Copertina
Autore Stéphane Audeguy
Titolo La teoria delle nuvole
EdizioneFazi, Roma, 2009, Le strade 155 , pag. 304, cop.ril.sov., dim. 14,5x22x3 cm , Isbn 978-88-6411-010-3
OriginaleLa Théorie des nuages
EdizioneGallimard, Paris, 2005
TraduttoreMaurizio Ferrara
LettoreCorrado Leonardo, 2009
Classe narrativa francese , natura , storia della scienza , scienze improbabili , erotica
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Indice


PRIMA PARTE
Lo studio dei cieli                       9

PARTE SECONDA
Verso altre latitudini                  105

PARTE TERZA
Il protocollo Abercrombie               203


 

 

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Pagina 13

Verso le cinque di sera, tutti i bambini sono tristi: cominciano a capire cosa sia il tempo. Il giorno declina un poco. Eppure dovranno rincasare, fare i bravi e mentire. In una domenica del giugno 2005, verso le cinque di sera, un sarto giapponese, chiamato Akira Kumo, sta parlando alla bibliotecaria che ha appena assunto. È seduto al terzo piano della sua residenza privata, in rue Lamarck, nella biblioteca personale che è di fronte al cielo: trenta metri quadri di doppie vetrate smorzano tutti i rumori della città. Al di sopra della linea grigia dei tetti si dispiegano le nuvole, sempre le stesse e sempre mutevoli, dimentiche dei paesaggi che sovrastano.

La nuova bibliotecaria guarda gli scaffali. Si chiama Virginie Latour. Akira Kumo le sta parlando di Londra all'inizio del diciannovesimo secolo. Dapprima Virginie Latour non capisce granché. Poi si tratta di nuvole. Si tratta di nuvole e Virginie Latour inizia a comprendere. Comprende che all'inizio del diciannovesimo secolo alcuni uomini muti e senza nome, disseminati in tutta l'Europa, hanno alzato gli occhi al cielo. Hanno guardato le nuvole con attenzione, persino con rispetto; e con una sorta di tranquilla pietà, le hanno amate. L'inglese Luke Howard era uno di quegli uomini.


Luke Howard è un giovane suddito dell'impero britannico. E risiede proprio nel cuore di quell'impero, a Londra, dove esercita la professione di farmacista. Appartiene alla Società degli Amici; è quello che si chiama un quacchero. È difficile non volergli bene. Infatti, con la costanza tranquilla degli innocenti, sembra aver dedicato la sua vita a poche cose: alle nuvole, agli uomini, al suo unico dio. Almeno una volta alla settimana, Luke Howard partecipa a una di quelle riunioni religiose che, presso i quaccheri, fungono da messa. A cosa servirebbe un prete nella Società degli Amici? I quaccheri leggono di continuo la Bibbia, e la Bibbia non parla né di un clero né di un papa. Il 25 novembre 1802, Luke Howard e i suoi correligionari si radunano in una saletta sopra il laboratorio farmaceutico dove lavora. I membri dell'assemblea si siedono in cerchio e rimangono in silenzio; eppure ognuno ha il diritto di esprimersi, ma nella misura in cui ha qualcosa da dire: perciò, molto spesso, i più tacciono. È così che si svolge una riunione di quaccheri. Certo, a quei fedeli può capitare di conversare; ma non discutono mai. Quando tuttavia, per disgrazia, nasce una discussione, o addirittura una disputa, il moderatore della riunione invoca il silenzio. E il silenzio cala. Da parte sua, Luke Howard sa tacere, è anzi quello che sa fare meglio, è il suo unico talento e lo possiede in sommo grado. Tace mirabilmente, per accogliere nel suo cuore le nuvole e gli uomini e, soprattutto, il creatore di ogni cosa.

La riunione del 25 novembre 1802 è stata silenziosa secondo il parere generale, assai proficua; ci sono tante specie di silenzio e i quaccheri primeggiano nel valutarle quello del 25 novembre 1802 ottiene il consenso unanime. Luke Howard si pone sulla soglia del laboratorio per salutare i partecipanti; gli ultimi a uscire sono i suoi amici più intimi. Si parla, di tutto e di niente; uno di loro gli chiede se abbia trovato l'argomento della conferenza che deve tenere il prossimo mese, nell'ambito ristretto e fraterno della piccola società erudita che hanno fondato. Risponde che esita ancora tra vari argomenti. Siccome non sa mentire, ognuno comprende che sta mentendo e si burla di lui con garbo; nessuno però insiste. La compagnia si separa. Luke Howard risale al primo piano e, in piedi davanti a un leggio malridotto, vetusto, si mette al lavoro.

