Autore Maria Attanasio
Titolo Lo splendore del niente e altre storie
EdizioneSellerio, Palermo, 2020, La memoria 1159 , pag. 222, cop.fle., dim. 12x16,8x1,3 cm , Isbn 978-88-389-4027-9
LettoreMargherita Cena, 2020
Classe narrativa italiana , regioni: Sicilia












 

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Indice


Lo splendore del niente e altre storie


Frammenti di un'oscurata genealogia             13


Delle fiamme, dell'amore                        15

Correva l'anno 1698 e nella città avvenne
    il fatto memorabile                         31

La donna pittora                               101

Lo splendore del niente                        123

I gatti dell'isola nomade                      161

Dell'arcano liquore e di altri odori           181

Morte per acqua                                197


Notizie                                        207


 

 

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Pagina 13

Frammenti di un'oscurata genealogia



                        Confitto nello spazio e nel tempo come un seme
                        infruttuoso, ascolto il respiro polveroso dei secoli,
                        il nostro e quello di Artemisia, congiunti.

                                                        ANNA BANTI, Artemisia



Si nasce per caso in un luogo, che può diventare scelta, destino.

E destino di scrittura è stata per me Caltagirone, l'immaginaria Calacte della maggior parte di questi racconti, le cui storie risalgono dall'anonima verticalità di tempi ed esistenze oscuramente pulsanti tra le statiche quinte di piazze e conventi, di carruggi e palazzi.

Storie soprattutto di donne - ribelli non rassegnate - di cui spesso resta solo un gesto, un dettaglio, impigliato in vecchi libri o nelle scritture di cronisti locali: frammenti dell'immemore genealogia delle madri, che arrivano a me, si insediano in me, fino a quando - con uno spostamento di prospettiva storica, e una forte compenetrazione empatica - non restituisco loro parola e identità. Restituendola anche a me stessa.

È nella narrazione - scrive Paul Ricoeur in Tempo e racconto - che la temporalità diventa soggetto e oggetto di scrittura, nel doppio senso di tempo narrativo e tempo narrato; la finzione letteraria colma infatti le zone d'ombra, riempie il silenzio del vissuto che nessun archivio registra e tramanda.

Ricostruendo, tra immaginario storico e tracce documentali, il pensare e l'operare di Catarina, Francisca, Annarcangela, Ignazia, ma anche delle protagoniste degli altri racconti - appartenenti a una diversa spazialità, ma alla stessa genealogia passata sotto silenzio - la mia vita si è fusa con la loro in una sorta di transfert, di autobiografia traslata nel tempo dell'esclusione dal linguaggio che ha caratterizzato l'identità di genere; dove però è possibile ritrovare sorprendenti storie di coraggio e di resistenza alla discriminazione e all'ingiustizia.

Pensieri, gesti, sentimenti, bisogno di riscatto, che dal secolo dei Lumi irrompono nella contemporaneità facendosi scrittura della presenza: confitta nell'accadere - qui, adesso - da esso lasciandosi attraversare, con esso inevitabilmente confrontandosi.

E talvolta scontrandosi.

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Pagina 31

Correva l'anno 1698 e nella città avvenne il fatto memorabile





Premessa
Del terremoto, della città, del suo cronista



I



Calacte è città di vasai fin dalla preistoria, prima che Calacte fosse Calacte.

Ma anche di aggrovigliate migrazioni.

Gli arabi le diedero il nome e la topografia - le strade strette, tortuose, gli imprevedibili slarghi: così simili alla casbah di Tunis o di Tanger -, ne connotarono la lingua - un dialetto tutto pieno di "u", aspirate, gutturali - e i tratti somatici degli abitanti.

Poi altri transiti: normanni, genovesi - che quelle strette strade chiamarono carruggi -, ebrei, francesi, aragonesi. Gli spagnoli infine. Il Seicento: un vissuto che ancora pulsa nei muri dei palazzi, nelle icone sbiadite, nelle grate ferrigne dei conventi.


La storia di Calacte, che città gratissima, per le sue laute donazioni, la monarchia spagnola nominò, è simile a quella di tutte le città demaniali siciliane: storia di nobili e conventi, di artigiani e querceti, di libertà civiche e schiavitù di classe, di una campagna avara e splendente, tante volte teatro di sanguinose jacqueries, della scrittura devota degli umili cronisti; quei «commoventi ricercatori di glorie civiche» - così li definiva Benedetto Croce, che ne sottolineava la pazienza e l'utilità - nel cui lavoro, oscuro e senza gloria, macrocosmo e microcosmo, individuo e collettivo coincidono, tra le venature delle civiche narrazioni talvolta risuonando l'eco di un quotidiano rimosso dall'ordinata sequenza dei destini generali.

