Copertina
Autore Marc Augé
Titolo Che fine ha fatto il futuro?
Sottotitolodai nonluoghi ai nontempo
EdizioneEleuthera, Milano, 2009, , pag. 112, cop.fle., dim. 12,5x19x0,8 cm , Isbn 978-88-8949-073-0
OriginaleOù est passé l'avenir? [2008]
TraduttoreGuido Lagomarsino
LettoreLuca Vita, 2010
Classe antropologia , storia , globalizzazione , media , scienze sociali , scienze umane , teoria dell'arte , teoria letteraria
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Indice


INTRODUZIONE
Il paradosso del tempo                                           7

CAPITOLO PRIMO
Le culture dell'immanenza                                       15

CAPITOLO SECONDO
Cambiamento di scala, stato delle questioni e stato dei luoghi  25

CAPITOLO TERZO
Globalizzazione, urbanizzazione, comunicazione, istantaneità    33

CAPITOLO QUARTO
Contemporaneità e coscienza storica                             45

CAPITOLO QUINTO
Alienazione, modernità, democrazia, progresso                   61

CAPITOLO SESTO
Il passato, la memoria, l'esilio                                73

CAPITOLO SETTIMO
L'avvenire e l'utopia                                           81

CAPITOLO OTTAVO
Il mondo di domani, l'individuo, la scienza, l'istruzione       95

CONCLUSIONE
Per un'utopia dell'educazione                                  105


 

 

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Pagina 7

INTRODUZIONE
Il paradosso del tempo



Il primo paradosso del tempo è inerente alla consapevolezza che ognuno ha di vivere in un tempo che precedeva la sua nascita e che continuerà dopo la sua morte. Questa consapevolezza individuale del finito e dell'infinito vale simultaneamente per il singolo e per la società. Infatti l'individuo che si trasforma, cresce e poi invecchia, prima di scomparire un giorno o l'altro, assiste in quel mentre alla nascita e alla crescita degli uni e all'invecchiamento e alla morte degli altri. Invecchia in un mondo che cambia, se non altro perché gli individui che ne fanno parte invecchiano anche loro e vedono generazioni più giovani prendere progressivamente il loro posto.

Ci sono spiegazioni di tipo intellettuale per questo primo paradosso: sono tutte le teorie che, in un modo o nell'altro, inscenano il ritorno del medesimo. Nella maggioranza delle società studiate dall'etnologia tradizionale esistono rappresentazioni dell'eredità molto elaborate che tendono a ritenere la morte degli individui non una fine in sé quanto l'occasione per ridistribuire e riciclare gli elementi che li compongono. Le teorie della metempsicosi sono solo un tipo particolare di tali rappresentazioni. In Africa, per esempio, l'idea del ritorno degli elementi liberati dalla morte non è associata a quella del ritorno degli individui in quanto tali, anche se, nelle grandi chefferies o nei regni, la logica dinastica spinge in quella direzione. Altre istituzioni, come le classi di età, o taluni fenomeni religiosi ritualizzati, come la possessione, rientrano in quella visione immanente del mondo che tende a relativizzare l'opposizione tra vita e morte in virtù di un'intuizione non lontana dal principio scientifico secondo il quale nulla si crea e nulla si distrugge, ma tutto si trasforma.

Il secondo paradosso del tempo è quasi l'inverso del primo e riguarda la difficoltà per uomini mortali, e quindi tributari del tempo e delle idee di inizio e fine, di pensare il mondo senza immaginarsene una nascita e senza assegnargli un termine. Le cosmogonie e le apocalissi, in varie modalità, sono una soluzione immaginaria per rispondere a questa difficoltà.

Il terzo paradosso del tempo rimanda al suo contenuto o, se vogliamo, alla storia. È il paradosso dell'evento, del fatto sempre atteso e sempre temuto. Per un verso sono gli eventi che rendono sensibile il passaggio del tempo e che servono anche a datarlo, a ordinarlo secondo una prospettiva diversa dal semplice ripresentarsi delle stagioni. Ma per un altro verso l'evento comporta il rischio di una rottura, di una lacerazione irreversibile con il passato, di un'intrusione irrimediabile del nuovo nelle sue forme più pericolose. Per un lungo periodo della storia umana le catastrofi ecologiche, meteorologiche, epidemiologiche, politiche o militari avevano il potere di minacciare l'esistenza stessa del gruppo, e lo sviluppo delle società non ha fatto svanire la consapevolezza di rischi del genere: li ha solo collocati su una scala diversa. Il controllo intellettuale e simbolico dell'evento è sempre stato al centro delle attenzioni dei gruppi umani. Lo è ancora oggi; cambiano solo le parole e le soluzioni. È anzi possibile che il paradosso dell'evento sia al suo culmine: mentre la storia accelera sotto la spinta di eventi di ogni genere, noi pretendiamo di negarne l'esistenza, come nelle epoche più arcaiche, per esempio celebrandone la fine.

È proprio con la configurazione, la delimitazione o l'esplicitazione di questi tre paradossi che si sono misurati, nei contesti storici più vari, tutti i tentativi di simbolizzazione del mondo e delle società. Se, come afferma Claude Lévi-Strauss nella sua Introduzione all'opera di Marcel Mauss, la comparsa del linguaggio ha comportato ipso facto la necessità di rendere il mondo significante, è ben evidente che la categoria del tempo, più ancora di quella dello spazio, ha fornito una materia prima ideale per quell'operazione, perché è la più sperimentabile, la più immediatamente percepibile e, in questo senso, la meno arbitraria dei dati simbolici. La padronanza del calendario è stata una delle forme più efficaci di controllo religioso e/o politico esercitato sulle società, perché il tempo, dato immediato della coscienza, appare simultaneamente una delle componenti essenziali della natura e uno strumento privilegiato per capirla e governarla. I poteri religiosi e politici si sono sempre serviti del tempo per dare alla cultura l'apparenza di un fatto naturale. Tutte le rivoluzioni hanno dovuto fare i conti con la necessità di ridefinire l'impiego del tempo e di rifondare il calendario per cercare di cambiare la società.