A dire il vero, sin dall'istante in cui è stato scelto per la prossima conferenza, Luke Howard sa su cosa verterà. Intende parlare delle nuvole. E ne parlerà come nessuno prima di lui. Prima di lui, le nuvole non esistono in quanto tali. Non sono nient'altro che segni. Segni dell'ira o della beatitudine degli dèi. Segni dei capricci del Tempo. Semplici auspici, buoni o cattivi. Ma solamente segni, privi di un'esistenza propria. Ora non è possibile capire in tal modo le nuvole. Per capirle, sostiene Luke Howard, bisogna a un certo punto considerarle in se stesse, per se stesse. In breve, bisogna amarle, e in realtà egli è il primo a farlo, dall'antichità in poi. È il primo a contemplarle attivamente e crede di poter constatare che le nuvole sono formate da una materia unica, in continua trasformazione, che insomma ogni nuvola è la metamorfosi di un'altra. Decide perciò d'inventariare le loro regole di formazione e di battezzare le forme tipiche che scopre. E contrariamente al suo unico predecessore, un francese, Howard dà alle loro categorie nomi latini affinché tutti gli studiosi europei possano adottarli.

E adesso è facile per noi, per tutti. Tutto sembra facile dopo un'invenzione. Chiunque oggi può capire il motore inventato da Rudolf Diesel, o il principio di elaborazione delle immagini fisse di Niepce e Daguerre. Ma quanto alla concezione, è tremendamente ardua. La messa a punto non finisce mai. Nel caso delle nuvole, il nodo decisivo è la lingua. Il momento del battesimo è un momento molto delicato dell'invenzione scientifica; ci vuole un talento particolare, che può essere giudicato irrisorio, ma che si rivela essenziale. Perché i nomi di battesimo delle cose non funzionano come quelli degli uomini. Alla nascita gli uomini ricevono un nome e un cognome; poi li realizzano, oppure li contraddicono, o li cancellano, o li cambiano. A volte trascinano il loro patronimico nel fango; a volte lo innalzano all'apice della società; altre volte entrambe le azioni simultaneamente. Le cose, invece, esistono al di fuori del loro nome; possono esistere per secoli, mute e innominate. Eppure c'è un nome che le aspetta nel silenzio, un nome che bisogna inventare, trovare con spirito di scienziato, di poeta. Trovare quel nome che porta in sé la comprensione della cosa, trovare il nome delle nuvole è proprio quello che fa con successo Luke Howard, per primo tra gli uomini. E adesso vediamo le nubi con lui, grazie a lui: i cumuli e gli strati, i cirri e i nembi, c'è tutto ormai, tutto è così semplice.

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Come ogni cosa che sia troppo semplice e troppo bella, le nuvole sono un pericolo per l'uomo, dice un altro giorno Akira Kumo alla sua bibliotecaria, appollaiata su una scaletta. Gli uomini muoiono o si uccidono per cose molto semplici, come il denaro o l'odio. Un rompicapo troppo ingegnoso non spinge nessuno al suicidio: c'è chi rinuncia presto e chi lo risolve. Le nuvole sono un rompicapo pericolosamente semplice: se si scatta la fotografia di una nuvola a fiocchi e s'ingrandisce una parte del negativo, ci si accorge che l'orlo irregolare di una nuvola somiglia esso stesso a una nuvola. E questo, all'infinito: ogni particolare di una nuvola somiglia alla sua struttura generale. Così ogni nuvola può essere considerata come infinita, perché ogni anfratto della sua superficie, esaminato su scala più grande, nasconde altri anfratti, che a loro volta... A certi uomini piace affacciarsi su tali abissi; i più fragili di quegli uomini vi cadono avvolgendosi a spirale, nella notte eterna della vertigine. Virginie Latour chiede un esempio. Mentre trasporta sul lungo tavolo i volumi che lei gli porge, Akira Kumo spiega che soprattutto i pittori sono minacciati dalle nuvole. Certo, non gli artisti considerati tradizionalmente pittori di nuvole, come l'italiano Tiepolo, o l'inglese Constable, o anche gli olandesi. Questi hanno capito il pericolo: non dipingono i cieli come sono; insomma, barano e riescono a cavarsela. Altri pittori non hanno fatto invece attenzione: trovavano le nuvole interessanti, persino affascinanti, miracoli perenni, aerei, instancabili. E non hanno visto che alla fine avrebbero ceduto sotto il peso spaventoso delle nubi. Virginie Latour si spazientisce. Akira Kumo finisce col fare un esempio, il più noto di tutti, ma che non è affatto conosciuto, come tutti gli esempi di specialisti: il pittore inglese Carmichael. Non si conosce il suo nome di battesimo. Dell'intera sua collezione, i taccuini di Carmichael sono í pezzi preferiti da Akira Kumo. Gli sono costati poco o niente, dato che quell'artista misconosciuto ha distrutto quasi tutta la sua opera.

