesse facendo. Ciò gli accadeva soprattutto, — e può sembrar strano solo agli inesperti, — quando gli capitava di rimanere compresso all'interno di una di quelle teorie di grandi camion, che si formavano quando, soprattutto in presenza di dossi e salite, i colossi non erano piú in grado né di superare né di farsi superare. Con lo sguardo fisso per un'ora e piú sul retro di un camion austriaco della Koch International o francese della Norbert Dentressangle, — la stessa tela cerata di copertura, vernice, forma, targa, scrittura pubblicitaria per chilometri e chilometri, — l'attenzione dovuta si trasformava in una quasi dolorosa contemplazione, in una sorta d'imprevedibile privazione delle sue possibilità di agire, muoversi, scegliere e, appunto, pensare. In questa singolare miscela, tuttavia, il quoziente di pensiero puro restava, nonostante tutto, piuttosto elevato. Pensiero puro? Beh, sí: non è pensiero puro quello che non ha né motivazione né scopo, e soprattutto si aggira vagabondo intorno ai propri stimoli senza adattarsi mai a sceglierne uno fra loro? Da questo punto di vista, Hans Dietrich ne aveva accumulato, nelle infinite ore, giorni, settimane, mesi e anni trascorsi alla guida del suo gigantesco Scania R730, una riserva pressoché sconfinata, di cui purtroppo non aveva mai saputo bene che fare. Hans Dietrich era un luterano, credente ma non praticante. Una parte del suo pensiero scivolava in alto nella stessa direzione e alla stessa velocità del camion che lui guidava, come fosse l'invisibile e inafferrabile copertura di un'esistenza votata al movimento e allo spostamento. Naturalmente Hans Dietrich non avrebbe saputo dire, anzi, neanche accennare, di quale natura fosse questa cosa che, a quanto gli sembrava di afferrare e capire, lo sovrastava dall'inizio alla fine dei suoi viaggi, mescolandosi con il caldo torrido delle estati e il nevischio e la pioggia dei pesanti temporali invernali. Ma, interrogato, avrebbe senza dubbio risposto che c'era, o almeno che lui sentiva che c'era. Incastonati a questo livello, nel flusso invisibile e inconoscibile da cui gli sembrava d'essere accompagnato nel corso dei suoi continui spostamenti, c'erano i pensieri per Gudrun, Wielfried e Hannelore: pensieri queti, non apprensivi, anzi ben radicati nel profondo; una sorta di arredo mentale, sulla cui continuità e indefinita sopravvivenza lui sapeva di poter contare, lui avrebbe contato senza remore né difficoltà a lungo, anzi lui era certo di poterlo pensare, e magari dire, senza fine, — per sempre. Il pensiero di Gudrun risvegliava talvolta il suo desiderio sessuale, non solo quando si coricava nell'ampio lettuccio (sarebbe dovuto bastare per due!) dietro il posto di guida, ma anche mentre guidava, soprattutto nelle lunghe monotone code da cui non gli riusciva di cavarsi fuori. Tuttavia, la cosa non suscitava in lui né allarme né ricerca di godimento immediato, improvviso o incontrollabile. Anzi: riversava tutto, anche l'attesa, nell'aspettativa del ritorno, che di lí a qualche giorno si sarebbe inevitabilmente verificato, e la rendeva piú piacevole. In dodici anni aveva ceduto solo tre o quattro volte alle tentazioni delle prostitute, che, in maniera piú o meno camuffata, attendevano i camionisti ai margini dei bar e ristoranti che costellavano la miriade di stazioni di servizio sparse qua e là sulle autostrade di tutta Europa. E, a dir la verità, ne aveva riportato un'impressione piú agra che piacevole, piú imbarazzante che distensiva. Al di là di tutto questo, che possiamo definire comprensibile e normale per un camionista perfettamente germanico degli inizi del XXI secolo, restava tuttavia un grumo, indefinito e indefinibile, di pensiero, che nessuno, a partire dallo stesso Hans Dietrich, avrebbe saputo descrivere e tanto meno interpretare. Forse c'è in tutti, ma in uno che fa migliaia di chilometri ogni mese, con l'unico scopo di transitare merce da un punto all'altro della terra, forse c'è di piú o, meglio, chi ce l'ha lo avverte di piú. Hans Dietrich sentiva con sufficiente chiarezza che al di là del pensiero che