|
|
| << | < | > | >> |IndiceIX Prefazione 1 1. Due secoli di migrazioni preunitarie 1 Quale cronologia e quale geografia? 5 I protagonisti 10 Le migrazioni circolari 16 Italiani senza Italia 21 2. La grande migrazione 21 Il quadro europeo e la grande migrazione 22 L'Italia al tempo della grande migrazione 31 Il quadro regionale 38 Le istituzioni dell'emigrazione 43 Catene migratorie, reti sociali e famiglie transnazionali 49 3. Le destinazioni della grande emigrazione 49 Le migrazioni continentali 55 I paesi del Mediterraneo 62 L'America Latina 67 Gli Stati Uniti 71 Migrazioni e identità nazionale 79 4. Tra le due guerre 79 Il controllo dell'emigrazione 83 Diversi modelli di integrazione 89 Gli Stati Uniti 97 Il fascismo e gli italiani all'estero 107 5. Le migrazioni politiche 107 La fuga dal fascismo 110 La lotta contro il fascismo 116 La fuga del fascismo 119 Esuli e profughi 125 6. Le migrazioni della seconda metà del Novecento 125 Il nuovo quadro internazionale e le istituzioni 127 Le nuove migrazioni transoceaniche 136 Le strade dell'Europa 145 Le migrazioni interne 153 7. L'Italia nel quadro della mobilità internazionale contemporanea 153 Dalla scoperta dell'etnicità alla scoperta dell'emigrazione italiana 157 Il voto degli italiani all'estero 159 Acquisizioni di cittadinanza e "migrazioni di ritorno" 166 L'immigrazione in Italia 170 Le mobilità nella seconda globalizzazione 175 Bibliografia 205 Cronologia 207 Sitografia 209 Filmografia italiana sull'emigrazione 211 Indice dei nomi |
| << | < | > | >> |Pagina 11. Due secoli di migrazioni preunitarieQuale cronologia e quale geografia? Quando è iniziata l'emigrazione italiana? A ogni risposta che si riesce a dare è possibile sempre replicare con un «nel..., ma già prima». La storia dell'emigrazione italiana si dispiega su un periodo molto lungo: sicuramente si può affermare che sia iniziata in età antecedente alla "grande migrazione" di fine Ottocento e anche all'unificazione politica del paese. Per ricostruire i percorsi e i protagonisti delle migrazioni della nostra penisola occorre risalire in molti casi alla mobilità mercantile e artigianale, ma anche a quella girovaga dell'Età moderna e anche medievale. Non è facile di conseguenza stabilire una data di inizio, dato che già nel XIV secolo, oltre ai vivaci scambi di lavoro e mercantili all'interno della penisola, la presenza di commercianti e artigiani originari di alcune città italiane era frequente tanto nel Mediterraneo che in Europa settentrionale, e la mancanza di un momento di trapasso preciso dai movimenti di Ancien régime a quelli dell'Età contemporanea fa risaltare gli aspetti di continuità. Per rimediare a tale incertezza cronologica si adottano comunemente scansioni temporali che, pur tenendo conto dei contesti politici ed economici nei quali si sono collocati i fenomeni migratori, considerano che le cesure, gli aspetti di continuità, e le innovazioni nei confronti della mobilità della popolazione, sono il risultato di processi solo in parte e non sempre direttamente riconducibili alle storie politiche nazionali. La prima cesura ormai comunemente accettata si colloca nel corso del Cinquecento. In primo luogo, essa avvenne a causa delle importanti modifiche che il secolo registrò nella dislocazione dei principali assi economici in Europa e nella formazione di nuovi centri di produzione e di commercio conseguenti al declino economico italiano. In secondo luogo, essa si verificò come conseguenza della formazione degli stati nazionali in Europa e degli stati regionali in Italia; e, infine, per gli effetti della rottura dell'unità religiosa. La seconda cesura si determinò nell'ultimo decennio del Settecento: si tratta di un importante