Durante l'estate del 1812, un pittore inglese chiamato Carmichael ha dipinto nuvole, e soltanto nuvole. Nello stesso periodo ha tenuto un diario di quella esperienza, in piccoli taccuini per schizzi; è l'unico manoscritto di suo pugno che sia giunto fino al ventunesimo secolo. Akira Kumo ha finanziato ricerche sul personaggio, ma non hanno dato quasi nessun risultato. Carmichael è citato da alcuni memorialisti e cronisti dell'inizio del diciannovesimo secolo come un giovane pittore promettente, che però non sembra aver mantenuto le promesse poiché, a partire dal 1804, non è più menzionato da nessuna parte in quanto pittore inglese attivo. In compenso, dopo questa data, lo si ritrova come professore di disegno; fino alla morte, colloca nei grandi giornali londinesi inserzioni pubblicitarie: si offre d'insegnare ai bambini e alle ragazze il disegno a carboncino, l'acquerello. Per avere un'idea di chi fosse il pittore Carmichael, fanno fede solamente i suoi taccuini del 1812. Nessun museo possiede nemmeno uno di quegli studi di cielo, come egli li chiama; gli unici due Carmichael superstiti sono prove giovanili, visibili al Victoria and Albert Museum di Londra. Akira Kumo è andato a vederli: due paesaggi insignificanti, nello stile di Gainsborough. Eppure Carmichael annota di aver dipinto un centinaio di sky studies; i primi risalgono al giugno 1811, l'ultimo è del 2 agosto 1812. Un esiguo numero di abbozzi, di schizzi tracciati ai margini del diario, suscita parecchi rimpianti: se ne sprigiona un'impressione incancellabile; è evidente che nessuno ha mai dipinto così magistralmente le nuvole.

Dopo il 2 agosto 1812, Carmichael sembra essere scampato da quella follia, da quella vertigine delle nuvole che descrive in modo febbrile nei suoi taccuini. Di quegli anni nebulosi, di quel periodo tutto sommato così breve, non ha mai parlato a nessuno, a quanto pare. All'inizio, del resto, non è interessato alle nuvole, ma al vento. Non si può certo dipingere il vento, a meno di essere cinesi; ma si può dipingere l'effetto dei venti: ostinatamente Carmichael osserva l'ondeggiare del grano che matura nelle pianure; osserva quegli arabeschi che le burrasche disegnano sulle acque di un lago; osserva il gonfiarsi delle vele e l'inclinazione delle attrezzature sugli oceani; osserva sulla terra i vortici della polvere e le abili curve delle dune. Ma verso la fine della primavera 1811, Carmichael comincia a sentire il richiamo muto delle nuvole. Si mette alla ricerca dell'osservatorio ideale e lo trova a due passi da Londra. È il posto sognato, è il posto dove, in quello stesso periodo, a Luke Howard piace passeggiare: la brughiera di Hampstead. È una brughiera e non un parco, ma non è veramente la campagna e ancora meno la natura, che duemila anni di civiltà hanno praticamente cancellato dall'Inghilterra. La brughiera di Hampstead, con i suoi stagni e le sue colline, le sue file di alberi centenari lungo i vialetti e, alla svolta di un sentiero ripido, gli orizzonti improvvisamente aperti sulla città di Londra. La brughiera di Hampstead comincia a essere quello che resterà per i due secoli venturi: il paradiso dei passeggiatori poco affascinati dalla piatta e arida severità di Hyde Park. Akira Kumo va a sedersi per riprendere fiato. Si rincantuccia nella sua poltrona. Virginie conosce il significato di quel gesto e si siede sui gradini della scaletta: la classificazione dei libri riprenderà più tardi.

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Le settimane scorrono, come fanno nel cielo di Parigi le nuvole estive, precedendo i temporali. Virginie Latour dà numeri di riferimento alla collezione di Akira Kumo, un ripiano dopo l'altro. In realtà non è una collezione da bibliofilo; quasi nessuna edizione rara, tranne quando l'opera non era disponibile in una versione corrente; in compenso non manca nessuna opera importante dedicata alle nuvole, e più in generale alla meteorologia, negli ultimi tre secoli, e nelle lingue conosciute o capite dal proprietario: il giapponese, il tedesco e l'inglese, il francese. Dalla seconda settimana della loro collaborazione, hanno invertito il modo in cui lavorano: Virginie viene di mattina, abbastanza presto, e lascia il sarto dopo il pranzo, che è servito loro il più delle volte nella stessa biblioteca; nel pomeriggio Akira Kumo bada ai suoi affari, quando gli assistenti hanno bisogno di lui.