gli serviva per tenere l'immenso autotreno in strada, schivare gli ostacoli, accelerare e frenare al momento giusto, fermarsi quand'era necessario per non sfinirsi, mangiare e dormire quant'era necessario alla sopravvivenza, e al di là di quello che teneva insieme l'idea del ritorno e il desiderio che provava di Gudrun e il piacere che sapeva avrebbe provato nel ritrovare lei e i suoi adorati figlioletti, e persino al di là di quello che lui era abituato fin da bambino a considerare prevalente su qualsiasi limitato bisogno e desiderio umano, insomma la cosa che lo accompagnava nei suoi viaggi seguendolo dall'alto e adeguando generosamente la propria smisurata velocità a quella assai piú modesta dell'automezzo di cui lui teneva i comandi, — al di là di tutto questo, insomma, che aveva una spiegazione possibile e di sicuro un utilizzo sensato e comprensibile (anche quando si trattava di fenomeni che chiunque altro avrebbe definito legittimamente «spirituali»), il suo pensiero non si esauriva, non si era esaurito mai del tutto nelle varie funzioni nelle quali era stato impegnato e anche abbondantemente consumato. Cosa restava? Restava l'inesorabile, ma assolutamente certa e presente, sensazione che non tutto era stato giocato, impegnato, esaurito, liquidato. Fino a che punto Hans Dietrich lo sapeva? Per non dare risposte approssimative o avventate, diciamo che non lo sapeva per niente, lui non lo sapeva per niente. Sapeva soltanto che quando pensava, a qualcosa o a qualcuno di ciò o di quelli di cui abbiamo parlato, il quadro ai margini si sfrangiava, restava inconcluso, si perdeva in un territorio poco conosciuto o del tutto sconosciuto. Quando aveva fatto cinquecento chilometri piú o meno di autostrada, e lanciava lo sguardo intorno, su terre, colline, prati, coltivazioni, montagne, picchi, laghi, cittadine frastagliate fittamente ai margini, che ormai conosceva quasi a memoria per averli visti e rivisti infinite volte, invece di fermarsi su quel che vedeva, il suo pensiero si liberava dal vincolo estremamente costrittivo dello sguardo e della guida e si spingeva senza volerlo verso qualcosa che si librava al di là o al di sopra di qualsiasi cosa lui vedesse, facesse o, addirittura, pensasse. Come faceva a pensare quel che non pensava? La risposta è: capita a tutti, anche se non tutti, anzi quasi nessuno se ne accorge; perché non doveva capitare a Hans Dietrich Müller? La differenza è che, quando questo avveniva a Hans Dietrich Müller, non c'era nessuno lí intorno, come invece capita a quasi tutti gli altri, a richiamarlo indietro alla sua condizione originaria. Perciò lui ci si soffermava cosí a lungo e cosí intensamente, mentre le parti del suo cervello che restavano libere da questa intensa autofascinazione continuavano a consentirgli di manovrare freno, frizione, accelerazione, e di mantenere la giusta distanza dal camion della tedesca Shenker che lo precedeva a breve distanza. Quel grumo di pensiero, apparentemente inutile e di sicuro inutilizzabile, restava lí, in attesa che qualcosa lo liberasse dalla sua eterna attesa. Fu piú o meno in queste condizioni, fisiche e mentali, che partí un giorno del settembre 200*, verso le sei di mattina, con destinazione un paese del Sud Europa, che, per affermare la propria ineliminabile, — e sfrontata, — identità originaria, si spingeva verso il mare, allungandosi e al tempo stesso stringendosi, fino a farsene quasi totalmente assorbire e annullare. Gli operai suoi connazionali avevano lavorato tutta la notte a caricare il suo immenso camion: quando lui si presentò in ditta, c'erano soltanto alcuni tecnici a spiegargli le ultime cose e a consegnargli doverosamente i documenti del carico. Hans Dietrich era andato a dormire molto presto la sera prima: Gudrun, invece di coricarsi insieme con lui, aveva atteso diligentemente alle faccende dei bambini, poi gli aveva preparato una tisana ristoratrice, e gli si era coricata al fianco solo quando lui dormiva già profondamente. E si era appena risvegliata, senza levarsi dal letto, per rivolgergli un rapido saluto, — «Tschüss, gute