momento di svolta non solo per l'assetto politico dell'intera Europa, ma anche per gli aspetti economici e sociali. A questi anni, infatti, viene fatto risalire l'inizio di quei fenomeni di disgregazione sociale ed economica delle campagne italiane e di espansione del pauperismo rurale che, nei decenni successivi all'Unità, avrebbero dato luogo a un progressivo incremento dei fenomeni migratori fino all'esplosione delle partenze dei primi due decenni del Novecento. Il momento dell'unificazione politica del paese scandisce una data significativa anche per i movimenti migratori: innanzi tutto per i suoi effetti sui confini, quindi per quelli più generali di unificazione del mercato e di trasformazione della rete dei trasporti e di adozione di politiche migratorie. Da quel momento l'emigrazione iniziò anche a essere registrata, attraverso il controllo nell'emissione dei passaporti e attraverso i censimenti, che si iniziarono a tenere a scadenza decennale, entrando a far parte dei fenomeni di competenza del nuovo stato. Nella storia dell'Italia unita si distinguono normalmente tre momenti principali: quello che va dall'età liberale fino alla prima guerra mondiale, che coincise anche largamente con la "grande migrazione", quello fra le due guerre e un'ultima fase, dalla seconda metà del Novecento fino alla metà degli anni settanta, quando il ciclo plurisecolare dell'esodo dalla penisola cedette il passo a una prevalenza degli arrivi sulle partenze. In tale ripartizione, la principale cesura temporale coincide con l'età dei conflitti mondiali, quando, dal 1915 al 1945, molti stati adottarono politiche di regolamentazione, non solo per effetto delle guerre, passando da un regime liberista a uno di controllo delle migrazioni sia in uscita sia in entrata, ma anche per la volontà di controllo totalitario dello stato fascista. Nel trentennio successivo alla fine della seconda guerra mondiale il paese ha assistito infine all'ultima significativa fase delle partenze per l'estero e all'epocale spostamento di popolazione all'interno del territorio italiano, fino a che, alla metà degli anni settanta, si concluse il periodo più intenso delle partenze dall'Italia ma non la storia delle comunità italiane all'estero, vicenda che appartiene anche al presente. Anche la geografia degli spostamenti deve subire un analogo processo di dilatazione, da un lato per la necessità di prendere in considerazione movimenti anche interni al territorio peninsulare – che solo a mètà dell'Ottocento divenne un unico stato –, dall'altro per tentare di inseguire almeno le più significative fra le innumerevoli destinazioni attivate al di qua e al di là delle Alpi e del mare. È ormai diffuso al riguardo il consenso sulla necessità di tenere conto non solo dei movimenti migratori di cosiddetto "lungo raggio", esterni alla penisola italiana o transoceanici, ma anche di quelli interni, a causa delle secolare frammentazione politica e territoriale dell'Italia. Le stesse città italiane costituirono infatti, soprattutto a partire dal Rinascimento, dei potentissimi magneti di attrazione: la costruzione della Firenze rinascimentale e l'edificazione della capitale del Regno della Chiesa furono il risultato del lavoro di artisti e artigiani richiamati da tutto il paese, ma in particolare da alcune aree delle Alpi piemontesi e lombarde, i cui abitanti si erano specializzati nei lavori dell'edilizia. Al proposito non va dimenticato che molti spostamenti in alcune epoche registrati come episodi di mobilità interna divennero successivamente emigrazione all'estero. È il caso, per esempio, delle migrazioni stagionali dei contadini e dei montanari piemontesi verso le località dell'entroterra di Nizza, parte del Regno