Tra i cronisti di Calacte, il più singolare fu tale Polizzi, figliolo di Antonio e di nome Giacomo, che dal 1692 a due anni dalla sua morte, scrisse le cronache della città.

Ma i suoi manoscritti andarono perduti all'inizio del Novecento per un incendio, forse doloso, che, insieme a libri e incunaboli, mandò in fumo anche inquietanti testimonianze d'archivio: false donazioni, illeciti atti di vendita... Superstiti, solo pochi frammenti di una fedele trascrizione ottocentesca, dai quali emerge, in modo netto, una figura di cronista insolita in un secolo in cui una fatalità di classe, senza possibilità di riscatto, segnava l'individuo fin dalla nascita.

Non essendo né nobile, né prete, Polizzi sapeva a malapena leggere e scrivere, ancora bambino dal padre messo a bottega presso uno stovigliaio, dove imparò, presto e bene - e questo resterà il suo lavoro per tutta la vita -, a decorare utensili e suppellettili di terracotta.

Un giorno un amico gli portò da Palermo il libro di uno storico a lui contemporaneo, il Diario del Mongitore.

Fu una folgorazione: da semplice e illetterato pittore di stoviglie si trasformò, d'improvviso, in appassionato cronista della sua città.

Poveri forse gli apparvero i colori, e fragile l'argilla, rispetto alla scrittura: attraversando indenne guerre, carestie e terremoti, gli sembrò un suggello più forte e duraturo del bianco e dell'azzurro dei suoi smalti.

Ignaro delle leggi della retorica e della grammatica, si inventò sintassi e ortografia, e il suo linguaggio - straordinario pastiche di dialetto e lingua - divenne stile: dimensione testuale in cui si riflettono (e si mettono in gioco) sentimenti e umori, affetti e valori suoi e del suo mondo.

Non conoscendo affatto il corretto uso delle maiuscole e delle minuscole, Giacomo Polizzi, ad esempio, inizia con la maiuscola tutte quelle parole che, nel circoscritto mondo contadino di Calacte, sono sostanze, res quotidianamente esperibili, condizioni strutturali del vivere e del morire: Aria, Casa, Campagna, così come Ncarciaratu, Patrone, Inquesitore, mentre scrive in minuscolo ciò che da esso è lontano o astratto, si tratti pure di capitali o viceré.

E al di là di ogni precisa ricostruzione biografica è facile immaginarlo nel suo pianterreno ingombro di brocche, pentole, vasi di terracotta, dipinti e pronti per l'ultima cottura, la sera intento a scrivere alla debole luce della lumiera: i contorni degli oggetti incerti, le ombre più dense agli angoli della stanza, mentre fuori, nella vasta notte, abbaiano cani e sbattono porte.

Ma per lo scriba chino sulle sue carte, nient'altro esiste se non il tempo e la parola, la fiamma della candela vacillante nelle alte sere invernali.


Polizzi fu dunque scriba e vasaio, coniugò la terra e la parola, registrando - con la tensione comunicativa e la vivacità espressiva di chi, uscito da un millenario analfabetismo avverte finalmente docile lo strumento di potere del prete e del notaio - gli avvenimenti più importanti della città; eventi civici, ma anche episodi di vita quotidiana che, trasbordando dal privato, investivano l'immaginario collettivo, oggetto di lunghe e appassionate conversazioni, di diffuso sbrebiglio di uomini e donne nei carruggi di Calacte.

Passando davanti alla sua bottega, con la scusa di osservare una ciotola o un tegame, le donne spesso si fermavano a chiacchierare con lui, sollecitando il suo parere su intricate storie di conventi e principesse, di nobili amori e proletari tradimenti, di interminabili liti tra vicini, di piccole rivalse, di cattiverie dettate dal bisogno o dall'indole.

Un affanno profondo a volte lo prendeva per quell'umanità malnutrita, malvestita, dimenticata da Dio.

Perciò non aveva preso moglie.

«La vita» ripeteva alle donne che maliziosamente gli chiedevano quando si sarebbe deciso «è bella solo se raccontata. Dentro le parole non c'è freddo, né carestia, né paura: gli uomini possono soffrire senza dolore, mangiare senza pane, morire senza morte».