Resta il fatto che non avrebbe senso dissociare una riflessione sul tempo da una sullo spazio. Tutti i sistemi simbolici che si possono osservare nel mondo attestano invece il legame sempre intuitivamente avvertito tra queste «forme a priori della sensibilità», come le definisce Kant. Le culture dell'immanenza individuano, segnalano e ordinano gli spazi di socialità con estrema minuzia, sia per distinguerli dagli spazi non umani, sia per tracciare le linee di partizione che ordinano il gruppo sociale stesso (norme di residenza, sistemi di divisione, spazio pubblico e spazio privato, spazio sacro e spazio profano...). Queste suddivisioni sono intimamente correlate alle rappresentazioni del tempo sociale. Alcune di queste si manifestano solo in occasione di riti stagionali. La residenza cambia con le varie età della vita (ingresso nell'età adulta, matrimonio...). Si potrebbe così parlare di uno spazio-tempo sociale il cui grado più o meno forte di coesione corrisponde alle diverse modalità organizzative.

[...]

Sono dunque il nostro passato più recente, la nostra storia più vicina (quella misurabile sulla durata di un'esistenza individuale), che ci diventano enigmatici. Dal 1989, dopo la caduta del muro di Berlino, comincia una nuova storia che fatichiamo a capire, perché procede troppo in fretta e riguarda direttamente e immediatamente tutto il pianeta.

Dal punto di vista intellettuale, questo cambiamento di scala ci prende alla sprovvista. Siamo ancora nella fase di critica dei vecchi concetti e delle visioni del mondo che li sottendevano. A questi si sostituiscono da un lato una visione pessimista, nichilista e apocalittica, secondo la quale non c'è più niente da capire, e dall'altro una visione trionfalista ed evangelica per la quale tutto è compiuto o sta per esserlo. In entrambi i casi, il passato non è più portatore di alcuna lezione e dall'avvenire non c'è più niente da aspettarsi. Tra queste due visioni estreme, c'è posto per un'ideologia del presente caratteristica di quella che per convenzione è definita società dei consumi. Sotto la marea di immagini e di messaggi, sotto l'effetto di tecnologie della comunicazione istantanea e della mercificazione di tutti i beni materiali e culturali, sembra che agli individui resti solo la scelta tra un consumismo conformista e passivo, anche quando le possibilità di consumo sono ridotte, e un rifiuto radicale al quale solo le espressioni religiose esasperate sembrano in grado di fornire un'apparente armatura teorica. Sullo stesso piano ideologico, vediamo inoltre formarsi connubi sostanziali tra ideologia religiosa e ideologia consumista, più in particolare nel caso dell'evangelismo di origine nordamericana. Per il resto, le nuove forme di esclusione, delle quali la globalizzazione è nello stesso tempo il contesto generale e uno dei principali fattori, generano, attraverso diverse mediazioni come quella del fondamentalismo religioso, atteggiamenti di rigetto o di fuga che hanno senso solo in rapporto all'ordine dominante. Quest'ultimo provoca insieme odio e seduzione. La contestazione, la rivolta o la protesta sembrano così prigioniere di quegli stessi schemi di pensiero ai quali si oppongono, sia a livello della vita politica sia sul piano intellettuale e artistico.

Ogni impero ha avuto la pretesa di fermare la storia, tanto che è possibile sostenere che altre globalizzazioni abbiano preceduto l'attuale. L'unica differenza, che però è di dimensioni, sta nel fatto che la globalizzazione presente è coestesa al pianeta come corpo fisico. Ogni giorno di più prendiamo coscienza di occupare «un angolo dell'universo», come diceva Pascal. In questo universo le categorie di tempo e di spazio alle quali siamo assuefatti non funzionano più, e qualcosa di quella vertigine provocata dalle esplorazioni dell'astrofisica può avere delle ricadute sulla nostra percezione della storia umana.

Tutto contribuisce dunque a mettere in discussione le categorie tradizionali dell'analisi e della riflessione, che pure ci hanno permesso di capire come funziona l'ideologia e, in particolare, di individuarne una caratteristica essenziale: la sua capacità di sottrarsi in parte alla coscienza non solo di coloro che ne sono vittime, ma anche di chi la sfrutta per dominare gli altri. Può allora essere utile riprendere la categoria di tempo per interrogare nuovamente le false evidenze dell'attuale ideologia del presente. Queste evidenze assumono la forma di un triplice paradosso. Primo paradosso: la storia, intesa come fonte di nuove idee per la gestione delle società umane, sembra terminare proprio nel momento in cui riguarda esplicitamente l'umanità nel suo insieme. Secondo paradosso: noi dubitiamo della nostra capacità di influire sul nostro comune destino proprio nel momento in cui la scienza progredisce a una velocità sempre più accelerata. Terzo paradosso: la sovrabbondanza senza precedenti dei nostri mezzi sembra vietarci di riflettere sui fini, come se la timidezza politica dovesse essere lo scotto da pagare per l'ambizione scientifica e l'arroganza tecnologica.