di Sardegna fino al 1859 ma divenute francesi dopo quella data. Anche nell'austriaco Vorarlberg le migrazioni delle operaie agricole stagionali in partenza dal Trentino, le cosiddette ciode, vennero registrate fino alla prima guerra mondiale come spostamenti interni fra due territori dell'Impero austro-ungarico. Né va dimenticato che quanti, in partenza dalla Lombardia o dal Piemonte, si dirigevano a lavorare a Firenze, nel Regno delle Due Sicilie o a Roma attraversavano molte frontiere e furono emigranti all'estero nel primo caso fino al 1859, nel secondo fino al 1860, nel terzo fino al 1870. La distinzione fra migrazione interne ed estere subì quindi numerosi mutamenti nel corso del tempo e solo per gli anni successivi alla completa unificazione politica del paese può essere assunta nel significato corrente, per subire tuttavia ancora nuove implicazioni nella seconda metà del Novecento, durante il processo di edificazione dell'integrazione europea. Quanto agli aspetti di continuità, essi sono ben presenti tanto nella lunga tradizione di circolazione di popolazioni straniere nella parte sia insulare sia peninsulare, quanto nella persistente compresenza di micromobilità e mobilità migratorie di più lungo raggio. La rete degli spostamenti a lunga distanza, che ha affiancato la mobilità locale, può essere fatta risalire all'Età moderna e anche medievale. Fu allora che ragioni legate alle possibilità di guadagno, di valorizzazione delle competenze professionali e di mestiere, fecero passare in second'ordine la lunghezza dei trasferimenti. Poiché le partenze si sono configurate come un investimento programmato, risultato di strategie familiari condivise, esse sono anche state sorrette dall'ambiente sociale della comunità di origine, da cui si sono creati percorsi consuetudinari che talvolta per secoli hanno collegato i luoghi di partenza a quelli di arrivo. A queste indispensabili precisazioni sugli ambiti cronologici e sugli aspetti geografici va aggiunto un ulteriore dato di partenza: la secolare presenza, fuori dei confini della penisola, di comunità di lingua italiana, sedimentate talvolta fin dall'Età medievale e dell'espansione artistica rinascimentale. Alle "colonie" genovesi e veneziane distribuite nelle principali città greche e dell'Asia Minore, ma anche in altre parti dell'Impero d'Oriente, costituite da mercanti, artigiani e banchieri, facevano riscontro gli insediamenti, anch'essi mercantili, che a Londra e a Parigi davano rispettivamente il nome a Lombard Street e a Rue de Lombards. Le prime erano eredi di antiche comunità genovesi e veneziane che risalgono talvolta fino all'epoca delle crociate e all'esistenza di quartieri o anche solo di strade che i mercanti delle due repubbliche marinare avevano ottenuto come feudi nei principali centri commerciali dell'Impero ottomano. I più noti di tali gruppi sono quelli nell'Egeo, a Salonicco, a Chio, a Creta e, in Asia Minore, a Costantinopoli e a Smirne, per i quali già a fine Ottocento si distingueva fra un nucleo immigrato di recente e quello "indigeno o storico", discendente dagli insediamenti genovesi e veneziani dell'epoca delle repubbliche marinare. Questi erano definiti come "italolevantini" e – oltre che nel Levante propriamente detto – si potevano rintracciare in Siria, in Palestina e in Egitto, fino all'estremo del Marocco. L'importante comunità genovese e veneziana, che risiedeva dal XIV secolo a Istanbul nel quartiere di Galata, sarebbe stata ben riconoscibile agli occhi dei visitatori ancora alla fine del Seicento. Nell'Ottocento essa si sarebbe arricchita di nuovi apporti dalla penisola, soprattutto di esuli politici, ma anche di artigiani e tecnici dell'industria edilizia e cantieristica. Al