Copertina
Autore Marc Augé
Titolo Diario di guerra
EdizioneBollati Boringhieri, Torino, 2002, Variantine , pag. 104, dim. 115x177x9 mm , Isbn 978-88-339-1411-4
OriginaleJournal de guerre
EdizioneGalilée, Paris, 2002
TraduttoreMatteo Schianchi
LettoreAngela Razzini, 2002
Classe politica
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Indice


   Diario di guerra

 9 Qualche giorno dopo l'11 settembre 2001
11 L'avvenimento e le parole
19 Domenica, 30 settembre 2001
23 La storia comincia
31 Domenica, 7 ottobre 2001
35 Il tempo che passa e non passa
43 Lunedì, 22 ottobre 2001
45 L'interno e l'esterno
57 La religione
67 Sabato, 22 dicembre 2001
71 La posta in gioco

   Postfazione all'edizione italiana

77 Verso uno spazio pubblico planetario?
   L'Europa senza progetto, 78
   Nonluogo e spazio pubblico, 83
   Sedentarietà e circolazione, 90
   Dalla violenza all'utopia, 96

 

 

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Pagina 15

Le inchieste attualmente in corso (scrivo queste righe il 29 settembre 2001) cercano di stabilire l'identità dei diretti responsabili (i kamikaze), di ricostruire le reti di complicità, i gruppi o gli individui che hanno finanziato l'operazione terroristica, e di mettere le mani su Bin Laden, considerato dalle autorità americane come il grande istigatore. È a questo punto che la distinzione tra attentato e guerra assume tutta la sua importanza. L'attentato appartiene a quella categoria di avvenimenti per spiegare i quali basta individuare le cause e gli autori, attenuandone in tal modo l'impatto. Ma quando l'avvenimento assume dimensioni smisurate, impressionanti per l'ampiezza materiale o la portata simbolica, la spiegazione a monte, in termini di cause, non basta più a ridurlo: è necessario scendere a valle e non vedervi più un esito, un risultato, una conseguenza, ma un inizio, una origine. Diventa a sua volta una causa.

«Abbiamo perso una battaglia, ma non abbiamo perso la guerra», dichiarò il generale De Gaulle nel giugno 1940. È più o meno quel che ha detto Bush. Manhattan e il World Trade Center, come Dunkerque o Pearl Harbor, devono inaugurare un nuovo periodo, devono essere considerati come origine e non come fine per restare pensabili.

Quando l'effetto diventa causa, l'avvenimento cambia di natura. Da oggetto di spiegazione diventa esso stesso fonte di senso. Nel momento in cui scrivo non si sa ancora che cosa produrranno e giustificheranno il crollo delle torri gemelle, l'incendio del Pentagono e le migliaia di morti del dramma americano. Tuttavia è certo che il passaggio da effetto a causa è già avvenuto. Ormai più nessuno, tranne un manipolo di desperados, osa chiedere agli Stati Uniti prove giuridicamente valide della colpevolezza di Bin Laden. Il nemico designato non è già più semplicemente il gruppo, le reti responsabili della tragedia, ma è il terrorismo internazionale in generale, insieme agli Stati che lo sostengono e lo alimentano. Il riferimento agli Stati è importante, poiché può annunciare operazioni di guerra nel senso classico del termine, ma la cosa più importante, l'essenziale, è l'annuncio di una lunga fase, di una guerra dalle molteplici poste in gioco destinata a durare. La drammaticità della situazione porta i dirigenti della regione interessata a cercare di salvare il salvabile giocando sull'opposizione locale-globale: il terrorismo è legittimo in un caso (gli hezbollah in Palestina), criminale nell'altro. Apparentemente questa distinzione è calzante, poiché la soluzione della questione palestinese rafforzerebbe la posizione americana. A meno che i guerrafondai non vincano definitivamente e che si facciano i conti anche con gli hezbollah, attraverso Sharon.

Dunque la guerra che è stata proclamata, se non dichiarata, evita di affrontareciò che sarebbe stata la cosa più ricca di insegnamenti: la ricerca delle cause non solo immediate e contingenti ma anche contestuali e lontane dell'avvenimento. C'era forse qualcosa di simpatico, ma soprattutto di patetico, nell'immagine di Jacques Chirac che fissava esterrefatto George Bush junior quando questi parlava di guerra. Di certo Chirac aveva in mente tutti i luoghi comuni del politicamente corretto: l'islamismo non è l'islam, il terrorismo non è l'islamismo, non siamo di fronte a uno scontro di civiltà. Ma proprio di questo si trattava! La macchina da guerra americana, messa in moto come dopo Pearl Harbor, avrebbe servito ggli interessi americani in una regione in cui non sempre coincidono con quelli dell'Europa. La diplomazia americana avrebbe separato i buoni e i cattivi, non in virtù di qualche principio filosofico o etico, ma in funzione degli interessi americani (si può essere solo pro o contro gli Stati Uniti). Gli Stati Uniti hanno già dimostrato di poter passare in un batter d'occhio dall'isolazionismo più ostinato all'interventismo più deciso. Ci si faceva gioco dell'apatia di Bush e del ritiro americano dagli affari del mondo. Le ranocchie volevano un re che non fosse un travicello. Eccolo.