Questi tre paradossi altro non sono che l'odierna forma storica dei tre paradossi del tempo citati all'inizio. In questo senso attengono tutti all'ideologia. Ogni sistema di organizzazione e di dominio del mondo – sia che quest'ultimo abbia limiti geografici più o meno estesi o che lo si voglia, come oggi, coesteso al pianeta – ha prodotto teorie dell'individuo, del mondo e dell'evento. Il sistema della globalizzazione non si sottrae a questa regola. L'ideologia che gli è sottesa, che lo anima e che gli consente di imporsi alle coscienze dei singoli, può essere analizzata in quanto tale, nonostante la complessità delle sue determinazioni e dei suoi effetti. Le riflessioni qui proposte, che si inseriscono nell'ottica di un'antropologia comparata delle rappresentazioni del tempo, vorrebbero dare un contributo a questa analisi.

Esse dunque prenderanno in successione come oggetto i concetti di immanenza (riguardo alle società o alle culture dell'immanenza), di sviluppo (a livello delle teorie e delle azioni di sviluppo), di globalizzazione (e, in correlazione, di comunicazione e urbanizzazione), di contemporaneità, di modernità, di memoria e, infine, di utopia, nel tentativo di rispondere alla domanda in apparenza ingenua che ossessiona ogni giorno di più i vari ambiti del fare e del pensare: che fine ha fatto il futuro?

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Pagina 25

CAPITOLO SECONDO
Cambiamento di scala,
stato delle questioni e stato dei luoghi



Sul mondo dei nostri riferimenti quotidiani, come sull'impero di Carlo V, non tramonta mai il sole e noi abbiamo il presentimento che, bene o male, la sorte degli uni non possa essere del tutto estranea a quella degli altri. Il mondo fatto di informazioni e immagini che ci sommerge conferma la nostra sensazione di vivere in una situazione (globale) «ad anello», dalla quale sono eventualmente eliminati gli scarti alla regola più inopportuni. La resistenza a questo stato di cose si è espressa di recente più volte negli incontri dei movimenti cosiddetti «no global» o «altermondialisti», movimenti piuttosto eterogenei che vanno prima di tutto considerati sintomi di una presa di coscienza planetaria. Una presa di coscienza, tuttavia, che rimane per il momento frammentaria e impotente: il nuovo spazio pubblico planetario non è ancora nato e, a conti fatti, quella che domina tra gli osservatori del mondo contemporaneo è una sorpresa affascinata davanti all'ampiezza di un improvviso cambiamento di scala e di scenario, del quale non hanno saputo né sanno ancora immaginare gli effetti e le conseguenze a lungo termine.

Noi viviamo, senza avere abbastanza coraggio per rendercene conto, in un periodo di transizione al termine del quale la Terra sarà solo un punto di riferimento e di partenza. L'esplorazione dello spazio è appena agli inizi, ma l'evoluzione politica e scientifica del pianeta è già ora profondamente orientata verso questa nuova prospettiva. La misura del tempo e dello spazio cambia dal momento in cui la Terra nel suo insieme diventa un punto di riferimento e di partenza, e cambia sulla Terra stessa: in molti ambiti il pianeta in quanto tale è diventato l'unità spaziale di riferimento; mentre il secolo, che potrebbe apparire un'unità storica risibile rispetto allo spazio-tempo all'interno del quale apprendiamo l'universo, rimarrà un riferimento troppo vasto per dare conto della storia a venire. La famosa accelerazione della storia non è altro che la storia dei cambiamenti di misura e di riferimento che ne hanno permesso il farsi: a posteriori, noi identifichiamo le epoche preistoriche solo in termini di ere e di età, essenzialmente sulla base delle innovazioni tecnologiche che vi hanno visto la luce; i tempi storici si misurano in millenni e poi in secoli. Per dare conto della lotta per l'egemonia tra cristianesimo e islam nell'Europa mediterranea, contiamo ancora per gruppi di secoli; tra la «riconquista» cristiana di Toledo e quella di Granada intercorrono quattrocento anni. Per dare invece conto dell'epoca moderna, il secolo diventa un periodo troppo esteso: tra l'inizio e la fine dei secoli XVII, XVIII e XIX l'ampiezza dei cambiamenti scientifici e politici è notevolissima, e anche se gli stili di pensiero e quelli estetici portano il segno di questo o di quel secolo, a costo di grandi approssimazioni, la pertinenza di una scansione storica a frazioni di cento anni pone diversi problemi.

[...]

La storia delle scienze, la storia delle idee e la storia dell'arte hanno tenuto sempre conto del contesto, ma il concetto di contesto può essere inteso in modi differenti e inoltre non ha lo stesso statuto quando si riferisce alle scienze «dure» o alle scienze umane.

Le scienze e le arti si sviluppano in ambiti particolari, in epoche particolari, e tutti sanno che non è possibile studiarle e comprenderle completamente se non alla luce di quel contesto generale. Ma si sviluppano anche in funzione di un contesto specifico a ognuna di esse, alla storia propria della disciplina. La distinzione classica nella storia delle scienze tra il punto di vista «esterno» e quello «interno» non è però assoluta ed è suscettibile di evoluzione. In ogni caso, quello che è in discussione è il rapporto tra lo stato delle questioni (il punto di vista «interno») e lo stato dei luoghi (il punto di vista «esterno»).