loro arrivo fece seguito il consueto corredo di attività commerciali e alberghiere, nonché di un certo numero di professionisti che mostra la vitalità e la composita stratificazione sociale di una "colonia" che si arricchì precocemente di istituzioni tese a riaffermare la fisionomia nazionale. Già dall'inizio dell'Ottocento operava un ospedale italiano, fondato dalla stessa casa Savoia, come riferiva un viaggiatore francese nel 1834; nel 1863 veniva inaugurata una scuola italiana, fra le prime del nuovo regno, cui ne sarebbero seguite altre sette e un giardino d'infanzia. Quello stesso anno nasceva anche una Società di mutuo soccorso che sarebbe divenuta il simbolo della comunità e nel 1888 veniva istituita una Società di beneficenza. A questi gruppi andava sommato il contingente degli ebrei sefarditi giunti da Livorno nel Settecento, i francos, spesso sotto la protezione dei consoli francesi. Anch'essi però si aggiungevano a insediamenti più antichi, risalenti a quanti, dopo la cacciata dalla Spagna, si erano serviti dei privilegi concessi da Venezia e da Livorno per aprire commerci con gli empori dell'Impero ottomano. Inoltre, già nei primi decenni dopo la scoperta del Nuovo Mondo, erano registrati, fra i primi europei colà giunti, viaggiatori originari dei possedimenti spagnoli in Italia: da Milano e da Napoli, ma anche da Genova, dal Piemonte e dalla Sicilia. | << | < | > | >> |Pagina 212. La grande migrazioneIl quadro europeo e la grande migrazione Nel corso dell'Ottocento l'emigrazione transoceanica si affermò come prima meta migratoria di molti europei. L'esodo di massa fu reso possibile dalla rivoluzione dei trasporti. La navigazione a vapore, introdotta nel 1860, andò a sostituire quella a vela: dai 44 giorni di viaggio si passò a 14, con la conseguente riduzione del costo delle traversate. Gli Stati Uniti accolsero il 70% di queste migrazioni, l'Argentina il 10%; seguivano Australia, Canada e Brasile con un 5%. È stato stimato che tra il 1820 e il 1924 circa 55 milioni di europei siano emigrati negli Stati Uniti. Le migrazioni europee verso gli Stati Uniti ebbero un andamento ondulatorio: nei primi tre decenni dell'Ottocento si assestarono sulle 50 000 persone; ebbero un'impennata quando, con la fine della guerra civile nel 1865, venne varato lo Homestead Act, che incentivava l'insediamento nei territori dell'Ovest lungo la linea della frontiera. Cominciava così il sogno americano di avere la terra praticamente a titolo gratuito. Sogno destinato a durare poco: già negli anni ottanta la frontiera raggiunse il Pacifico e non vi furono più terre libere nel Nuovo Mondo. Fecero a tempo a usufruire di questa possibilità i primi gruppi di emigrati europei: inglesi, tedeschi, scandinavi. Gli italiani che arrivarono nei decenni successivi dopo il 1880 risultarono quindi esclusi dalla spartizione della terra. Dalla Gran Bretagna partì, fino alla prima guerra mondiale, il maggior numero di emigranti, con l'Irlanda che vide, a causa della carestia del 1845, un quinto della propria popolazione lasciare il paese alla volta dell'America.
L'esodo, iniziato dai paesi nord-europei, ai primi del Novecento era
per due terzi composto da popolazioni provenienti dall'Europa meridionale e
orientale. Quella che fu definita nuova immigrazione era costituita
da una varietà di popolazioni provenienti dal bacino del Mediterraneo e
dell'Europa orientale: greci vittime dell'espansione turca, armeni cattolici,
ebrei russi in fuga dai primi pogrom, sudditi dell'Impero austro-ungarico e
italiani. Questa nuova emigrazione non partecipò quindi alla colonizzazione
del paese, ma si distribuì prevalentemente nelle città industriali della costa
orientale degli Stati Uniti.
