Copertina
Autore Louis Auchincloss
Titolo L'imbroglione
EdizioneFazi, Roma, 2003, Le strade 62 , pag. 288, dim. 138x210x20 mm , Isbn 978-88-8112-376-6
OriginaleThe Embexxler [1966]
TraduttoreMonica Pavani
LettoreAngela Razzini, 2003
Classe narrativa statunitense
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Pagina 11

Ho l'onore di essere diventato una leggenda durante la mia vita, ma non in modo molto edificante. Oggi, nel 1960, forse non tutti gli scolari (cosa ne sanno loro del passato dell'America?) ma di sicuro qualsiasi studente che abbia seguito al college un corso di storia contemporanea, anche non troppo approfondito, sa di Guy Prime. Sono un simbolo dell'iniquità finanziaria, del tradimento della fiducia, del marciume nella vecchia Wall Street prima del getto purificatore del New Deal. Se non fossi esistito, Franklin Roosevelt (che aveva un'anima ben più subdola della mia) avrebbe dovuto inventarmi. Gli ebrei non furono più utili a Hitler di quanto lo sia stata la mia misera malversazione per il giudice di pace dell'Hudson. E la leggenda che ne è derivata ha praticamente distrutto il mio povero ego. Agli occhi dei vecchi amici e dei miei conoscenti nel mondo degli affari che sono sopravvissuti, e perfino per Angelica e i nostri due figli, ho smesso di esistere realmente molto tempo fa.

Ovvio che ogni tanto devono venir fuori ricordi spiacevoli che richiamano alla memoria l'uomo oltre che la leggenda. «Oh, sì, è ancora vivo», mi pare di sentirli riferire all'assillante curioso di turno. «Vive là a Panama, se quello si chiama vivere. No, non è poi tanto vecchio. Settantaquattro, forse. Settantacinque? È sempre stato forte come un cavallo. Sappiamo che ha una piccola ditta di export e una giovane moglie panamense. Probabilmente vive alla Riley. Perché no? Ha sempre avuto la pelle di un rinoceronte».

Tanto vale che io sia lontano, dagli occhi e dal cuore. Così forse i miei nipoti non verranno per forza associati a quello che ho fatto. I figli di Evadne, naturalmente, sono dei Geer, non dei Prime, e nella società americana un nonno da parte di madre è un parente troppo remoto per rappresentare un retaggio eccessivamente oneroso. Il pericolo, semmai, sussiste per i ragazzi di Percy, ma, per loro fortuna, soprattutto se io non sono lì che smanio per impormi all'attenzione pubblica, la soffice abbondanza della lana Prime potrebbe quasi bastare per coprire quell'unico pezzettino di pelle livida. Perché la lana è soffice. Considerando l'irrisorio contributo civico dei numerosi discendenti di Lewis Prime, quel compiaciuto diarista e banditore della Manhattan settecentesca, è curioso che il nome echeggi ora così altisonante e aristocratico. Suppongo che una famiglia non sia altro che il predominio dei discendenti maschi, e certamente i Prime, tranne mio padre, hanno combinato matrimoni vantaggiosi. Come nella galleria dei ritratti di un castello europeo il cui padrone, fermo nella sua convinzione che un gran lignaggio non ha nulla da temere, indica con pari soddisfazione l'avo che fu pirata e il nonno che fu primo ministro, così i miei discendenti potranno andar fieri di accostare, con l'orgoglio del collezionista e per il diletto di gente meno strana, la scelleratezza dei miei peculati e l'untuosità dei sermoni del vescovo Prime.