In tutte le discipline scientifiche e artistiche lo stato delle questioni è evolutivo: c'è un avanzamento delle conoscenze, visibilmente cumulativo nel caso delle scienze tanto è inesauribile la loro materia; più travagliato è il caso delle arti, nella misura in cui la materia stessa dell'opera (il suono, la luce) o le sue forme (la melodia, la figura, i colori) diventano l'oggetto e non più il mezzo della creazione e della ricerca artistica. Il che può dare spunto a riscoperte o a cedimenti al gusto del giorno che non hanno equivalenti nel mondo scientifico: la scoperta dell'«arte negra», a suo tempo, quella dei dipinti degli aborigeni, più di recente, appartengono a un tempo specificamente artistico.

Il caso delle scienze sociali si colloca a mezza via. Non si può negare che abbiano fatto progressi nel corso del XX secolo: la cartografia del sapere si è arricchita; sono state studiate le modalità di organizzazione sociale più diverse; si sono aperti campi nuovi e rivoluzionari (la psicoanalisi); nel caso della storia, i cambiamenti e i traumi che ha imposto, spesso tragicamente, agli individui e alle società hanno rappresentato una sorta di sperimentazione in vivo che è stata per queste discipline l'equivalente degli esperimenti scientifici. Gli etnologi, per esempio, hanno potuto studiare solo gruppi profondamente sconvolti dal contesto coloniale. Probabilmente, nel campo delle scienze sociali non è possibile, né auspicabile, distinguere nettamente lo stato delle questioni e lo stato dei luoghi.

Lo stato dei luoghi è il contesto generale (economico, politico) nel quale si originano atteggiamenti mentali e comportamenti. Nel linguaggio marxista degli anni Sessanta e Settanta, si parlava in questo senso di ideologia dominante.

[...]

In tutti i casi, è dell'evidenza che la ricerca deve diffidare. Lo stato delle questioni, in tutte le discipline della scienza, dell'arte o della gestione, può essere un fattore di immobilismo, di routine, di ripetizione, quando si esprime in modo apparentemente definitivo nelle formule che sanzionano la tirannia del presente; citiamo tra le più recenti quelle che hanno spopolato: la «fine della storia», la «globalizzazione», o magari la più classica e vetusta «legge del mercato», tutte formule che, presentate come invalicabili, rappresentano altrettanti interdetti a pensare.

Le espressioni dell'evidenza, trasmesse e amplificate dal sistema mondiale delle comunicazioni, spesso appartengono simultaneamente allo stato delle questioni e allo stato dei luoghi, e questa duplice porosità ha tutte le probabilità di aumentare in futuro. Ma è caratteristica della fase di transizione che vede il pianeta trasformarsi insensibilmente nel punto di partenza e di riferimento: una trasformazione che tocca insieme la storia generale e la storia delle scienze.

Questo cambiamento di scala può avere una conseguenza positiva, obbligando le scienze, la filosofia e le arti a scoprire e a esplorare i territori che hanno in comune. Il regno della cosmotecnologia presenta due facce: la prima è quella delle evidenze, luminosa e accecante; la seconda, la faccia nascosta, è quella sulla quale si può imparare a decifrare la necessità delle consonanze tra scienze, tecnologie e società. La ricerca scientifica fa scoperte la cui applicazione in tutti i campi può trasformare la vita e perfino l'identità degli esseri umani. Le questioni che pone riguardano la società, non solo gli «esperti» o le anime belle ma tutti coloro che si preoccupano dell'avvenire sociale dell'umanità. Le commissioni etiche o gli altri organismi ad hoc esprimono a loro modo l'esigenza di questa nuova collaborazione. Ma ben oltre questa esigenza, la loro stessa comparsa rappresenta un fenomeno rilevante: la storia ha raggiunto la scienza.

La storia ha raggiunto la scienza o, per essere più precisi, la scienza è entrata nella storia.

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Pagina 38

[...] i media sono un'ottima cosa, purché chi vi fa ricorso non dimentichi che si tratta di mezzi e non di fini e che le immagini non sono la realtà.

Quest'ultima proposizione pone tuttavia numerose difficoltà. Prima di tutto i media, nella forma attuale, tendono a insinuarsi nell'intimità del corpo di chi li utilizza. Si vedono sempre più persone che sembrano dipendere quasi fisicamente dal cellulare, dal computer, dal mondo musicale che, con le cuffie alle orecchie, si portano in giro nel cuore delle città come in viaggio. Questo accostamento dei mezzi di comunicazione al corpo, che le persone acquisiscono progressivamente e finiscono per abitare, è proprio il fenomeno prefigurato dalla fantascienza (pensiamo all'uomo e alla donna «bionici» dei telefilm americani) e dalle favole del passato, in tutte le culture, che giocano con le capacità del corpo umano. E lo ritroviamo anche nelle innovazioni più recenti nel campo della sicurezza: oggi, in alcuni paesi, certi piccoli criminali o delinquenti colpevoli di reati sessuali sono lasciati in libertà apparente, ma obbligati a portare un braccialetto elettronico che ne segnala la presenza o l'identità. Sappiamo già che un individuo ricercato per un qualsiasi motivo può essere rintracciato o ritrovato grazie al suo cellulare. Non ci è possibile, ormai, dissociare l'immagine dei media dalla funzione che svolgono discretamente, mettendo sotto sorveglianza la vita pubblica e privata.

Un giorno forse l'essere umano sarà tanto dipendente dai mezzi di comunicazione, ai quali il suo corpo è sempre più letteralmente connesso, quanto lo è dal corpo stesso, il quale, come ben sappiamo, impone di malattia in malattia la propria legge all'essere che alla fine scompare con lui. L'uomo dipenderà dai nuovi mezzi di comunicazione e informazione allo stesso modo in cui oggi dipende dai propri occhiali o dall'apparecchio acustico. La miniaturizzazione dell'elettronica accentua questa tendenza, come pure la multifunzionalità degli apparecchi: con il nostro cellulare possiamo già fotografare e addirittura guardare la televisione. È difficile immaginare l'effetto di queste nuove contiguità, di questi innesti tecnologici, sulle generazioni a venire.