Ma trovandosi al di qua delle parole, nell'agitato e angustiato mare dell'esistenza, Giacomo Polizzi restò sempre celibe, votandosi attivamente ad una confraternita religiosa. La sua scelta non era certo del tutto ortodossa.

«Meglio darsi a Dio» diceva, ma darsi a Dio per lui significava sottrarre altre creature al ciclo delle nascite e della riproduzione, respingere l'umana sofferenza: «Dio vuole la castità perché non vuole che nascano infelici. Il terremoto. L'avete dimenticato?».

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Pagina 51

IV



L'imprevedibile morte del marito, morsicato da una vipera mentre coglieva asparagi, aveva scardinato la vita di Francisca.

Tornata in città, si ritrovò del tutto estranea ai ritmi di vita urbani e totalmente al di fuori dalla gerarchia di tabù e di valori delle donne di Calacte che, per l'esperienza di vita acquisita, le apparivano incomprensibili.

Sentiva una profonda diversità rispetto alle sue vicine di casa, mogli di campagnoli e artigiani, che la compativano, avevano, sì, pietà di lei, ma, vedendola senza alcuna risorsa economica - e difficile essendo, in quel periodo, trovare lavoro come serva presso i già crollati e non ancora del tutto ricostruiti palazzi dei signori -, tutte le consigliavano di ricoverarsi nel lupanare: ancora giovane e bella un pezzo di pane o - se era fortunata - qualcuno che potesse mantenerla da signora, poteva sempre trovarlo.

E di fronte alla sua dichiarata volontà di farsi campagnola e andare, come un uomo, a lavorare a giornata o a mesata, restavano perciò profondamente sconcertate.

La preferenza lavorativa di Francisca contravveniva infatti a ogni norma etica e a ogni consuetudine sociale che a Calacte, dove non c'è mai stato, e non c'è nemmeno adesso, un bracciantato femminile, vietava alle donne ogni tipo di lavoro promiscuo, e soprattutto quel tipo di lavoro.

Francisca però pensava sempre più spesso alle parole del marito, finché un giorno si decise: si presentò anche lei, all'alba, in piazza del mercato, alla chiamata dei giornatari, affermando, davanti agli stupiti capoccia, che sapeva potare e zappare meglio di un uomo, e chiedendo perciò di essere messa alla prova.

Nessuno, quel primo giorno, ne volle sapere.

Ritornò ostinata ogni mattina, finché uno dei capi, dopo essersi consultato col suo padrone, decise, tra lo scetticismo e la derisione generale, di provare.

La fama dell'abilità di Francisca, soprattutto in lavori di innesto e potatura, si diffuse presto per tutta la città e tutti facevano ormai a gara nel chiamarla.

Era più abile e svelta dei suoi compagni, ma gli abiti femminili la ponevano in una situazione di inferiorità e di disagio: intralciandole i movimenti, le gonne, che doveva continuamente tirare da una parte e dall'altra, rendevano difficoltoso il lavoro e mortificante la convivenza con i compagni che, con parole pesanti e sguardi torbidi sulle sue caviglie e sul suo corpetto di lana, cercavano, appena potevano, di toccarla.

Sentendosi ingiustamente umiliata, decise di porre fine una volta per tutte a quella vergogna, adeguando l'aspetto fisico al ruolo lavorativo.

Vestirsi da maschio e farsi chiamare Messer Francisco, le sembrò, perciò, la più opportuna e naturale delle soluzioni. In fretta e furia cambiò casa, andando ad abitare in un quartiere dove nessuno la conosceva, e nel catoio di via Stella iniziò la nuova vita di Messer Francisco, l'uomo-donna.

Con la nuova identità cominciò a sentirsi sempre più forte e sempre più uguale ai compagni di lavoro, alle cui modalità comportamentali cercò di integrarsi totalmente, rimuovendo ogni indizio fisico o psichico esplicitamente riconducibile alla sua femminilità.

«Masculu fora e fimmina intra» ripeteva a se stessa con determinazione, mentre i suoi gesti apparivano sempre più decisi, il suo passo sempre più sicuro e affermativo, e il suo volto, scurito dal sole, quasi hominigno.