L'Italia al tempo della grande migrazione La società italiana preunitaria, sia nella sua componente urbana sia in quella rurale, non era una società immobile. Nei decenni successivi all'unificazione, tuttavia, i movimenti migratori non solo si intensificarono progressivamente, ma, coinvolgendo nuovi protagonisti e aprendo anche per questi ultimi nuove rotte come quelle transoceaniche, condussero a quella che si è potuta definire come una riscoperta dell'America. Assumendo spesso il carattere di esodo definitivo, anche se non programmato fin dall'inizio, le partenze divennero inoltre sempre più visibili e tali da costituire, agli occhi degli osservatori contemporanei, un fenomeno epocale che venne percepito e descritto come "grande migrazione". Questa trasformazione avvenne, inoltre, sotto lo sguardo attento del nuovo stato, che fin dal suo secondo decennio di vita si dotò di strumenti per registrare e controllare i movimenti di popolazione, distinguendoli inizialmente in migrazioni temporanee e permanenti e, in una fase successiva, in migrazioni europee e transoceaniche. Le mete del grande esodo toccarono in eguale misura i paesi europei e quelli transoceanici (tabelle 2.1 e 2.2). | << | < | > | >> |Pagina 166L'immigrazione in ItaliaNegli anni in cui il saldo migratorio italiano invertiva la tendenza (nel 1973 i rimpatri superarono per la prima volta gli espatri) iniziarono ad arrivare in Italia i primi immigrati. Durante gli anni settanta e fino all'inizio degli anni ottanta furono quattro i più importanti flussi migratori: tunisini che si recarono in Sicilia dove trovarono lavoro come braccianti nei settori della pesca e dell'agricoltura; le prime donne immigrate filippine, eritree, capoverdiane, somale e latinoamericane che andarono a fare le domestiche, specie nel Centronord; manovali edili iugoslavi. In ultimo vi fu un flusso di rifugiati politici e di studenti provenienti da altri paesi europei, come la Grecia, o asiatici e africani. Nel 1996 i permessi di soggiorno rilasciati a cittadini stranieri per la prima volta superarono il milione (1095622), suddivisi tra comunitari (13,9%) ed extracomunitari (86,1%). Nel 2007 la quota di immigrati sulla popolazione italiana raggiunge il 5%, con un rapido incremento negli ultimi tre anni, mentre in molti paesi europei si attesta fra il 7 e quasi il 10%. Il caso svizzero è quello che colpisce di più, con il 21,4% della popolazione di origine immigrata e la città di Ginevra che raggiunge il 30%. Per l'Italia si è parlato di arcipelago migratorio poiché l'arco delle nazionalità presenti nel paese è straordinariamente ampio: al primo posto si collocano le seguenti nazionalità: Albania (375947), Marocco (343228), Romania (342200), seguite da Cina, Ucraina, Filippine, Tunisia, ma sono circa 130 le nazionalità segnalate (tabelle 7.3 e 7.4). A distanza di un anno le cifre sono ulteriormente cresciute. Si stima che la popolazione straniera oggi si aggiri sui 4 milioni, di cui circa 600000 irregolari, anche se è difficile tracciare un linea netta tra regolari e irregolari, poiché spesso l'irregolarità ha costituito una tappa per passare alla regolarità. L'inserimento nel mercato del lavoro è avvenuto attraverso reti etniche che ricordano le vecchie catene migratorie di mestiere. Esaminando i principali settori di impiego, la maggioranza degli immigrati (60,9%) lavora nei servizi, in genere nella fascia bassa: servizi alla persona, costruzioni, commercio, trasporti, alberghi e ristoranti, ma anche informatica e servizi alle imprese; il 35,2% è occupato nell'industria; il 3,9% nell'agricoltura e nella pesca. Le donne immigrate lavorano prevalentemente come collaboratrici familiari e badanti. Anche nelle migrazioni dell'epoca globale le seconde generazioni (2G) vengono considerate uno snodo cruciale per la questione dell'integrazione degli immigrati nelle società di insediamento. In Italia i bambini 2G si apprestano a superare il milione se si considerano anche i figli di coppie miste. Recentemente, la definizione sociologica per definire le seconde