Infine, continua a porsi il problema di quello che i media diffondono e trasmettono. Abbondano gli esempi di manipolazione da parte dei poteri costituiti. Sappiamo che è possibile far dire alle immagini quello che si vuole. Ma la questione è ancora più complessa e la globalizzazione non semplifica le cose: non solo vediamo solo quello che ci vogliono mostrare, ma la forza delle immagini reiterate è tale da poterci indurre a considerare i messaggi che ci vengono imposti come la storia stessa, la pura e semplice realtà. Non ci sono più eventi al di fuori di quelli mediatizzati. L'espressione «evento mediatico» è un pleonasmo. Anche quando non siamo d'accordo con questo o quel commentatore, anche se abbiamo reazioni «personali» davanti ai fatti del mondo, noi crediamo di conoscerlo questo mondo e i suoi attori. Abbiamo una familiarità sempre più grande con lo stato del mondo, e l'evidenza delle immagini ci fa dimenticare che in realtà non abbiamo visto niente, che sappiamo poco e lo sappiamo male. Alla stessa stregua, crediamo di conoscere le persone che ci governano perché ne riconosciamo l'immagine. L'effetto perverso dei media, indipendentemente dalla qualità e dalle intenzioni di chi li dirige, sta nel fatto che ci insegnano a riconoscere, ovvero a credere di conoscere e non a conoscere o ad apprendere.

L'effetto perverso dei media consiste anche nel cancellare impercettibilmente la frontiera tra realtà e finzione. La televisione opera per lo più nel senso di questa cancellazione, perché crea un mondo artificiale con persone reali, il «mondo della televisione», nel quale si ritrovano indifferentemente, in una specie di Olimpo catodico, personalità politiche, stelle del varietà, attori, presentatori, campioni sportivi e altre celebrità. Nei telespettatori nasce pian piano la sensazione che apparire sullo schermo sia la prova ultima di un'esistenza riuscita. Vivere intensamente è a conti fatti esistere nello sguardo degli altri, diventare un'immagine, passare dall'altra parte dello schermo.

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Pagina 42

La grande architettura mondiale si inscrive nell'estetica contemporanea, un'estetica della distanza che tende a farci ignorare tutti gli effetti di rottura. Le foto prese dai satelliti, le vedute aeree, ci abituano a una visione globale delle cose. Vista da lontano e dall'alto, la miseria è bella e pittoresca. Le grandi torri di uffici o abitazioni educano la sguardo, come hanno fatto e continuano a fare il cinema e la televisione. Le auto che corrono sull'autostrada, il decollo degli aerei sulle piste degli aeroporti, i navigatori solitari che fanno il giro del mondo a vela sotto lo sguardo dei telespettatori, ci offrono un'immagine del mondo come ci piacerebbe che fosse. Ma questa immagine svanisce se la osserviamo troppo da vicino e se ci impegniamo, come ci invitava Michel de Certeau, a misurare a piedi la città, per riscoprirla nella sua intimità violenta, contrastata e contraddittoria.

Lo spettacolo del mondo globalizzato ci pone così davanti a una serie di contraddizioni che hanno tutta l'apparenza della falsità. Contraddizione tra l'esistenza proclamata di uno spazio planetario, aperto alla libera circolazione delle merci, delle persone e delle idee, e la realtà di un mondo nel quale i più forti proteggono i propri interessi e la propria produzione; nel quale i più poveri tentano, spesso invano e a costo della loro vita, di rifugiarsi nei paesi ricchi, che li accolgono con il contagocce; nel quale la guerra delle idee e delle ideologie trova un campo di azione nuovo nella rete internazionale delle comunicazioni. Contraddizione tra l'esistenza proclamata di uno spazio continuo e la realtà di un mondo discontinuo, nel quale proliferano i divieti di ogni genere. Contraddizione, infine, tra il mondo del sapere, che pretende di indicare la data di nascita dell'universo, di misurare in milioni di anni-luce la distanza dalle galassie più lontane, di datare con certezza la breve comparsa dell'uomo sulla Terra, e la realtà sociale e politica di un mondo nel quale tanti esseri umani si sentono insieme spossessati del proprio passato e privati del futuro.

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Pagina 48

a. Nelle rappresentazioni della globalizzazione economica e tecnologica è ovviamente all'opera il riferimento mondialista, ma lo è anche nella coscienza ecologica e sociale di chi guarda con preoccupazione al crescente divario tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri. Uniformazione e disuguaglianza procedono di pari passo.

b. La circolazione delle immagini e dei messaggi intorno al globo e da un punto all'altro del pianeta corrisponde a quella che abbiamo chiamato «cosmotecnologia». Parallelamente, vediamo estendersi su tutto il pianeta gli spazi del codice. Questi spazi della comunicazione, della circolazione e dei consumi – questi nonluoghi, per riprendere il termine già proposto nel 1992 – sono riservati a singoli utilizzatori e non implicano la creazione di relazioni sociali specifiche e durevoli. Mettono solo provvisoriamente in coabitazione individualità, passeggeri, passanti.

c. A questo sistema che suddivide lo spazio sulla Terra, senza però ricoprirla nella sua interezza, corrisponde una teoria della fine della storia formulata da Fukuyama, ma anticipata in un certo senso da Lyotard quando parlava della fine delle «grandi narrazioni». La fine della storia non è tanto la fine della storia evenemenziale quanto l'affermazione di un accordo, che si presume generale, sul carattere definitivo della formula che coniuga economia di mercato e democrazia rappresentativa. A sua volta, la fine delle grandi narrazioni si applicava alla supposta scomparsa sia dei miti originari particolaristi (le cosmogonie proprie di un gruppo) per effetto della modernità affermatasi dal XVIII secolo, sia dei miti escatologici universalisti, queste visioni del futuro dell'umanità, a causa dell'emergere della condizione postmoderna successiva alle disillusioni del XX secolo.