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Pagina 63

Il mito di una Sicilia solare e policroma è in parte un falso: il sole, il mare, gli aranceti sono reali solo lungo le coste. L'interno è arido e riarso d'estate, umido e nebbioso d'inverno, in una monocromia quasi totale e senza sfumature, che svaria, però, a ogni stagione: dal fragile verde di febbraio, al giallo acceso di prima estate, all'ascetico bruno di settembre.

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Pagina 95

IV



Inspiegabile e forse unica legittimazione, nella misogina Europa del Seicento che non solo le streghe, ma tutte quante le donne, costringeva al silenzio: le troppo ciarliere, le lunatiche, le ipocrite - a volte dagli stessi mariti pubblicamente accusate - venivano messe alla gogna; col volto stretto nel mordacchio o in maschere di ferro, dalle ridicole forme animali - il maiale, il topo, l'asino, la gallina - esposte al ludibrio della folla che su di loro si accaniva, gettando sterco e orina, sfregiandone il seno e il pube.

E tra i tanti strumenti di tortura dell'Inquisizione, pochi erano quelli esclusivi degli organi sessuali maschili, molti ed efferatamente esemplari quelli per le donne: la pera vaginale, lo schiacciaseno, lo strizzatoio di capezzoli...


L'appartenenza a Calacte, in quel tempo, non era però solo un puro dato anagrafico, ma incondizionata e inappellabile categoria di giudizio nei confronti di un mondo estraneo e altro, al di là del suo vastissimo demanio.

Tutta la comunità - nobili, preti, contadini - sentiva come assoluto, rispetto a ogni altro potere, il potere della città, superba e gelosa custode del suo mero e misto impero, dei suoi privilegi e delle sue libertà civiche.

Lontana da Palermo e da Madrid, e chiusa a ogni esterna interferenza, Calacte gestiva in autonomia le sue istituzioni religiose e politiche.

Anche il rigore del locale Santo Tribunale, in quegli anni, non era perciò eccessivo.

In seguito alle violente e intricate querelles tra Francescani e Domenicani, già da tempo ne era stata demandata la direzione a esponenti locali del clero diocesano.

Più a diretto contatto con un ambiente in cui fatture, malocchi e complicati scongiuri rientravano con naturalezza nell'ordine quotidiano, i preti erano, inoltre, più saggiamente accomodanti dei rigoristi e stranieri frati: una sorta di tacito accordo con streghe e liberi pensatori, violentemente spezzato quando l'eresia o la magarìa, provocatoriamente esibite, potevano danneggiare il buon nome e l'autorità del Tribunale.

Che, però, l'eccentrica Francisca, con pubblico e mai visto scandalo, aveva spezzato.

E scattata la procedura, la collera del Tribunale, nella nebbiosa città, era implacabile.

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Pagina 97

V



Francisca invece, indossando chausi, chausuni, rubbone e saimerco, se ne va, benedetta dall'Inquisitore, tranquillamente per li fatti suoi: la verità tra l'inespresso del vissuto e il possibile delle congetture.


Forse fu opportunismo. Forse tolleranza. Forse soltanto pietà.

O forse, in quella buiosa stanza del Santo Tribunale, l'Inquisitore assentì allo sguardo incerto di Francisca...

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Pagina 127

Primo movimento:
Donna Innocenti Palmieri



Non ci furono scaldini, conche, ardenti camini che potessero bastare, in quel freddissimo inverno del 1699, a riscaldare gli ampi saloni del palazzo tra cui, in attesa di sgravare da un momento all'altro, tutta imbacuccata si aggirava Donna Innocenza Palmieri.

Ma la nascita di Ignazia - prima femmina dopo sei figli maschi - fece subito dimenticare l'apocalittico freddo all'infreddolita baronessa e gli irreparabili danni delle gelate nei seminativi al barone Federico Perremuto, entrambi totalmente assorbiti dai preparativi per festeggiare degnamente, sul finire della primavera, quella nascita: una sfarzosa festa che sancisse la nobile appartenenza della neonata Ignazia, ribadendo il prestigio e l'egemonia della famiglia nella città.

Una ventata di rinnovamento attraversò il palazzo; il velluto rosso delle tappezzerie fu sostituito con le delicate tonalità pastello di una fine seta damascata, mentre i massicci arredi lasciarono il posto a una mobilia più leggera e aggraziata che maestri d'ascia e decoratori, appositamente venuti dalla capitale, realizzarono nel nuovo stile in voga a Napoli e a Parigi.