Akira Kumo non sembra avere fretta. Racconta storie. Dopo un certo tempo, lei ha finalmente capito: non si può dire che siano storie false, non si può dire che le inventi di sana pianta; ma è evidente che le trasforma, che vi aggiunge elementi. Spesso l'improvvisazione gli gioca qualche scherzo: ha descritto a lungo alcune opere di Carmichael, dopo aver detto, il giorno prima, che nessuna era giunta fino a noi. Virginie Latour ha riflettuto su tutto questo: ha concluso che la cosa non aveva importanza. Ha dunque ascoltato con un piacere autentico tutte le storie di Akira Kumo: la storia di quel dotto e devoto arabo a cui il suo dio mandò una nuvoletta per trasportarlo sano e salvo fuori dal deserto; la storia dei templari smarriti nelle steppe, dalle parti di Tashkent, i cui cavalli gelarono attraversando un lago apparentemente inoffensivo; e tante altre ancora. Virginie Latour si è anche chiesta, un giorno, se non si fosse innamorata. Ma fa parte di quelle persone per le quali i popoli dell'Estremo Oriente sono completamente asessuati. E poi, Akira Kumo non la guarda mai con la benché minima concupiscenza. A Virginie piace tale parola. Concupiscenza. È comunque un po' offesa dall'assenza di concupiscenza; ma solo per una questione di principio.

Per molto tempo, dice un altro giorno Akira Kumo alla sua impiegata, gli scienziati non hanno neppure pensato al fatto che il cielo è azzurro; il colore, beninteso, era in mostra come oggi, apparentemente massiccio, quasi infinito nella varietà delle sue tinte. Migliaia di poeti lo avevano cantato, ma nessuno scienziato si era preso la briga di spiegarlo. Inoltre, i poeti non valevano più degli studiosi, perché non s'interessavano davvero all'azzurro del cielo; ne facevano un grosso simbolo panciuto, il colore dell'infinito, il colore del loro stesso dio, in fondo non sopportando che l'azzurro fosse semplicemente là, sublime. Tuttavia i secoli passavano e la corporazione degli scienziati si confondeva sempre meno con quella dei preti; e quanto più i cieli si spopolavano dei loro angeli, quanto più perdevano i loro prodigi e i loro dèi, tanto più si riempivano di uomini imbarcati in navicelle o in aeroplani. Allora si giunge a pensare che il cielo appare solamente azzurro. Si capisce, si spiega da dove nasce l'impressione di azzurro del cielo. Perché il sole, da parte sua, ignora il colore in sé, la luce che emette non ne possiede, o li possiede tutti. Il sole si accontenta di bombardare l'atmosfera della terra con tutte le sue lunghezze d'onda, con tutte le sue forze solari, che vanno dal non completamente rosso a oltre il viola. Così il sole invia, come alla rinfusa, il rosso e l'arancione, il giallo, il verde e l'azzurro, l'indaco e persino il viola. Ma quei colori non arrivano mai fino a noi; si scontrano con le minuscole molecole d'aria, e questo non appena raggiungono gli strati superiori dell'atmosfera. Poi le molecole d'aria degli strati superiori dell'atmosfera diffrangono quelle piccole quantità di luce, ma non in modo omogeneo: diffondono le piccole lunghezze d'onda meglio delle grandi; così l'aria del cielo non lascia passare molto il rosso, l'arancione o il giallo; in compenso diffonde bene l'azzurro, ma anche e soprattutto il viola. E dunque la maggior parte dei colori emessi dal sole non raggiungono mai la retina degli occhi umani. E perciò gli scienziati dimostrano che il cielo è viola. Tuttavia l'azzurro del cielo, di cui si era appena dimostrata l'inesistenza, aveva la bella insolenza di non tenere in nessun conto le spiegazioni degli studiosi: gli occhi degli uomini, anche gli occhi degli uomini di scienza, incapaci di distinguere il viola, continuano a vedere il cielo azzurro; e con la stessa sicurezza con cui sentivano la terra pressappoco piatta, sotto i loro piedi; con la stessa evidenza con cui vedevano ogni giorno il sole tramontare, sorgere.

Parallelamente, in tutta l'Europa, sono sempre più numerosi i semplici cittadini, i dilettanti istruiti, i coltivatori benestanti che tengono un diario del tempo, come si dice in quegli anni: ossia annotano, giorno dopo giorno, la direzione dei venti, le condizioni del cielo di mattina e di sera, la quantità di pioggia caduta, all'occorrenza. Quanto più gli uomini sanno proteggersi dal tempo che fa, tanto più parlano del tempo che fa; forse per passare il tempo. I meteorologi sono persuasi di essere sul punto di strappare alla pioggia e al vento ogni loro segreto. Perché ora ci sono i meteorologi, associazioni di meteorologia, congressi, bollettini.