Il terzo paradosso, che è un'estensione del secondo, riguarda il fatto che la nuova ideologia del presente è quella di un mondo che, se per un istante si facesse astrazione dalle apparenti evidenze diffuse dal sistema politico e tecnologico esistente, ci apparirebbe per quello che è: un mondo in piena eruzione storica. La scienza non è mai progredita con tale rapidità. Nel giro di pochi anni l'idea di quello che possiamo fare dell'universo, ma anche dell'uomo, sarà completamente stravolta. D'altro canto, la storia non ci ha mai posto sfide di tale portata, ovvero quelle di una storia planetaria comune in corso di realizzazione. Infine, è probabile che stiamo vivendo, con l'urbanizzazione del mondo, un cambiamento pari, se dobbiamo credere a Hervé Le Bras, a quello che ha segnato il passaggio dal nomadismo all'agricoltura. E questo rende ancora più intollerabile l'idea che le tante diseguaglianze svuotino di ogni contenuto reale il tema della contemporaneità.

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Pagina 60

Non è qui il caso, evidentemente, di fare una selezione o una hit parade degli autori che meglio rappresenterebbero una volontà di resistenza o di rinnovamento, ovvero una capacità di annuncio. Basterà osservare che, nella letteratura attuale, si cerca ancora la forma, ed è magari nella sua forma breve, saggio o racconto, oppure in una sottile mescolanza dei due che si proporranno nuove pertinenze. Forse ben presto ritroveremo qualcosa dello spirito del XVIII secolo (forma breve, mescolanza dei generi, spirito critico). Se così fosse, gli autori più rappresentativi, più pertinenti e insieme più aperti al cambiamento potrebbero a mio avviso essere quelli che si renderanno conto del carattere dirompente della globalizzazione nella sua versione attuale, che rifiuteranno di gettare il bambino dell'universale con l'acqua sporca del globale, che saranno coscienti del fatto che il problema della libertà si pone all'interno di ogni cultura e non solo nelle relazioni tra culture, che sapranno che la storia non è finita, che non dimenticheranno che l'individuo è la misura di tutte le cose, e che cercheranno di inventare un discorso singolare capace di smentire, per il solo fatto di esistere, il carattere ineluttabile della legge del silenzio, dell'evidenza mediatica e della rassegnazione consumistica.

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Pagina 63

La prima constatazione riguarda il fatto che l'identità, individuale o collettiva, è sempre relativa all'altro, è relazionale. La letteratura etnologica, pur nella sua diversità, lo dimostra più che abbondantemente: l'identità è il prodotto di un'incessante negoziazione. D'altra parte, lo sappiamo tutti per esperienza diretta: cambiamo, ci evolviamo, certe volte ci arricchiamo e, in ogni caso, ci trasformiamo a contatto con gli altri. Di qui la preoccupazione comune a tutte le culture del mondo di inquadrare ritualmente, nella misura del possibile, le occasioni più esplicite di contatto reciproco. L'identità cristallizzata, stereotipata, è già solitudine e, per converso, meno sono solo, più esisto.

La seconda constatazione è che l'analisi delle logiche e dei meccanismi di «alienazione» è una cosa, mentre i processi che li strutturano sono un'altra cosa. Le culture vive sono culture in movimento, che accettano il cambiamento e il contatto. Come le lingue, modello di ogni organizzazione simbolica, cambiano se le si parlano e muoiono se non vengono più parlate, muoiono per non poter cambiare, così le culture, al pari degli individui, o si muovono o muoiono. Le culture vive sono insiemi in movimento, soggetti alle tensioni e alle pressioni della storia.

La terza constatazione è che nessuna cultura è egualitaria in sé: ognuna instaura gerarchie proprie. Il rispetto della differenza e della diversità è talora invocato da rappresentanti di «culture» che nel proprio seno non riconoscono tale diritto alla differenza e alla diversità. È con il metro di questo diritto che è legittimo misurare le culture. Non esiste un'impunità culturale. Nessuna cultura può giustificare il rifiuto dell'universalismo. Da questo punto di vista, il riferimento ultimo è la formula sartriana secondo la quale ogni uomo è tutto l'uomo.

La quarta constatazione è che il multiculturalismo, per superare la contraddizione tra cultura e universalismo, non dovrebbe definirsi come coesistenza di culture monadiche di cui si decreta la pari dignità, ma come la possibilità sempre offerta agli individui di attraversare universi culturali differenti.

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La cultura come natura, ecco indubbiamente il maggiore rischio concettuale (ma con conseguenze tragicamente concrete) cui siamo esposti oggi da parte tanto dei teorici dello «scontro tra culture» quanto degli illuminati fautori del proselitismo religioso. Contro le ideologie della cultura come natura, che si ispirano tutte, più o meno direttamente, a una visione teleologica della natura, può essere utile ricordare che l'uomo non può in alcun caso essere definito da una e solo una appartenenza «culturale». Quando diciamo «uomo», di chi parliamo? Di tre uomini, in realtà: dell'uomo singolo nella sua diversità (voi, io, miliardi di altri); dell'uomo culturale (che ha connivenze storiche, geografiche o sociali con un certo numero di altri); infine dell'uomo generico (quello che è andato sulla luna, quello che ci ha portati a essere ciò che siamo nel bene e nel male, quello la cui immagine sentiamo ferita quando si attenta alla dignità di un singolo essere umano). E sono questi tre che ne fanno uno: l'individuo concreto e mortale.