Fahrt und komm bald wieder», - quando lui verso le cinque di mattina si era levato, per andare in bagno, consumare una rapida colazione, vestirsi e uscire per recarsi, nella sua piccola auto, che avrebbe lasciato nell'apposito parcheggio per dipendenti, al grande deposito della grande fabbrica automobilistica, da cui la sua Lkw traeva gran parte del proprio lavoro. Hans Dietrich doveva giungere, piú o meno nel tardo pomeriggio del giorno dopo, nei magazzini della ditta automobilistica per cui lui e la sua ditta di trasporti lavoravano, siti in una città marinara sovrastata da una montagna, né troppo larga né troppo alta, né troppo vicina né troppo lontana, da cui un tempo usciva, notoriamente, un filo di fumo, destinato ad allungarsi e ispessirsi nei momenti in cui una rabbia interna e profondissima lo costringeva a farlo. Hans Dietrich, scendendo per le autostrade, - in genere però sempre la stessa, - di quel lungo paese, affondato nel mare per la vergogna di esserci, non si era mai spinto piú giú di quel segnale di passati disordini e violenze, molto appariscenti, ma comunque incomparabilmente meno gravi e pesanti di quelli che ora vi accadevano all'ombra di palazzi fatiscenti e di chiuse chiese in declino. Si fermava lí, curava che il carico fosse diligentemente tratto giú dal suo autotreno e sistemato negli appositi depositi, vi passava la notte, la mattina dopo, sul far del giorno, ripartiva e giungeva a casa nel tardo pomeriggio o la sera, trovava ad accoglierlo Gudrun, Wilfred e Hannelore, consumava, non importa se in ritardo, il proprio pasto e poi, se gli andava, prendeva con impeto Gudrun stesa docilmente sul letto nuziale. I giorni successivi, - in genere un sabato e una domenica, - li trascorreva alzandosi tardi, girellando per il suo sobborgo o per la grande città limitrofa, da solo o con i bambini, vedendo qualche amico dopo cena o per prendere un caffè. Quel giorno Hans Dietrich, alla guida del proprio mezzo, attraversò un lungo tratto della sua amata Germania, piú avanti tagliò di sbieco un altro paese, diverso dal suo ma della sua medesima lingua, entrò in quel paese lungo e stretto sempre tentato di affondare nel mare, in un punto in cui, del tutto inverosimilmente, si parlava ancora la sua propria lingua, scese pazientemente sempre piú verso il Sud, raggiunse una grande pianura, la percorse, accelerando piú di quanto le regole gli avrebbero consentito di fare (Hans Dietrich conosceva appena quel paese, ma aveva presto imparato che nulla di quanto vi era ordinato o prescritto veniva rispettato e applicato), a un certo punto accese i fari del suo immenso autotreno, continuò a proseguire nel buio della notte, finché avverti fame e stanchezza. All'incirca a trecento chilometri dal passaggio della frontiera c'era un'imponente stazione di servizio, - bar, ristorante, rifornimento benzina, luci, spesso folla, qualche prostituta in cerca affannosa di lavoro, - nella quale una fitta schiera di camion, affiancati ordinatamente l'uno all'altro, dimostravano che i loro guidatori, delle piú diverse nazionalità europee, avevano deciso, dopo essersi piú o meno sommariamente rifocillati, di passarvi la notte. Lo stesso Hans Dietrich lo aveva fatto piú volte nei suoi precedenti viaggi. Ma questa volta il suo cervello funzionò diversamente. Come e perché? No, questo nessuno può chiederlo. Se qualcuno fosse in grado di rispondere a una domanda del genere, vorrebbe dire che la mente umana non avrebbe per lui segreti di sorta. Invece i segreti ci sono, - e come. Una spiegazione banale, ma verosimile, è che Hans Dietrich quella sera avesse a noia quel guazzabuglio di luci, rumori, odori, lingue diverse, e altre cose meno simpatiche, di cui una grande stazione di servizio, soprattutto di notte, gronda come un immondezzaio non svuotato da giorni. Oppure può darsi che la tentazione di sperimentare una novità prevalesse per una volta in lui nel criterio dell'eternamente ripetitivo, che in un camionista, come si può ben capire, tende a superare una qualsiasi altra tentazione dell'esperienza. Insomma, il dato di fatto è