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Pagina 53

La prima volta che lo vidi mi parve quasi effeminato. Era alto, magro e languido, con la pelle color avorio e i capelli castani simili a una parrucca; era lecito aspettarsi che si portasse il tabacco da fiuto alle narici facendo frusciare appena i polsini di pizzo. Professava di disprezzare tutto quello che era accaduto dal 1850 in poi e trovava New York e perfino la povera, piccola Bar Harbor irreparabilmente involgarite dalla sfrenata corsa alla ricchezza che, ai suoi occhi, aveva macchiato il promettente quaderno di bella copia della storia americana. Dato che suo nonno aveva posseduto una flotta di velieri, aveva sempre cercato di mettere in relazione la De Grasse Brothers con il mercato cinese e con quello che reputava l'ambiente marittimo più irreprensibile di quei tempi andati. Aveva riempito il piccolo tempio dorico all'angolo tra Wall e Pearl Street, che ospitava la banca di famiglia, con stampe di navi in mare aperto e di caccia alle balene, quadri con porti e mercanti cinesi, vetrinette contenenti porcellane rare e draghi d'oro. La sputacchiera, la telescrivente, le tetre fotografie di barbuti soci defunti non facevano per lui. Eppure le leziosaggini e i manierismi in base ai quali il mondo elabora i propri giudizi e che dovrebbero essere irrilevanti agli occhi di chi persegue la verità, nel suo caso contavano ancora meno che in altri. L'essenza di Marcellus de Grasse risiedeva nella capacità speculativa del suo intelletto e nel piacere che gli derivava dal suo esercizio. Odiava i testi di consultazione e i compendi di statistica. Quando si presentava una particolare domanda, gli piaceva starsene seduto con la schiena appoggiata indietro, le lunghe dita bianche strette sui braccioli della sedia, e cercare di arrivare alla risposta per pura deduzione.

La prima volta che colpii la sua attenzione come qualcosa di più che un amico delle sue figlie, eravamo seduti nel suo studio dopo il pranzo domenicale della famiglia De Grasse, durante il quale io e lui eravamo stati i due soli uomini. Capitò che si scusasse per essersi rivolto duramente al maggiordomo, che aveva portato il brandy sbagliato. Suppongo che fosse imbarazzato di essersi mostrato irritabile di fronte a un ragazzo.

«Non si dovrebbe mai perdere la pazienza con i domestici», mi disse appena l'uomo se ne fu andato. «Non possono ribattere. E inoltre, non li si paga abbastanza per poterli maltrattare. Non sono come gli avvocati o i dottori».

«Ma hanno le commissioni», osservai. Mio padre aveva fatto di me un esperto di simili cose mondane.

«Commissioni?».

«In paese ottengono una percentuale su tutto quello che lei compra».

«Povero me, dici che funziona proprio così?».

«Oh, sì, signore. Essere un maggiordomo in casa De Grasse è una gran cosa a Bar Harbor. Ida, la nostra cuoca, mi ha detto che il suo avrebbe potuto andare in pensione dopo cinque anni».

«E cosa faresti di lui se fossi uno della nostra famiglia? Lo licenzieresti?».

«Oh, no, signore. Ma potrei chiedergli di dividere i guadagi!»

Il signor De Grasse era divertito. «Sembri tu il banchiere, mio giovane amico. Mi fai sentire molto ingenuo».

«Non è colpa sua, signore. Papà dice che è semplice rubare un dollaro a un uomo che pensa sempre ai milioni».

«Davvero? E se pensassi sempre ai dollari, suppongo che qualcuno potrebbe fregarmi un milione».

«Sì, deve stare attento. Papà dice che chiunque sia nato ricco dev'essere stupido».

Le labbra del signor De Grasse si limitarono a schiudersi in un sorriso sottile. «Confesso di avere, di tanto in tanto, tratto vantaggio proprio da quel pregiudizio. Talvolta può risultare assai conveniente essere considerato uno stupido».

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Quale reale felicità ci si poteva aspettare da un matrimonio così incrinato fin dall'inizio? Quale vera unione poteva nascere dallo scontro di due simili illusioni? In Europa e in Angelica mi ero augurato di trovare qualcosa di meglio della forsennata corsa al successo commerciale in cui comunque Rex mi aveva superato, e lei aveva sperato di scoprire in New York un rifugio dal logorio dell'estetismo e dalla dominazione di una madre imbattibile. Entrambi ci eravamo fatti un'idea sbagliata di noi stessi. Io ero fondamentalmente nato per una vita d'affari da yankee e Angelica per il mondo dell'arte. Ovvero, io ero sempre figlio di mio padre e lei figlia di sua madre.