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Ormai, sempre più spesso, Akira Kumo cerca di guadagnare tempo, di rimandare la fine dell'inventario della biblioteca. Virginie Latour lo sa bene e Akira Kumo sa che lei lo sa. Quando uno dei due non vuole lavorare, sopravviene una timidezza, e la conversazione, come per una sorta di tacita commemorazione del loro primo incontro, ritorna all'eroe preferito del sarto e della bibliotecaria. A Luke Howard, spiega Akira Kumo alla sua impiegata, non piaceva la guerra, in un tempo in cui piaceva a molti uomini; in un tempo in cui essere un uomo implicava, profondamente, che la guerra piacesse. Luke Howard è per di più un quacchero. Il suo disgusto per la guerra si esprime in atti, con coraggio. La sventura dei tempi fa di lui un contemporaneo di Napoleone Bonaparte, il più grande stratega e il più grande criminale del diciannovesimo secolo, e delle guerre europee più prestigiose e raccapriccianti. Nell'anno 1815, per esempio, e per l'ennesima volta negli ultimi trent'anni, il talento militare di quel generale, eroe della Rivoluzione francese e traditore della Repubblica, ha ancora lasciato attraverso l'Europa migliaia di orfani, d'infermi e di vedove.

Nell'anno 1815, una coalizione gigantesca ha posto fine, provvisoriamente, alle attività del generale corso. Una macchia di sangue e di fango comincia lentamente ad asciugarsi nella pianura di Waterloo. Ha smesso di piovere. Il lezzo dei cavalli crepati e dei soldati incancreniti sale lentamente verso il cielo radioso. Quei miasmi non danno fastidio all'imperatore dei francesi, in fuga verso Parigi; quel macellaio è troppo occupato a ruminare la sua grandezza perduta.

Quella disfatta dei francesi è anche la rivincita della meteorologia sull'imperiale stupidità di Bonaparte. Infatti Napoleone I, nel 1802, si è divertito a canzonare pubblicamente un dotto cavaliere, venuto a corte per presentare al più illustre dei suoi concittadini la prima classificazione delle nuvole. L'insieme è riuscito sgradito al sovrano, che non capisce come mai un ingegno eminente si culli in lavori così futili. Il sovrano ha persino sghignazzato, si è burlato del cavaliere e dei suoi bizzarri appellativi: nuvole a forma di vela, nuvole a crocchio, nuvole a pecorelle, a spazzino o a gruppo; i valletti della corte hanno riso con l'imperatore, senza capire l'interesse di tutti quei nuovi nomi associati al vano inseguimento delle nubi; andato via lo studioso, hanno rincarato la dose. Il cavaliere ha appena capito che il mondo che si annuncia non è adatto alla gente seria: non ricomparirà a corte.

Nel giugno 1812, Napoleone continua a disprezzare la nuova scienza chiamata meteorologia; il giovane ufficiale della Rivoluzione non avrebbe commesso un simile sbaglio. L'imperatore lancia seicentomila uomini verso Mosca. Corso smarrito in una Francia temperata, Napoleone può pretendere con superbia d'ignorare il tempo; il suo avversario, il generale Kutuzov, è un russo di antica stirpe; sa quanto costano le stagioni. Nel settembre 1812, alla battaglia di Borodino, Kutuzov ripiega abbandonando Mosca, che incendia. Sa che verrà in suo aiuto un alleato possente, infaticabile, che attacca di giorno come di notte, e di notte anche più ferocemente che di giorno: il freddo. L'inverno russo si avvicina. Il piccolo corso ignorante e ottuso si ostina a disprezzare la lezione delle cose e la minaccia dei caotici cieli russi. Indugia tra le rovine di Mosca fino al 12 ottobre e, a un tratto, l'inverno è giunto, spietato. Sulle prime uccide i cavalli affamati, spezza le loro zampe nei solchi gelati, li fa rotolare in fossi nascosti dalla neve, dove agonizzano, per un tempo interminabile, assaliti da lunghi brividi; vengono mangiati e, di notte, i soldati si riparano nelle carcasse delle bestie, da dove spesso all'alba non si rialzano. L'inverno annerisce il naso e le dita dei soldati, che cadono senza rumore nella neve, sotto un cielo vuoto. Gli uomini marciano ma la marcia dell'inverno è più veloce di loro. I soldati più fortunati cadono di colpo morti sulle strade, in un rumore di fascine. Dei seicentomila uomini che ha trascinato fin là, il piccolo uomo invecchiato ne riporta intatto solo un quinto. E allorché, il 18 giugno 1815, si mette a piovere sulla pianura di Waterloo, Napoleone non ha ancora capito, non ha imparato niente a Mosca, accusa la fatalità. Ed è la fine: s'impantana e scaraventa ancora, per un'ultima volta, migliaia di uomini nel fango e nella morte. Il fragore delle battaglie si dissolve e l'odore dei cadaveri sale alle narici, in tutta l'Europa. Per tutti i quaccheri è íl momento di agire, hanno atteso quel momento pregando, raccogliendo fondi tramite collette. Non appena vengono ristabiliti i collegamenti civili tra l'Inghilterra e il continente, Luke Howard è uno di coloro che si precipitano al di là della Manica, per soccorrere i propri fratelli martirizzati dalla guerra.