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Pagina 29

Se prendiamo il pianeta come sistema di riferimento, bisogna ammettere che fino a oggi la storia umana è stata solo preistoria. La storia del pianeta come scenario totale e posta in gioco degli scontri e delle iniziative degli uomini comincia oggi. Se la colonizzazione può essere definita come la prima tappa della mondializzazione, dobbiamo dire che la decolonizzazione ne è stata la seconda e decisiva tappa, e nello stesso tempo sarà stata l'ultima sequenza della preistoria. E cominciamo seriamente a considerare la possibilità di colonizzare lo spazio extraplanetario.

Siamo nel XXI secolo: comincia la storia incerta del pianeta. E se la storia del pianeta comincia negli Stati Uniti non è un caso. Ci ha fatto sorridere il fatto che nei film di fantascienza e avveniristici realizzati a Hollywood, gli extraterrestri, buoni o cattivi, si rivolgessero solo agli Stati Uniti o al Pentagono, con intenzioni pacifiche o per attaccarli. Naturalmente si può ammettere che abbiano capito, com'è avvenuto sulla Terra, che gli Stati Uniti erano la prima potenza del mondo e che, com'è avvenuto sulla terra, abbiano di conseguenza pensato di collaborare con loro o di provocarli. Ma gli Stati Uniti non solo sono la prima potenza del mondo, sono il mondo. Sono il mondo nel senso in cui ricapitolano il mondo. Cittadini o aspiranti cittadini di ogni origine vi si mescolano o vivono l'uno accanto all'altro. L'ideologia comunitarista accentua il sentimento di pluralità che sottende l'unità americana; anche la povertà e gli aspetti sottosviluppati di alcuni settori esprimono questa identificazione degli Stati Uniti con il mondo.

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Pagina 45

L'interno e l'esterno


Nel suo libro del 1998, La Bombe informatique, Paul Virilio ha magistralmente reso conto del modo in cui le questioni geopolitiche hanno cambiato dimensione. Di questo cambiamento ci propone una descrizione impressionante che, secondo lui, corrisponde a partire dagli anni novanta all'analisi fatta dal Pentagono. Alla luce dell'avvenimento è dunque lecito chiedersi se dagli anni novanta il Pentagono si è mostrato tanto lucido quanto Virilio o, in caso affermativo, se ha saputo trarre tutte le conseguenze della sua analisi. Il cambiamento in questione è infatti semplice e fondamentale. Il globale (quel globale di cui si tratta quando si parla di globalizzazione) è l'interno di un mondo finito, finito e definito dall'esistenza di diverse reti di circolazione, informazione, comunicazione. Il locale è l'esterno del globale, sono le periferie, i grandi sobborghi, tutto ciò che può essere localizzato con precisione qua o là, tutto ciò che è in situ. Questa opposizione tra locale esterno e globale interno spiega tutti i paradossi apparenti della vita sociale e politica contemporanea. Virilio ci ricorda una dichiarazione di Clinton che li riassume: «Per la prima volta non c'è più differenza tra la politica interna e la politica estera».

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Pagina 80

L'11 settembre ha promosso il tema della sicurezza al primo posto tra le preoccupazioni politiche in Europa. Non è certo indifferente il fatto che molti francesi musulmani siano stati implicati nell'attentato o identificati come membri della rete Al Qaeda. La svolta a destra dell'Europa e l'irrigidimento delle politiche d'immigrazione non sono nate l'11 settembre, ma entrambe hanno trovato in questo avvenimento una giustificazione e un fattore di accelerazione. I segni di indifferenza o di rifiuto si moltiplicano.

A nove mesi dall'11 settembre continuo ad avere sempre più la sensazione che l'Europa stia perdendo la propria anima e, più ancora, la possibilità di esistere come entità originale nel mondo planetario. L'Europa ha la fortuna, come già gli Stati Uniti (che continuano a profittarne), di potersi aprire alle migrazioni. Tuttavia lo fa con sofferenza e riluttanza, come se rifiutasse di vedere che nel mondo di domani, accanto a paesi-continenti come la Russia, l'India e soprattutto la Cina la cui crescita accelerata può far cambiare ben presto la faccia il mondo, sarà la diversità del popolamento - ciò che si potrebbe chiamare la ricchezza demografica - condizione di esistenza e di prosperità. In senso inverso ma complementare, l'Europa avrebbe la possibilità di svolgere un ruolo particolare nel mondo sottosviluppato lottando contro il bipolarismo del sistema e prendendo alla lettera gli ideali che proclamava quando era colonizzatrice. Ma, incapace di realizzare una visione mondiale della posta in gioco, si rifugia nella gelosa protezione dei propri interessi a breve termine, in particolare nel settore dell'agricoltura. Nessun capo di Stato europeo si è scomodato per assistere all'ultimo incontro della FAO. Nessuna nuova forma di aiuto è stata proposta. Nessuna riforma è stata avviata. In compenso, al vertice europeo di Siviglia, alla fine di giugno, interamente dedicato alla lotta contro l'immigrazione clandestina, Aznar, sostenuto da Berlusconi e Blair, ha proposto misure di ritorsione contro i paesi di origine degli immigrati. L'Europa si associa alla politica generale che in Africa autorizza la fuga di cervelli, blocca il dinamismo rurale e cancella il futuro. Contribuisce alla riproduzione delle sciagure su cui piange e di tanto in tanto sparge il balsamo della sua compassione.

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