Fin dall'inizio, lei si vergognò di me. Questa era la pura verità. I primi anni cercò di essere una buona moglie, ma in un modo un po' freddino, passivo. Faceva quasi tutte le cose che mi aspettavo da lei (dopo alcune terribili discussioni molto accese) e apparentemente si adattò alla società del mercato azionario in cui io desideravo, e dovevo, vivere; ma aveva sempre l'aria da granduchessa in esilio, che cercava con tutta se stessa di accontentarsi di una civiltà a lei estranea fatta di luci al neon, senza mai sembrare viva. A volte ho pensato che il suo conformismo rispettoso fosse un insulto ai miei amici più grave di quanto sarebbe stata l'insubordinazione più grossolana. «Non voglio farvene una colpa, a nessuno di voi; davvero, ben lungi da me», sembrava suggerire con la sua aria leggermente imbarazzata, accompagnata da una scrollatina di spalle. «È tutta colpa mia, l'intera faccenda; non mi faccio illusioni. Cosa diavolo ci sto a fare dans cette galère?».

Ovviamente, questo alla luce del senno di poi. Nella vita reale il deterioramento della nostra felicità coniugale fu un processo lento. L'attrazione reciproca rimase notevole, almeno finché andai all'estero durante la prima guerra mondiale; nacquero due figli, che fornirono il legame vincolante della natura, e c'era sempre il cattolicesimo di Angelica, molto più radicato in lei di quanto volesse ammettere. Tante coppie sono rimaste unite con molte meno cose in comune. Ma dopo che mi congedai dall'esercito, e con l'approssimarsi degli anni Venti - un'epoca tanto mia quanto così poco sua che cominciò il suo corso tumultuoso - il nostro allontanamento divenne un dato di fatto che riconoscemmo e accettammo. Nessuno dei due accennò mai all'eventualità del divorzio.

Avevo considerato la guerra la mia ultima possibilità per essere qualcosa di diverso da Guy Prime, il mediatore di borsa. Mi ero immaginato di diventare un eroe e, se fosse accaduto, non mi importava se lo sarei stato da morto. Mi ero precipitato entusiasta al campo di addestramento volontari di Plattsburg e poi alla scuola ufficiali di Louisville, per poi trovarmi sequestrato dal generale Devers e inserito nel personale di servizio vicino a Parigi fino alla fine della guerra. Rex, d'altra parte, troppo impegnato alla De Grasse per andare a Plattsburg, e uomo d'affari troppo indispensabile per essere spedito a Louisville, con qualche spintarella ottenne all'ultimo minuto un posto da ufficiale e andò in Francia dove una settimana prima dell'armistizio gli diedero la medaglia d'argento per aver scoperto un nido di mitragliatrici. Gli dèi evidentemente avevano scritto l'ultima parola nel libro della competizione fra me e lui!

Tornai dalla Francia, deciso a godermi la vita nell'unico modo che ormai pensavo mi restasse: avrei fatto più soldi possibile e ne avrei sperperati altrettanti. Avrei ignorato la hauteur di Rex e la volubilità di Angelica. Se non c'era abbastanza amore sotto il mio tetto, ne avrei trovato quanto volevo altrove. Quegli anni, Dio solo lo sa, erano propizi per tutto questo. Era l'epoca d'oro del mediatore di borsa, e la mia piccola ditta in pochissimo tempo aveva fatto passi da gigante negli affari. Nel giro di cinque anni avevo fondato il Glenville Club, e Angelica aveva costruito Meadowview.