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Nel corso dell'estate 2005, le storie di Akira Kumo diventano sempre più brevi, sempre più sconclusionate. Le storie sono anche sempre più tristi, ma non è colpa sua: confusamente, per aiutare l'ascoltatrice a capire meglio, si è adattato a seguire più o meno un ordine cronologico; ormai si avvicina al ventesimo secolo. È un secolo peggiore degli altri? O ci appare così perché è il più recente? A Virginie Latour sembra che tutto si stia oscurando. Ma Akira Kumo non se ne accorge; manifesta anzi una sorta di esultanza nervosa, tesa, nel raccontare gli aneddoti più sconcertanti. Tutto ciò è assurdo. Ogni notte gli incubi lo lasciano ansante, stremato e in un bagno di sudore. Sono sempre gli stessi: è immerso in un'acqua nera, arriva a galla ma non può respirare, la superficie è anch'essa un'acqua nera, e lui affiora solo per accorgersi che l'acqua nera è là proprio per soffocarlo, e così di seguito per tante ore, o almeno gli sembra, ma forse, in base all'orologio impazzito del nostro cervello, si tratta di un decimo di secondo; oppure sogna di udire rumori in casa, sa che alcuni uomini vengono per ucciderlo eppure non può svegliarsi, entrano e, per quanto balzi fuori del letto e corra lontano dalla sua stanza, lo agguantano e con calma lo sgozzano. Spesso si sveglia in piedi in un salotto o in un corridoio, inebetito, umiliato ed esausto.

Il matematico Lewis Fry Richardson, comincia Akira Kumo spolverando un classificatore che Virginie gli ha passato, ha trentatré anni quando viene nominato sovrintendente dell'Osservatorio di Eskdalemuir, nel nord della Scozia; è quacchero da sempre. In tutta la sua vita non ha mai pensato seriamente alle nuvole. Eppure è imparentato alla lontana, da parte di madre, con Luke Howard, ma non lo sa. Richardson ha accettato quel posto pensando che il clima sarebbe stato propizio alla moglie che ama. Si chiama Stella. Siamo nel 1911. Quell'anno, Stella ha il settimo aborto spontaneo. Nel 1911 non si sa cosa sia un gruppo sanguigno. Quelli di Stella e di Lewis non sono compatibili; ogni sera Lewis Fry Richardson prega il suo dio; Stella ha smesso di credere dopo il quinto aborto, ma lo nasconde all'uomo che ama, per non affliggerlo. L'Osservatorio di Eskdalemuir si erge in una landa desolata. In tutto il Regno Unito è il posto con la maggiore pluviometria, mese per mese e nel conto totale. A volte Lewis Fry Richardson pensa che Dio li abbia abbandonati laggiù; poi si riprende. In quanto matematico, si appassiona alle equazioni differenziali. Il tempo passa, gli anni come un giorno. Nel 1914, l'estate non è mai stata così bella in tutta l'Europa; al punto che talvolta addirittura non piove per parecchi giorni su Eskdalemuir. Molto lontano, a sud-est dell'Osservatorio, scoppia una guerra in Europa, come al solito. Lewis è un fervente quacchero e un leale suddito dell'impero britannico. Si prepara a essere inviato al fronte e a rifiutare di portare un'arma, ma non gli chiedono il suo parere. L'Osservatorio, come tutti i servizi pubblici considerati strategici, passa sotto l'autorità militare. Un colonnello cortese e discreto s'insedia nell'ufficio attiguo a quello del sovrintendente. Scienziato di alto livello, Lewis Fry Richardson è giudicato troppo prezioso dalla Corona: non andrà a morire nel fango delle trincee. Ringrazia Dio di averlo collocato in capo al mondo, al servizio pacifico del suo paese. La sua ingenuità è simpatica, ma sconcertante. Egli cerca infatti un mezzo per rendersi utile alla pace mentre milioni di uomini in Europa cominciano a marcire, i vivi insieme ai morti, nelle trincee dalla Marna alla Somme. Per domare le equazioni differenziali, ha preso l'abitudine di fare lunghe escursioni attraverso la landa desolata di Eskdalemuir, sotto un cielo tormentato. Lewis pensa di aver trovato la sua via: assegnerà un compito titanico alle sue equazioni predilette: tentare di descrivere grazie a loro il comportamento dell'atmosfera terrestre. Riuscirà quasi a farlo.