Ma la sera del memorabile ricevimento la festeggiata Ignazia pianse tutto il tempo a dirotto mentre la baronessa la mostrava, confusa e imbarazzata, agli insigni convenuti: una cosa paonazza e stizzita tra nastri e merletti.

[...]

Ignazia non fu la figlia docile che aveva immaginato, ma un'ostinata bambina in perpetua lite con i fratelli che spesso riempiva di strilli e di gorgheggi i severi saloni del palazzo: più di ogni cosa infatti le piaceva cantare.

Non ancora adolescente Donna Innocenza per farle piacere la condusse per la prima volta ad una festa teatrale. L'eccitazione della figlia per la novità dell'evento si trasformò in concentrato rapimento quando il canto del sopranista dilagò alto e limpido nella stellata notte, decrescendo infine in melodioso sussurro.

Ma alla fine della prima parte imprevedibilmente Ignazia salì sul palcoscenico, cominciando a voce spiegata a gorgheggiare. Caparbiamente: la dovettero trascinare via di peso.

Per una settimana fu castigata nella sua stanza all'isolamento e al silenzio. La serva che l'accudiva riferiva ai genitori che la bambina con monotonia e ostinazione ripeteva: «Perché sono femminella, io no?».


Donna Innocenza restò disorientata dalla domanda della sua amatissima figlia che sembrava non riconoscere l'ordine naturale delle cose: che cantano gli uomini, i castrati, e mai le donne. Che così era il mondo, dai tempi dei tempi. E sempre sarà.

Per toglierle quell'orribile cosa dalla testa, le fu vietato di cantare. E Ignazia non cantò più. Ma non riuscì più a condurla a teatro - nemmeno l'inflessibile barone ci riuscì: con lei troppo arrendevole - e quando per dovere d'obbedienza il Direttore spirituale ve la costrinse, Ignazia nulla vide e nulla sentì: né le eleganti tolette delle dame, né l'animazione delle scene, né il sublime contrasto tra il contraltista e il sopranista, come fu costretta a confessare a Padre Antonio Macusi, messo sull'avviso da una donna che l'aveva vista starsene tutta la sera a occhi chiusi, come dormiente.


Fu la prima delle inquietanti domande che, talvolta dopo giorni di scontroso silenzio, la figlia adolescente all'improvviso le poneva. Una volta mentre lei le stava raccontando del sogno premonitore della sua nascita, bruscamente le chiese: «E io dov'ero prima della nascita? Dov'era il mio corpo di carne, la mia anima di fiamma?».

Donna Innocenza rimase sbalordita e senza parole.

Ignazia era esattamente l'opposto di ciò che lei si aspettava: da capricciosa bambina si era trasformata in eccentrica giovinetta che rifiutava la vita di società preferendo al comodo e al lusso del suo palazzo un'angusta stanzetta nella zona servile. Era obbediente, ma di un'obbedienza asciutta, doverosa, da cui la madre si sentiva più intimidita che soddisfatta: un'obbedienza talvolta apertamente rifiutata; e per evitare che la fragile e ostinata Ignazia morisse per fame o impazzisse per il troppo pensare, aveva dovuto chiedere il deciso intervento di Padre Antonio Macusi, che le aveva drasticamente limitato il digiuno solo all'Avvento e le troppe letture ai soli libri di devozione.

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Pagina 151

Si sveglia in una stanza d'oscura penombra. Si alza.

A piedi nudi va verso il balcone: giù, nel grande piano alberato, l'animato passeggio, il festoso incrociarsi di carrozze e portantine.

Il crepuscolo lentamente cede a una nebbiosa sera - le parole confuse, i suoni spenti - solo un incomprensibile brusio nel passo ancheggiante delle dame, nell'impettita andatura dei cavalieri.


«L'ultima volta che ti vedo, mondo» pensa mentre da un'esistenza che non è la sua risale un cigolare di carrozza, si ferma davanti al suo palazzo: un passo deciso e il parlare straniero. Le mani forti del conte a sostenerla.

Il letto è lontanissimo: vacilla.




Si trattiene ai mobili, alle tende, passa davanti allo specchio.

«Chi sei?» domanda.

«Lo splendore del niente» risponde la mente già vacillante, dispersa: sabbia tra l'infinita sabbia, polvere tra l'infinita polvere della terra e del cielo.




È la prima ora della notte del 30 novembre 1730: faticosamente dopo millenni raggiunge il letto.