che, qualche chilometro prima di arrivare alla gigantesca stazione di servizio, Hans Dietrich, dopo averci pensato qualche minuto appena, decise d'imboccare un'uscita che immetteva direttamente nel buio sterminato di quella grande pianura che lui stava percorrendo da alcune ore in autostrada. Poche luci al casello, che Hans Dietrich attraversò agevolmente, essendo dotato di telepass internazionale: al di là si apriva una strada secondaria, sulla quale il suo gigantesco autotreno poté procedere molto piú lentamente, mentre le poche auto in circolazione gli si accodavano strombettando, oppure, procedendo in direzione contraria, rallentavano improvvisamente per dar modo a quell'immensa mole di transitare senza gravi inconvenienti. Hans Dietrich si disse di aver commesso una stupidaggine: per giunta le indicazioni stradali segnalavano, otto chilometri piú avanti, l'esistenza di un paese (o borgo? o città?) a lui perfettamente sconosciuto, quasi una paratia invisibile al suo appena abbozzato progetto di liberazione anche soltanto per una sera e una notte. Hans Dietrich stava meditando su come, sia pure a prezzo di impensabili sforzi, fare marcia indietro, tornare al casello, rientrare in autostrada e approdare all'ovvia, scontata, fastidiosissima ma tranquillizzante stazione di servizio, quando sulla destra gli si rivelò uno spiazzo, uno slargo per metà asfaltato e per metà sassoso, abbastanza grande perché la manovra vi si potesse svolgere agevolmente. Hans Dietrich uscí dalla strada e spinse il suo autocarro nello slargo. Ma mentre compiva questa manovra si rivelò alla luce dei suoi fari circumvolitanti un edificio basso, a due piani, nel fondo dello slargo, che portava sul tetto una modesta scritta al neon rosso che suonava: «Trattoria paesana». Parcheggiate sul davanti tre-quattro auto di piccola cilindrata. Hans Dietrich non intese completamente il senso del termine «paesana». Ma «trattoria» sapeva ormai perfettamente cosa volesse dire. Pensò che inaspettatamente poteva dar sfogo al suo piccolo desiderio di cambiamento. Terminò la manovra, sistemando il camion ai bordi estremi dello slargo, scese dalla cabina, chiuse la portiera, urinò contro la siepe, controllò che tutte le aperture degli spazi del carico fossero ermeticamente serrate, fece a piedi un giro in tondo dello slargo, come sempre faceva tutte le volte che ne scendeva per sgranchirsi le gambe, e si avviò verso l'ingresso della «Trattoria paesana». [...] | << | < | > | >> |Pagina 158Sessantacinque
La vecchia signora sollevò il viso dalla sciarpa nera che
tutto gliel'avvolgeva, si guardò intorno, vide il gruppo, di
vecchi e di giovani, raccolto accanto al feretro, respirò profondamente e
proruppe ad alta voce: «Finalmente! Non ne potevo più!» Poi si volse, e, sulle
gambe esili e traballanti,
si mosse nella direzione da cui erano venuti mezz'ora prima.
Alcuni dei presenti le lanciarono uno sguardo di sorpresa e
di stizza, altri pensarono che la fatica e il dolore le avessero
turbato il cervello, altri, i piú giovani, provarono la sensazione che qualcosa
di grosso fosse accaduto, senza però riuscire
neanche a immaginare che cosa. Dal gruppo che sostava intorno alla piccola
voragine di terra appena scavata, in attesa
che il feretro fosse inumato, si staccò Dorina, il nipote femmina piú adulto e
piú caro, volse anche lei le spalle al gruppo,
con due sgambate raggiunse la nonna che faticosamente si
allontanava, le mise una mano sotto il braccio, e, continuando a camminare e al
tempo stesso sostenendola sulla difficile
ghiaia del vialetto cimiteriale, la guardò di sguincio, apri la
bocca e disse: «Sí, coraggio, nonna, lo capisco, dopo tanto
strazio per la perdita del nonno, è comprensibile che non ne
puoi più... ma ora è finita, ora lui riposa in pace, non devi
preoccuparti piú di niente, devi solo ricordare com'era... e
come ti voleva bene, e come vi volevate bene!» La vecchia
signora, — Adele Strombi coniugata Pianciolla, — s'arrestò di
botto, al punto che Dorina fu imprevistamente quasi strattonata all'indietro,
guardò la nipote, apri la bocca anche lei e...