Come spesso accade, l'invenzione si presenta in modo obliquo: nessun matematico ragionevole avrebbe immaginato di confrontare la relativa semplicità delle equazioni differenziali con la tremenda complicazione dei fenomeni climatici, e Richardson non più di un altro; ma la soluzione che farà entrare la meteorologia nella sua fase propriamente scientifica è di una banalità sbalorditiva, una volta che la conosciamo. Richardson immagina semplicemente di frazionare i calcoli complessi, che sarebbero supposti dalla previsione numerica del tempo, in una serie di calcoli elementari. È il primo a vedere il problema in tal modo, e proprio questo è il nocciolo dell'invenzione scientifica, di ogni invenzione: si tratta di vedere, poi di far vedere agli altri. Lewis Fry Richardson è il primo a vedere la Terra come una sfera quadrettata: divide la superficie del suolo terrestre in cubi con il lato di duecento chilometri, il che significa tremiladuecento cubi; ma soltanto duemila di quei cubi, pensa, richiedono calcoli, dal momento che il tempo attorno ai tropici è a suo giudizio molto prevedibile. Ora bisogna attribuire a ogni cubo abbastanza calcolatori affinché il meteorologo possa avere a disposizione un anticipo significativo, un anticipo di ventiquattr'ore, per esempio, sul tempo. Lewis Fry Richardson ritiene che ci vogliano trentadue calcolatori; basterebbe perciò riunire sessantaquattro persone formate al calcolo rapido e il progetto Organon potrebbe vedere la luce. Costruiremo, spiega Lewis a Stella che continua a non essere incinta, mentre passeggiano sotto la pioggia, un edificio la cui parete interna sarà sferica; su quella parete, la carta geografica del mondo: al soffitto il Polo Nord, sul pavimento l'Antartide; su una torre centrale, di fronte al loro cubo di calcolo raffigurato sulla parete dell'edificio, gruppi di calcolatori. E in poche ore, il vicedirettore potrà posare sulla scrivania del direttore, in una semisfera interamente a vetri collocata sul tetto dell'Organon, il primo bollettino di previsione numerica del tempo. Dall'Organon partiranno mille dispacci, dapprima ai quattro angoli dell'Inghilterra, poi in tutta l'Europa, in tutto il mondo. Dispacci che salveranno vite annunciando inondazioni, tempeste, geli improvvisi, bruschi aumenti di temperatura.

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Nel frattempo, una lettera di Akira Kumo aspetta Virginie al suo albergo. Per parlare della mia infanzia, scrive Akira Kumo rivolto a Virginie Latour, si può cominciare da quando ho sei o sette anni. La fine della seconda guerra mondiale si avvicina un po' ovunque. La fine della seconda guerra mondiale si svolge tra l'altro in una miriade d'isole che copre l'Oceano Pacifico, è ciò che si chiama per l'appunto la battaglia del Pacifico; i momenti finali delle guerre sono ancora peggiori, si dice che non finirà mai, si dice che ogni giorno trascorso avrebbe potuto essere il primo della pace. La battaglia del Pacifico è una di quelle battaglie terribili che finiranno sempre troppo tardi, anche per i vincitori. Le perdite umane sono considerevoli. Infatti gli americani devono assicurarsi il controllo di ogni isola, e ogni isola è un incubo identico al precedente. Devono sbarcare prima dell'alba su una spiaggia delimitata da una giungla, che l'aviazione e l'artiglieria navale hanno crivellato per tutta la notte, ma che tuttavia rimane impenetrabile, opaca, ostinata in una resistenza inumana; devono attraversare la spiaggia correndo, verso la giungla da dove nemici invisibili in perpetuo movimento sparano con precisione, una cartuccia alla volta, contro le sagome che si stagliano sulla sabbia. Anche se le spiagge sono poco estese, è come in Normandia, solo che là accade ogni giorno, c'è tutto un arcipelago di piccoli sbarchi di Normandia, quotidiani e tremendamente micidiali, in tutta un'infinità di terre che in sé non servono a niente, che spesso non sono neppure abitate o abitabili in tempi normali, ma che gli imperativi della strategia hanno trasformato in possessi preziosi, vitali. Quando le truppe riescono a ripararsi dietro i primi alberi, non c'è più nessuno: i giapponesi si sono ritirati verso l'interno dell'isola. Allora ricomincia il cannoneggiamento, alla cieca; dalla spiaggia tuonano i mortai, mentre gli obici venuti dal mare sibilano ed esplodono là davanti, a distanza; gli Stati Uniti d'America avanzano, è del resto la loro caratteristica fondamentale, avanzano, finiscono sempre col riuscirci, gli americani cadono come piccoli insetti neri, un po' dappertutto, in Germania e qui, ma gli Stati Uniti d'America avanzano sempre.

È una guerra inedita nella storia del mondo, gli americani contro i giapponesi, neanche a Pearl Harbour si erano visti così da vicino. A riflettervi c'è qualcosa di pazzesco in quello scontro tra paesi non contigui, qualcosa di snaturato. Ma quella fine di guerra non somiglia alle altre. Per esempio, in apparenza, i giapponesi hanno ripiegato come avrebbe fatto qualsiasi altro esercito, in qualsiasi conflitto, in caso d'inferiorità quantitativa e qualitativa. Ma i giapponesi non ripiegano, o almeno non ripiegano più, con l'idea di raggrupparsi, di riunire le loro forze per lanciare un contrattacco; e non ripiegano nemmeno per salvare la pelle. Hanno perduto di vista, ormai da tempo, l'idea stessa di uno scopo di quella lotta. I giapponesi sanno sin dall'inizio che perderanno; che hanno perso. Allora ripiegano per perdere il più a lungo possibile, un po' più in là, per attirare nella morte un po' più di quei soldati ben nutriti, venuti da così lontano: vogliono che il numero delle vittime sia tale che, dopo la battaglia, i vincitori si sentiranno anch'essi vinti, distrutti.