generazioni è stata raffinata dal sociologo Ruben G. Rumbaut: all'interno della categoria 2G si hanno le generazioni frazionali, 1,75, 1,5, 1,25, che stanno a indicare quelle composte dai minori stranieri giunti in Italia rispettivamente tra 0 e 5 anni, tra 6 e 12 anni, e tra 13 e 17 alle quali vanno aggiunti i figli di coppie miste. Questa distinzione è ritenuta utile quando si ha a che fare con immigrazioni recenti, come nel caso italiano, in cui le seconde generazioni sono molto giovani. Si tratta di una popolazione in rapidissima crescita: nel 1992 i nati in Italia sono stati 6000, 51000 nel 2005 e soltanto nel 2006 40000 minorenni si sono ricongiunti con i propri genitori. La sociologa Laura Zanfrini, constatando il difficile inserimento degli immigrati nel mondo del lavoro, denuncia a questo proposito i rischi della trasmissione intergenerazionale degli svantaggi sociali, tramandata di padre in figlio: i figli non si sentono più ospiti ma cittadini e le loro aspettative per il futuro sono migliori e più ambiziose rispetto a quelle dei genitori che spesso si accontentavano di un lavoro degradante o subalterno. Troppo spesso però queste legittime ambizioni si scontrano con una discriminazione nel mondo del lavoro che si manifesta nel reclutamento, nelle condizioni di lavoro e nei percorsi di carriera, la downward assimilation dei sociologi statunitensi, indicando in questo una delle sfide che la società italiana si troverà presto a dover affrontare. Come avviene in ogni contesto migratorio, anche in Italia le prime generazioni si differenziano dalle seconde nell'approccio alla cultura di appartenenza. Mentre i genitori tendono a mantenere la cultura d'origine, i giovani tendono a sviluppare una certa autonomia, rispetto sia alle famiglie, sia alla società che li accoglie. Il desiderio di assimilazione alle società di insediamento, presente secondo la teoria di Hansen nelle seconde generazioni della grande emigrazione, in particolare nell'America del Nord, non sembra funzionare in epoca di seconda globalizzazione. Le opportunità fornite dall'Information and Communication Technology (ICT), dai viaggi low cost, dalla TV satellitare e da Internet consentono di mantenere contatti continui con il proprio paese d'origine. Come sostiene Robin Cohen, uno dei principali studiosi dei fenomeni delle diaspore, «in epoca di globalizzazione i moderni mezzi di trasporto, comunicazione e di trasmissione culturale fanno sì che il mantenimento di lingua [...] legami familiari e rapporti commerciali e politici tra comunità sparse in paesi diversi sia facile come non è mai stato». Se da una parte questo può far diminuire i contrasti all'interno delle famiglie immigrate, dall'altra può costituire un ostacolo all'integrazione. Un'eccezione può però essere costituita dalle donne di seconda generazione provenienti da paesi in cui i diritti delle donne, così come si sono andati affermando nelle società occidentali, non sono riconosciuti. In questo caso, come per le nostre emigrate di un secolo fa, l'esperienza migratoria può costituire un primo passo verso lo sviluppo di quei valori individuali indispensabili per la conquista dei propri diritti. Probabilmente, la sfida che le società di immigrazione si trovano ad affrontare oggi è costituita dalla capacità di mediazione tra il rispetto delle culture diverse e l'affermazione dei valori universali.
Un'altra questione, più a breve termine, riguarda la partecipazione degli
immigrati in Italia ai diritti di cittadinanza politica, sociale e civile, secondo
la classica teoria di Thomas Humphrey Marshall. L'esigenza di garantire il
diritto di voto a chi risiede e paga le tasse nel nostro paese da anni, e la
necessità di facilitare i processi di naturalizzazione per i figli dei migranti,
nati e cresciuti nella penisola, sono oggetto di un ampio dibattito. Le
posizioni vanno dalle proposte di riduzione del periodo di residenza di dieci
anni previsto dalla legge, alla possibilità, per gli immigrati con permesso di
domicilio, di partecipare alle elezioni amministrative.
|