L'individuo esiste solo per l'insieme di relazioni che stabilisce con gli altri, insieme culturale in questo senso, collocato nella storia e in un luogo. Ma la sua storia può cambiare come può cambiare di luogo. Gli individui sono tanti e ognuno è «ondivago e diverso», come diceva Montaigne; la relazione di ognuno con la pluralità delle culture e con la diversità di ogni cultura può cambiare finché non muore. Ma resta uomo, dovunque sia e comunque sia. È uomo di diritto. I diritti dell'uomo sono l'uomo tutto intero e sono ogni uomo, ogni essere in diritto di costruire le proprie relazioni con gli altri e con la storia, di costruire la propria «essenza», nel senso esistenzialista del termine. I diritti dell'uomo, in questo senso, sono il diritto all'esistenza, alla libertà, alla scelta. Il riesame del concetto di cultura è indispensabile per eludere le trappole intellettuali di ogni genere alle quali serve da alibi. La riabilitazione dell'individuo/soggetto è indispensabile per condurre a buon fine questa impresa e per fondare antropologicamente la difesa dei diritti dell'uomo. E ci sono due tradizioni intellettuali tra loro antagoniste, ma che hanno talvolta saputo dialogare, ovvero lo strutturalismo e l'esistenzialismo, cui possiamo fare appello, in modo complementare, per aiutarci a capire come le culture siano artefatti storici necessari, ma anche come l'uomo generico sia insieme il limite di ogni egemonia culturale e l'orizzonte di ogni esistenza individuale.

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Il ritorno a quello sguardo critico che io attribuisco all'antropologia evidentemente non basta a cambiare il mondo. Ma può contribuire a dare la misura delle vere poste in gioco. Viviamo in un mondo nel quale, agli estremi, si formano crepe sempre più profonde, come quelle che si allargano tra i più ricchi dei ricchi e i più poveri dei poveri, o tra la somma delle conoscenze accumulate nei laboratori scientifici più attrezzati del pianeta e lo stato di ignoranza nel quale viene tenuta la maggioranza della popolazione mondiale, tanto nei paesi cosiddetti sottosviluppati quanto all'interno degli stessi paesi industriali.

Il problema è che oggi sul pianeta regna un'ideologia del presente e dell'evidenza che paralizza lo sforzo di pensare il presente come storia, un'ideologia impegnata a rendere obsoleti gli insegnamenti del passato, ma anche il desiderio di immaginare il futuro. Da uno o due decenni, il presente è diventato egemonico. Agli occhi del comune mortale, non deriva più dalla lenta maturazione del passato e non lascia più trasparire i lineamenti di possibili futuri, ma si impone come un fatto compiuto, schiacciante, il cui improvviso emergere offusca il passato e satura l'immaginazione del futuro.

Quella che abbiamo chiamato ideologia del presente si manifesta in diversi modi e qui ne abbiamo individuato l'esistenza sulla scorta di tre fenomeni concomitanti. Con il primo ritroviamo Lyotard e la fine delle grandi narrazioni basate sull'avvenire. Questa fine corrisponde alla perdita delle illusioni coltivate sul progresso umano, soprattutto dopo le atrocità e le esperienze totalitarie del XX secolo. Il momento postmoderno sarebbe pertanto quello in cui i miti moderni, i miti del futuro e i miti universalisti, che si erano sostituiti alle cosmogonie particolariste, scompaiono a loro volta. Una delle ragioni di questo fallimento è quella che Lyotard definisce dissidio, cioè la differenza di percezione tra chi inventa teoricamente un'ideologia universalista e liberatrice e chi ne subisce storicamente gli effetti. La Rivoluzione francese era un atto di liberazione universale o semplicemente l'espressione dell'espansionismo francese, che avrebbe trovato il suo autentico eroe nella figura di Napoleone? Probabilmente l'una e l'altra cosa, ed è da qui che cominciano le difficoltà.

Il tema della fine delle grandi narrazioni ne ha preceduto un altro, sviluppato da Fukuyama, che ha ottenuto una notevole attenzione: la fine della storia. Ma i due temi, come appare evidente, non vanno affatto confusi. Lyotard, quando parlava della fine delle due grandi tipologie mitologiche, ci invitava a riflettere sulle nuove modalità di relazione con lo spazio e con il tempo che definivano la condizione postmoderna. Con la fine della storia, siamo in tutt'altro contesto: è il tentativo di realizzare una nuova «grande narrazione». La fine della storia non è, evidentemente, il blocco degli eventi, ma la fine di un dibattito intellettuale: tutti quanti, ci dice in sostanza Fukuyama, sarebbero oggi d'accordo nel ritenere che la formula che coniuga il mercato liberista e la democrazia rappresentativa sia insuperabile. Derrida, nel suo libro Gli spettri di Marx, osserva a tal proposito che le formulazioni di Fukuyama non sono molto chiare e che permane un dubbio, a fine lettura, sul significato da dare al concetto di «fine della storia»: si tratta di un dato di fatto incontestabile o di un'ipotesi speculativa? Fukuyama presenta la «buona novella» (Derrida sottolinea quel linguaggio evangelico) dell'avvento della democrazia liberale ora come fatto empirico ora come ideale normatore: «L'avvenimento è sia la realizzazione sia l'annuncio della realizzazione». Ma questa stessa incertezza (o incoerenza) è tipica di un'atmosfera intellettuale in cui niente è più difficile da immaginare del futuro.