I giapponesi del Pacifico non cercano di salvare la vita; pensano che il loro paese scomparirà: chi dunque vorrebbe sopravvivere a tale evento? E se non è possibile impedire la vittoria dell'avversario, c'è ancora qualcosa da fare, ossia privarlo dei vinti. Perché tra tutte le civiltà, quella degli Stati Uniti d'America ha la particolarità di avere bisogno dei vinti. Ha bisogno di quei giapponesi disperati, ha bisogno di tedeschi e d'italiani coperti di pidocchi e martirizzati, ha bisogno di francesi e di belgi coperti di vergogna, ha bisogno di loro come un figlio affettuoso e demente sogna che i suoi genitori siano rimbecilliti per poterli nutrire, aiutarli a ricostruire, prestargli soldi, vendergli cose e comprarne da loro. In quello stesso momento, tutto va per il meglio, a tal proposito, nella vecchia Europa; gli affari ricominciano. E ben presto, nelle grandi isole che formano il Giappone, tutto andrà per il meglio per le autorità di occupazione. Ma per adesso là, nella guerra del Pacifico, l'orrore non finisce mai, la morte si ostina. Certi feriti giapponesi hanno fissato una granata senza sicura sotto il loro corpo, affinché esploda quando i soldati americani verranno a frugarli. Lo stato maggiore americano dà istruzioni di non toccare più nessun corpo nemico. Sul terreno ci si fa il callo in fretta e, tenendosi a distanza, si dà il colpo di grazia a tutti i feriti. Per ragioni analoghe, ci si abitua ad abbattere tutti quelli che si arrendono. Nelle rare isole che ospitano ancora una popolazione civile, donne giapponesi saltano dall'alto di piccole scogliere, con i figlioletti in braccio, e si sfracellano senza un grido, con un rumore di straccio bagnato, sordo, intollerabile, che nessun testimone dimenticherà mai.

Intanto l'esercito degli Stati Uniti d'America, in ogni arcipelago, finisce ovunque e sempre con l'accerchiare gli ultimi resistenti: talvolta è contro un fianco boscoso di montagna, talaltra è in una valle che le carte non hanno segnalato. Ma s'imbattono ancora in un ultimo ostacolo: i giapponesi, previdenti, hanno allestito dei rifugi. È difficile conquistarli, perché i paraggi sono minati, perché tutte le gallerie che vi portano sono a gomito e ogni svolta è pagata a caro prezzo. Nel migliore dei casi, l'unità combattente dispone di uno specialista dotato di lanciafiamme. Ma si può fare avvicinare quello specialista a una posizione solo quando essa è resa sicura, il che può richiedere giorni. È completamente escluso che quello specialista rischi la vita: certo, l'uso del lanciafiamme non è molto complicato, e un principiante attento può imparare a servirsene in un'ora. Ma sono rari gli uomini capaci di avvicinarsi a meno di cinque metri a quelli che stanno per uccidere, capaci di vedere le loro facce e il loro spavento e tuttavia premere sull'impugnatura che libera quel calore infernale. Uomini simili sono preziosi, e nella guerra del Pacifico tutte le unità ne vogliono uno.

Alla fine del luglio 1945, lo Stato Maggiore americano fa i suoi calcoli: milleduecento soldati americani muoiono ogni giorno negli isolotti del Pacifico. È nettamente più del previsto. È al di là del sopportabile per l'opinione pubblica americana. Tanto più che il fronte europeo è quasi pacificato. La percentuale di feriti è ancora più preoccupante, militarmente parlando: non è mai stata così alta in un'operazione del genere condotta dall'esercito americano: ora, sono proprio i feriti, e non i morti, a terrorizzare uno stato maggiore. Perché i feriti sono tremendamente più ingombranti. Un morto mobilita due vivi, per un'ora o due, sia che lo seppelliscano sia che lo trasportino nelle retrovie. Un ferito, direttamente o indirettamente, immobilizza cinque soldati, oltretutto per un tempo indeterminato e per un esito incerto. Alla fine del luglio 1945, tutte le autorità americane coinvolte esprimono la stessa opinione: la guerra del Pacifico deve finire adesso.


A migliaia di chilometri dal Giappone, in una base militare del Nuovo Messico, l'esercito americano è pronto: dà l'ultimo tocco al progetto Manhattan.

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