Di quel che disse la vecchia signora a Dorina, non resterebbe traccia, — per meglio dire: nessuna significativa e ragionevole traccia, — se non ci si rendesse conto almeno un poco del volto e dell'aspetto di chi aveva pronunziato quelle poche ma decisive, fulminanti parole. Se un numero abbastanza elevato dei nostri pochi, anzi, del tutto ipotetici lettori avesse una conoscenza anche limitata del metaforeggiare antico (e delle sue realistiche corrispondenze), avremmo potuto dire piú semplicemente che il viso di Adele era come una mela vizza. Siccome coloro che hanno visto anche una sola volta in vita loro una mela vizza sono oggi ridotti a un'infima minoranza, dovremo piú banalmente precisare che il volto di Adele Strombi, ormai vedova Pianciolla, era come un fitto, ininterrotto reticolo di rughe, su cui a fatica si stagliavano un naso piccolo e cadente e una bocca appena delineata e visibile nel labirinto degli intagli esigui ma profondi che il tempo aveva scavato nel suo modo d'essere e di presentarsi. La testa poggiava pressoché senza soluzioni di continuità su di un torso rattrappito e quasi deforme; e sotto, sotto, al riparo di una pesante gonna plissettata che le arrivava fin quasi ai piedi, le due gambe esili e molli le consentivano soltanto spostamenti lenti e ondeggianti. La signora era vecchia, vecchia, molto vecchia, e cosí la nonna Adele che era in lei, e di cui avrebbe fatto volentieri a meno se avesse potuto, ma non poteva. Adele Strombi, camuffata ormai da tempo immemorabile da vecchia signora, imprigionata in quello sterminato reticolo di rughe, si volse per quanto poteva verso la nipote Dorina, la guardò un istante da sotto in su come impermalita, apri la bocca anche lei e, un po' sibilando, un po' quasi ruggendo, le disse: «Che c'entra il funerale? Che c'entra il mortorio? Io parlavo di prima: di quando lui c'era; e com'era; e quel che faceva e diceva. Ecco, è questo che non ne potevo piú...» Fece una pausa, guardò di nuovo Dorina, che mostrava già qualche segno di sbigottimento, aspirò a lungo l'aria che le serviva per continuare e prosegui: «Ecco, è questo che non ne potevo più... ecco, è questo per fortuna che è finito...» Dorina la guardò stralunata. Sopraggiunsero uno a uno i componenti del piccolo corteo che fino a un momento prima s'era raccolto, silenzioso e triste, per rappresentare anche visibilmente l'ultimo saluto alla bara, in cui era racchiuso il venerando padre e nonno di quasi tutti loro, il novantenne Demetrio Pianciolla. C'erano i figli (suoi, e anche di Adele, ovviamente), Cesare, Damiano e Anacleto, tutti ormai fra i cinquanta e i sessantacinque anni, presi tutti e tre da una sorta di fascinazione della morte (alla loro età, se ti muore il padre, vuol dire che anche tu un poco muori, anzi, un poco sei morto), e perciò, piú che addolorati, seri e compassati come ad una cerimonia teatrale, ad una sorta di spettacolo pubblico; e i loro otto figli, Celestino, Rosa, Andrea (quelli di Cesare), Ottavio, Dorina e Adele (quelli di Damiano), Demetrio e Arianna (quelli di Anacleto), tutti fra i quarantaquattro e i sedici anni (Adele sedici; Dorina ventidue), presi alternativamente da un dolore moderato ma profondo (se un nonno se ne va a novant'anni, e tu lo hai conosciuto e lo ricordi da quando ne avevi, sul serio, quattro-cinque, e ora ne hai cinque-sei-sette volte tanti, è un pezzetto di vita che ti si stacca, cominci a pensare che il mondo andrà avanti per conto suo, anche senza rivolgerti neanche una domanda in proposito) e da una sorta di indifferenza quasi giuliva (il vecchio se n'è andato, e allora? era ora, con tutte le scocciature che ci ha procurato). Poi, due o tre cognati e cognate superstiti, accompagnati anche loro dai figli, che ne sostenevano il peso (lo avvertivano bene gli uni e gli altri), sempre piú inerte. C'era poi una decina di vecchi amici e amiche, piú o meno dell'età di Demetrio e Adele, in taluni casi accompagnati anche loro da figli e nipoti, che un po' li sostenevano fisicamente negli spostamenti lungo i vialetti del cimitero, un po' cercavano di confortarli dello spettacolo di quel funerale, che era, indubitabilmente era lo spettacolo premonitore della loro morte imminente. C'erano poi tre-quattro colleghi di Demetrio, che aveva lavorato per quarant'anni come «impiegato di concetto» (non si sapeva bene cosa volesse dire, ma si diceva) presso il ministero dei Trasporti, sito in piazza della C*** R***, e sapeva perciò tutto della circolazione su rotaie, pur essendo salito raramente su di un convoglio ferroviario. Anche questi ultimi erano accompagnati da figli e nipoti, perché, vetusti com'erano, come e piú di Demetrio, c'era il rischio che cadessero fra una siepe votiva e una fossa appena spalancata e lí restassero, senza avere neanche la forza di gridare aiuto, fino a tirare le cuoia.