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Pagina 154

Quinto mivimento:
l'obbedienza



Ignazia Perremuto fu obbediente: attese il suo direttore spirituale che ritornò in tempo per darle l'estrema unzione e raccogliere le sue ultime parole.

«Addio ricchezze. Addio parenti. Addio amici. Addio tutto: andiamo» disse Ignazia e cadde in coma.

Padre Antonio Macusi volle ancora una volta mettere alla prova l'obbedienza della sua assistita.

Le prese la mano. La chiamò. «Ripeti con me Gesù e Maria» le ordinò.

«Gesù e Maria» dal profondo del coma Ignazia ripeté. E spirò. Era la seconda ora della notte del 1° dicembre 1730.

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Pagina 155

Epilogo



Se fosse nata a Parigi, e settant'anni dopo, forse Ignazia Perremuto sarebbe stata una di quelle femmes-filosofes che, nei club, nelle assemblee, nei comitati rivoluzionari, sul finire del Settecento, trasformavano in prassi le astratte speculazioni sull'uguaglianza e sulla libertà, decisamente affermando la parità tra i sessi, come la girondina Etta Palm, la giacobina Claire Lacombe o l'appassionata e singolare Olympe de Gouges; nel settembre del 1791 pubblicherà infatti La dichiarazione dei diritti della donna e della cittadina, dedicata alla regina Maria Antonietta, anch'essa in quanto donna considerata oppressa: una dedica che le sarà fatale, insieme a lei finendo i suoi giorni sulla ghigliottina.

Ma nel casuale e sterminato mare delle possibilità esistenziali in cui caso e necessità, genetica e storia capricciosamente s'intersecano, determinando quello che comunemente si definisce "destino", Ignazia si era invece trovata a vivere in uno spazio-tempo in cui la vita delle donne era ancora esclusivamente scandita tra famiglia e convento, tra chiacchiere e pratiche devote.

Scelse ugualmente la libertà.

Non poté però che viverla all'interno, opponendo al falso pieno di una vita agiata e senza possibilità di scelta, la solitaria e mistica avventura dell'anima: voleva imitare la vita e la santità, le nobili imprese e la divina estasi di Santa Teresa.

Ma, cercando l'estasi, trovò la mente e, in essa dilagante, il niente.

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Pagina 192

IV



Durante il processo Giovanna Bonanno, detta la vecchia dell'aceto, rivendicò con forza la solidarietà femminile, come motivazione a monte del suo operato, avendo aiutato - in quei tempi senza divorzio né separazione - tante povere donne a liberarsi dalla schiavitù coniugale, e, sebbene più raramente, anche qualche marito; una complicità che le aveva consentito di passare senza difficoltà economiche e con serenità gli ultimi anni della sua vecchiaia. Tanti furono i delitti confessati, ma tantissimi quelli taciuti, e tra essi anche la morte, cum veneno propinato, di compare Pino e commare Carmeluzza.

Estremamente grati per quel silenzio, i tanti beneficati sperarono fino all'ultimo che un miracoloso intervento divino sospendesse l'ingiusta esecuzione di quella che, tra il 1786 e il 1788, aveva fatto giustizia di mogli buttane e compari traditori. Pregando per l'anima della loro benefattrice, ripetevano quella stessa formula con cui lei siglava la positiva conclusione di ogni suo terapeutico intervento di coppia: «U signuri ci pozza arrifriscari l'armicedda!».

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Pagina 194

V



Tutto invece si svolse regolarmente e con grande esultanza di popolo, che a lungo applaudì il ben fatto lavoro del boia, e l'esaltante conclusione dello spettacolo, dalla fine dell'Inquisizione, nel 1782, diventato piuttosto infrequente.

Ma non si dovette aspettare a lungo, a Palermo; pochi anni dopo - nel Piano di Santa Teresa - una grande folla assistette all'esecuzione di Francesco Paolo Di Blasi, e degli altri congiurati: tra i pochi, in Sicilia, a cui erano arrivati il suono e il senso di quei tremendi rumori parigini del 1789, mettendosi anch'essi in cammino verso la città futura, il cui percorso la Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino - promulgata nell'agosto del 1789 - quell'anno indicava.

E dopo di loro - dal secolo dei Lumi fino alle soglie del terzo millennio - altri, e altri ancora: a resistere, a testimoniare. Per trasformarla in vita l'utopia. Ma qui si ferma - in questa omologazione di pensiero e consumi - ogni profumo di diversità.

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