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CONCLUSIONE
Per un'utopia dell'educazione



La vera democrazia passa per una chiara definizione delle relazioni egualitarie tra tutti gli individui, tra tutti gli uni, chiunque siano, e tutti gli altri, chiunque siano. Oggi ne siamo ancora ben lontani. Ed è questa la ragione per la quale gli appelli alla violenza, quale che sia l'ideologia che li ispira, avranno sempre un'eco tra i più sprovveduti. Così non è vietato all'antropologo, che cerca di osservare ciò che è, suggerire ciò che potrebbe essere se fosse restituita una finalità al linguaggio politico e se si prendesse finalmente alla lettera l'ideale spesso proclamato dell'istruzione e della scienza per tutti. Bisogna pensare al plurale, certo senza dimenticare che non è l'individuo che è al servizio della cultura, ma sono le culture che stanno al servizio dell'individuo.

Come assicurare le condizioni di un'utopia dell'educazione progressista (che non rinunci a migliorare le sorti dell'umanità), progressiva (che passi attraverso riforme e adattamenti), ed esplicitamente finalizzata alla realizzazione dell'individuo? Sento già le obiezioni: «Un'utopia dell'educazione: bella idea, ma come realizzarla? Nei nostri bilanci le spese per la scuola sono già al primo posto. Che cosa volete di più?». Quello che vorremmo di più è proprio non dover sentire ancora questa obiezione. L'accusa di scarso realismo è una delle ganasce della tenaglia che oggi stritola immediatamente qualsiasi proposta radicale. Bollare come irrealistica ogni proposta di trasformazione radicale significa rifiutarsi a priori di prestare attenzione alle evidenze che la sostengono.

Nel caso in esame, l'evidenza è quella di una crescita dell'ignoranza all'inizio di questo secolo. Che l'ignoranza sia in aumento o, più precisamente, che lo scarto tra i saperi specialistici di chi sa e la cultura media di chi non sa continui a crescere: ecco che cosa non si deve dire, per non turbare i sonni di nessuno. Nel mondo ipocrita e bigotto in cui viviamo, nel quale le parole fanno più paura dei fatti, si dovrebbe quindi tacere il fatto grave, enorme e determinante per il futuro dell'umanità, che quanto più la scienza progredisce, tanto meno viene condivisa? E non basta constatare, come si sono impegnate a fare generazioni di etnografi, che svaniscono i saperi tradizionali (scompaiono soprattutto perché non hanno più ragione di esistere): bisogna aggiungere che la loro perdita non significa un accesso a nuovi saperi, ma l'esatto contrario. Lo stesso vale nel campo delle lingue. Certo possiamo deplorare la drammatica scomparsa della diversità linguistica, ma si deve aggiungere che essa non significa un concomitante accesso alla conoscenza delle lingue dominanti. Quello che deriva più spesso dalla scomparsa delle lingue è un rapporto mutilato con l'altra lingua, un'infermità linguistica fondamentale che è l'espressione più tragica del nesso tra perdita del passato e blocco dell'avvenire. Anche nel campo delle conoscenze lo scarto tra paesi sviluppati e paesi sottosviluppati continua ad allargarsi. Una parte maggioritaria del mondo non è in grado di capire alcunché di quanto è in gioco nella ricerca scientifica.

[...]

Se l'umanità fosse eroica, accetterebbe l'idea che la conoscenza è il suo fine ultimo. Se l'umanità fosse generosa, capirebbe che la condivisione dei beni è per lei la soluzione più economica ( Marcel Mauss , nel suo Saggio sul dono, aveva cominciato a esplorare questa ipotesi). Se l'umanità avesse coscienza di se stessa, non permetterebbe ai giochi di potere di oscurare l'ideale della conoscenza. Ma l'umanità in quanto tale non esiste, ci sono solo gli esseri umani, le società, i gruppi, le potenze... e gli individui. Il paradosso attuale vuole che la globalizzazione si realizzi proprio quando disuguaglianze e disparità stanno toccando un loro picco. I più oppressi degli oppressi hanno coscienza di far parte dello stesso mondo dei più ricchi e dei più potenti – e viceversa. In fondo, mai come oggi gli esseri umani si sono trovati in una situazione migliore per pensarsi come umanità. Mai, probabilmente, l'idea di uomo generico è stata tanto presente nelle coscienze individuali. Ma al contempo, mai le tensioni dovute alla disparità delle condizioni di potere e di ricchezza o alla pregnanza degli schemi culturali totalitari sono state tanto forti. In qualsiasi gruppo umano non difettano l'eroismo, la generosità, la consapevolezza. Ma queste qualità non sono isolate, si mescolano ai rapporti di forza, alle evidenze del presente, alle pigrizie e ai timori dell'immaginazione. Sono combinazioni che un'antropologia coerentemente critica deve esplorare nel concreto, nel dettaglio, per contribuire a porre la domanda dalla quale dipende il nostro futuro (il possessivo «nostro» si riferisce chiaramente alla nostra condizione comune, all'idea di uomo generico che dà senso e limite a quella di uomo individuale): l'utopia di un mondo senza dèi, senza paure e senza ingiustizie, un mondo abbastanza forte da assicurare il benessere a tutti e da dedicarsi interamente all'avventura della scienza, dispone ancora della capacità di mobilitare?

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