Il gruppo si sbrancò nei pressi del monumentale ingresso
del cimitero. Saluti sobri, composti: parecchi di loro pensavano che non si
sarebbero piú visti nel corso della loro breve
vita residua, altri non vedevano l'ora di andarsene, per usufruire ancora un
poco di quello scampolo di vita, che, lungo o breve che fosse, toccava a ognuno
di loro di vivere. Il gruppo dei famigliari (figli, nipoti, cognati, nipoti e
figli di nipoti) si raccolse invece, ancora per qualche minuto, intorno
ad Adele. Ognuno voleva (piú o meno) esprimerle il proprio
dolore e la propria partecipazione. Alcuni di loro conoscevano lei, e
conoscevano Demetrio, da piú di cinquant'anni;
i figli e i nipoti, - non c'è bisogno di dirlo, - fin dalla nascita. Adele stava
con gli occhi chiusi, appoggiata al braccio di
Dorina, senza rispondere né a questo né a quella. Sembrava
anche lei immersa nel torpore che precede la morte, ma non
era cosí. Quando Damiano le mise una mano sulla spalla e le
disse dolcemente: «Andiamo, mamma. Ti accompagno io a casa», Adele si riscosse,
spalancò gli occhi, lasciò Dorina, si
mise al braccio di Damiano e lo segui fino alla sua auto. Sali
abbastanza lestamente nel sedile accanto al guidatore (soffriva da tempo
immemorabile di «mal d'auto», poteva viaggiare
solo seduta in quel posto) e inaspettatamente disse con voce
chiara e decisa: «Andiamo». Con Damiano salirono sua moglie Ernestina, e le
figlie Adele e Dorina (Ottavio se n'andò per suo conto); fecero mezz'ora di
tragitto, arrivarono sotto la casa di nonna Adele, la consegnarono nelle mani
della badante moldava Elisaveta, che era scesa in strada ad accoglierla, e se ne
andarono rapidamente verso la loro destinazione.
Passò qualche giorno. Poi, - era una domenica mattina, le cose in casa di Adele procedevano normalmente, la domenica per lei era un giorno come un altro, non era credente, non aveva bisogno di andare né a messa né a qualsiasi altra funzione ecclesiale, lei girava per casa ciabattando, Elisaveta aveva già rifatto i letti e si apprestava a preparare due spaghetti per pranzo, - qualcuno suonò alla porta. Era Dorina. Entrò, abbracciò e baciò la nonna, che le corrispose con molto vigore. Infatti, a quella nipote voleva bene, molto bene, piú che a tutti gli altri. Poi si sedettero ai due lati opposti del divano, stinto e diruto, che aveva anche lui conosciuto una lontana fase di giovinezza e ora aspettava, anche lui!, di essere portato nell'ultimo deposito, dove, come qualsiasi altra cosa al mondo, avrebbe atteso la definitiva dissoluzione. Nonna Adele fece portare a Dorina da Elisaveta un bicchiere di succo d'arancia: accadeva cosí da quando Dorina aveva pochi anni (allora, ovviamente, non era Elisaveta a portarglielo, ma nonna Adele in persona). Adele in quel momento aveva, piú o meno, ottantasette anni, Dorina ventidue. Le due donne si parlavano solitamente superando con sufficiente disinvoltura quel vero e proprio abisso temporale. I sessantacinque anni fatidici anche questa volta, sorprendentemente, ritornavano, ma rovesciati rispetto all'andamento reale delle cose. Dorina guardava esattamente dal lato opposto della vicenda. Cosa avrebbe potuto capirne? E pure, con grande sforzo, qualcosa arrivò a capirne. Non è cosí che sempre succede quando due, diversi per sesso o per età, si parlano? Fra Adele e Dorina il sesso era lo stesso, ma la distanza temporale indubbiamente maggiore. Il problema dunque restava: parlarsi, ed eventualmente capirsi, anche se enormemente diversi. Il volto di Adele sembrava la mappa di un'antica città, percorsa da una miriade di vie e viuzze; quello di Dorina era come una pesca matura appena raccolta, con tutti i suoi colori in bella vista. Ma l'una e l'altra si guardavano spesso negli occhi: e negli occhi trovavano, e qualche volta ritrovavano, un filo che altrimenti sarebbe rimasto invisibile. Adele guardò Dorina; Dorina guardò Adele, apri la bocca e chiese: «Nonna, cosa volevi dire con le parole dell'altro giorno... il giorno del funerale... "Non ne potevo piú, per fortuna che è finital..."