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La madre di Guy qui aveva ragione. La signora Chauncey Prime faceva un'impressione completamente diversa da quello che era in realtà. Tutto nel suo aspetto indicava un atteggiamento da "per favore, non diciamo assurdità", un modo diretto brusco ma amabile, una capacità fantastica di scostare i drappeggi pesanti che chiudevano tutto per lasciare entrare l'aria. Era grossa, non particolarmente bella ma esuberante, e usava il parasole come una duchessa terribile in una commedia da salotto inglese, per dare dei colpetti ai giovani e invitarli a stare dalla sua parte. Ma cos'era, in realtà, quell'esempio di virtù, quella gorgone immensa e piumata, quella splendida despota, se non una pusillanime che tremava al minimo cenno di disapprovazione da parte dell'uomo insignificante che lei aveva reso ricco? Con il tempo avrei scoperto che la società di New York era piena di simili paradossi.

Per tre sabati pomeriggio andai con Alix e la signora Prime all'opera, prima che mi facessero incontrare il loro signore e padrone a un pranzo domenicale. Chauncey Prime era una versione più minuta e asciutta del padre di Guy, immacolato come lui, ma invece di tenersi molto eretto inarcava le spalle e scrollava la testa nell'infinito esercizio della sua infinita capacità di disprezzo. Durante il pranzo non manifestò neanche una volta il minimo interesse per nessun argomento affrontato nella conversazione.

«Mi hanno detto che lavora per Marcellus de Grasse», mi disse con un tono burbero. «Immagino sia un suo grande ammiratore. Pare che tutti i giovani lo siano».

«È dotato di grande immaginazione, signore. In effetti, dubito che esista un uomo con un concetto più nobile del suo riguardo al ruolo del capitale nella società moderna».

Il signor Prime emise un grugnito. Avrei dovuto intuire che per lui l'entusiasmo era un anatema. L'uomo che aveva sposato il suo denaro poteva permettersi di ammirare solo il mero fatto di possederlo.

«De Grasse sarà anche una persona eccezionale», continuò, «ma appartiene a un'epoca passata. Uomini come Rockefeller e Carnegie oggi potrebbero comprarlo e rivenderlo venti volte. Mi ricorda un baronetto con la parrucca incipriata che ficca il naso in una fonderia d'acciaio».

«Ma di sicuro il capitale non è solo una questione di quantità», protestai, forse troppo animatamente. «Non importerà piuttosto sapere dove è richiesto? Un pugno di dollari nel posto giusto possono ancora fare la storia industriale. E penso che la De Grasse Brothers, con il loro acume per questo genere di cose, resisterà quanto i suoi Rockefeller e Carnegie. Se non di più».

Il signor Prime emise un altro grugnito e non mi rivolse altre osservazioni fino al termine del pranzo. Se c'era una cosa che odiava più dell'entusiasmo era un giovane entusiasta.

Alix quel pomeriggio venne a passeggiare con me nel parco. Era la quinta volta che la vedevo e la prima che eravamo soli. Mi resi conto mortificato che tremavo quasi al punto da non riuscire a parlare. Quando la riportai a casa non avevamo scambiato una sola parola che non avrebbe potuto essere espressa in presenza di entrambi i suoi genitori. Eppure ero sicuro, dalla sua aria sostenuta e dagli sguardi schivi, che anche lei era in difficoltà.

Per tutta la vita mi ero immaginato artefice del mio destino. Un giorno, naturalmente, mi sarei sposato, e mia moglie sarebbe stata Lucy Ames, o una ragazza molto simile a lei. Ciò che non avevo mai visto o voluto vedere nelle mie carte era un'ereditiera. Invece eccomi lì, strozzato dalla passione, al punto di non capire più niente per una ragazza ricca che neanche ammiravo! Perché, in nome di Dio, si dice che l'amore è cieco? Io vedevo ogni difetto della povera Alix e ogni svantaggio che, dal mio particolare punto di vista, intuivo mi sarebbe derivato dai suoi vantaggi mondani.

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