? Posso non aver capito bene, forse mi sono confusa, sai, era la prima volta che partecipavo a un funerale, e poi quello di nonno, mi sono molto addolorata e impressionata... insomma, tu, tu, cosa volevi dire?» Adele le volse bruscamente le spalle, per quanto le scarse forze glielo consentivano, si alzò dal divano, fece due passi tremolanti, si volse di nuovo verso di lei, si calò all'indietro e si adagiò lentamente su di una poltroncina di tessuto verde, che da quarant'anni era la dimora abituale delle sue soste e delle sue meditazioni (e qualche volta delle sue letture): le estremità delle gambette e i piedi calzati anche loro da un paio di vecchie ciabatte le penzolavano nel vuoto. Guardò Dorina. Dorina notò con stupore che nonna Adele aveva per l'occasione spalancato i suoi vecchi occhi, sottraendoli per un istante alla pressione delle palpebre avvizzite e delle rughe. Gli occhi di Adele erano leggendari in famiglia, per quanto pochi potessero dire di averli mai veduti nel loro dispiegato splendore (soltanto Demetrio avrebbe potuto parlarne con piena cognizione di causa, ma questo, chissà perché, non era mai accaduto). Quel che Dorina vide erano due stente fessure, dentro le quali tuttavia trapelava un bagliore verde, quasi un richiamo di lontane e perdute stagioni. Ma quel che a Dorina fu dato di cogliere, oltre che quel colore, riemerso non si sa come da uno spento grigiore, fu una scintilla inesplicabile e ancor piú sorprendente. Dorina non l'aveva mai colta prima; e fu sorpresa che da nonna Adele, oltre che le parole del giorno del funerale, le provenisse ora quel singolare e inedito messaggio. Nonostante la duplice sorpresa, tentò di replicare: «Nonna, capisci, vorrei sapere che... e che cosa... e soprattutto perché...» Adele le fece un cenno con la mano, interrompendola: «No, che c'è da capire... Non volevo dire niente... niente che valesse la pena di capire. E poi, cosa servirebbe a te capire? Tu sei giovane, troppo giovane, per capire... E agli altri non importa nulla, hai visto anche tu, no? Nessuno, oltre te, s'è fermato a chiedermi che cosa e perché... Non importa niente a nessuno, te l'assicuro, perché dovrebbe importare a te?» Dorina la interruppe: «No, non è vero, nonna... il babbo Damiano, quando eravamo l'altra sera davanti alla televisione... lo sai anche tu che lui pensa e ragiona soltanto quando è davanti alla televisione, per il resto è occupato dalle faccende della vita, non ha tempo né modo di pensare... quando eravamo davanti alla televisione, si è voltato verso di me e ha detto, ha detto piano: "Chissà cosa voleva dire l'altro giorno tua nonna Adele con quello che ha detto al cimitero quando stavamo tutti per andarcene?" E poi: "Anche Cesare me l'ha chiesto... e anche Celestino, ieri, quando l'ho incontrato in autobus..." E ancora: "Nessuno ha capito niente, chissà cosa voleva dire?" La mamma Ernestina a questo punto ha annuito anche lei, anche lei non ha capito niente. Capisci, nonna? Nessuno ha capito niente. E tutti sono preoccupati. Pensano... pensano che tu non stia bene...» Adele scoppiò a ridere. Dorina vide nella cavità oscura della bocca, che anch'essa inconsuetamente si spalancava senza ritegno, i denti consumati e traballanti, i pezzi di dentiera sparsi qua e là, che le consentivano ancora di consumare il cibo e dunque di sopravvivere. «I figli, le nuore, i nipoti? Non hanno mai visto né voluto sapere niente, - mai, mai!, - e ora mi prendono per matta? Se non hanno mai visto né voluto sapere niente in tanti anni, perché dovrebbero sapere o volere qualcosa oggi?» Adele tacque. Dorina notò che, nell'occhio apparentemente spento di Adele, quello strano bagliore continuava nonostante tutto inverosimilmente a brillare. Le due donne si guardarono di nuovo, si guardarono a lungo. Dorina pensava: cos'è accaduto, cosa accade in quel vecchio cranio? Adele pensava: fino a che punto questa ragazza, questa ragazzetta, merita di essere presa sul serio? Adele decise di non rispondere al quesito che lei stessa s'era posta: che senso aveva porsi delle domande del genere a partire dalla situazione quasi secolare nella quale lei si trovava? Se uno sta per morire, indubitabilmente sta per morire, e se contemporaneamente chi ti è stato vicino tutta una vita è appena morto, i valori cambiano, gli interrogativi del dare e dell'avere, del sapere e del non sapere mutano radicalmente, non c'è piú modo di sottoporli a verifica (faccio bene? faccio male? è meglio se lo faccio? è meglio se non lo faccio?), bisogna soltanto inchinarsi alle circostanze. Dorina, inoltre, era carina, e simpatica, e autenticamente affettuosa: perché negare proprio a lei di sapere quello che fino allora nessun altro aveva saputo? Adele apri di nuovo la bocca e ricominciò a parlare: «Sai quanti anni siamo stati insieme io e tuo nonno Demetrio? Sessantacinque: due prima del matrimonio, sessantatre dopo. Quando ci siamo incontrati, io avevo ventidue anni, tuo nonno venticinque. Si può stare insieme tutto questo tempo soltanto se ci si vuole bene, sí, ma...» Adele s'interruppe. Dorina fece: «Ma?» «Ma... - riprese Adele, - ma... riesci a immaginare una sequela ininterrotta di giorni... quanti? migliaia e migliaia, di sicuro... una sequela ininterrotta di giorni tutti uguali, uno identico all'altro... nessun mutamento, nessun imprevisto...» Dorina la interruppe: «Ma appunto, nonna. Vi volevate bene, il nonno ti voleva bene, cosa sarebbe dovuto cambiare? Sarebbe cambiato solo se aveste smesso, solo se nonno avesse smesso di volerti bene... » Anche questa volta Adele rise: «Ma appunto, Dorina. Prova a immaginare questa corrente di sentimenti che ti scivola addosso, ogni giorno, ogni ora della vita, senza cambiare mai, senza lasciarti mai requie... Mai un'occhiata cattiva, mai una parola meno che rispettosa... E, prova a immaginare anche questo: come avrei potuto guardarlo male, come avrei potuto indirizzargli una parola meno che rispettosa, visto che lui non mi ha mai guardato male, non mi ha mai indirizzato una parola meno che rispettosa? Era come se mi fossi incatenata al suo volermi bene, alla sua straordinaria, ammirevole affettuosità...» Dorina la guardò, pensò un momento, poi riprese (ma con una sorta di affanno nella voce, di cui lei stessa si sorprese): «Insomma, nonna, cosa vuoi dire: che se nonno Demetrio ti avesse voluto meno bene, se ogni tanto ti avesse rivolto una parola sgarbata e cattiva, se ti avesse trascurato ogni tanto, tu saresti stata piú contenta?» Questa volta Adele divenne piú seria, e tacque. «Voglio dire... voglio dire che sono morta dalla noia, - riprese dopo averci pensato. - Sai, Dorina, la noia è il peggiore dei mali, sfianca anche le resistenze piú forti. Il male, quello che comunemente noi chiamiamo male, ed è cambiamento, sconcerto, stravolgimento e... sí, anche violenza e dolore, si può fronteggiare, combattere, vincere, se uno ne ha la forza e i mezzi... Ma la noia no, la noia è impermeabile a qualsiasi resistenza, non è un male, ma non è neanche un bene, è la ripetizione infinita degli stessi comportamenti, delle stesse movenze, delle stesse domande, delle stesse risposte». Un'altra lunga pausa, che Dorina consumò, pensando con intensità per lei inconsueta a quello che stava ascoltando e a quello che stava vivendo. «Demetrio era questo, capisci, Dorina? - riprese nonna Adele. - Mai uno scatto, mai un cambiamento... mai una violenza...» Dorina sbarrò gli occhi: «Violenza?» «Sí, Dorina... se tu cambi, se tu presenti un'altra faccia, se per un lungo istante guardi da un'altra parte, questa è violenza... Ma quando torni a guardare dalla stessa parte, è diverso, hai cambiato, sei diverso. No, non penso al tradimento...» Nuova pausa. «Del resto, non posso escludere che Demetrio, amandomi ininterrottamente sempre nello stesso modo, abbia trovato anche il tempo e il modo per tradirmi... (Dorina sbarrò gli occhi). Mi voleva talmente bene, e sempre in questo modo uniforme e inattaccabile, che può aver anche pensato di essere nel diritto di prendersi qualche distrazione... qualche distrazione, fuori del nostro amore, che, tanto, non avrebbe potuto non restare sempre uguale e sempre inattaccabile». «Questo è quel che succede, quando l'amore, il volersi bene, sono noia», concluse. |