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| << | < | > | >> |IndicePrologo 7 I. Il vicino e l'altrove 13 II. Il luogo antropologico 43 III. Dai luoghi ai nonluoghi 71 Epilogo 107 Riferimenti bibliografici 111 |
| << | < | > | >> |Pagina 71Presenza del passato nel presente che lo supera e lo rivendica: è in questa conciliazione che Jean Starobinski scorge l'essenza della modernità. A questo proposito, in un articolo recente fa notare che, in arte, gli autori rappresentativi della modernità si sono dati «la possibilità di una polifonia in cui l'incrociarsi virtualmente infinito dei destini, degli atti, dei pensieri, delle reminiscenze poggia su un 'basso continuo' di fondo che ritma le ore del giorno terrestre e che segna il posto che occupava (che potrebbe ancora occupare) l'antico rituale». Egli cita le prime pagine dell' Ulisse di Joyce, in cui si ascoltano le parole della liturgia: Introibo ad altarem Dei; l'inizio di Alla ricerca del tempo perduto, dove il girotondo delle ore attorno al campanile di Combray ordina il ritmo «di una vasta e unica giornata borghese...»; ed anche l' Histoire di Claude Simon, in cui «i ricordi della scuola religiosa, la preghiera latina del mattino, il benedicite di mezzogiorno, l' angelus della sera segnano dei punti di riferimento fra le vedute, i piani frastagliati, le citazioni di tutti i tipi che provengono da tutti i tempi dell'esistenza, dell'immaginario e del passato storico e che proliferano in un apparente disordine, attorno ad un segreto centrale...». Queste «figure premoderne della temporalità continua, che lo scrittore moderno vuol mostrare di non avere dimenticato proprio nel momento in cui se ne affranca», sono anche figure spaziali specifiche di un mondo che, come Jacques Le Goff ha mostrato, a partire dal Medioevo era costruito attorno alla sua chiesa, al suo campanile, attraverso la conciliazione di un paesaggio accentrato e di un tempo riordinato. L'articolo di Starobinski si apre significativamente con una citazione di Baudelaire e dei suoi Tableaux parisiens, ove lo spettacolo della modernità riunisce in uno stesso slancio: ...l'atelier qui chante et qui bavarde; Les tuyaux, les clochers, ces màts de la cité, Et les grands ciels qui font réver d'éternité. «Basso continuo»; l'espressione utilizzata da Starobinski per evocare i luoghi e i ritmi antichi è significativa: la modernità non li cancella ma li pone sullo sfondo. Essi sono come degli indicatori del tempo che passa e che sopravvive. Perdurano come le parole che li esprimono e li esprimeranno ancora. La modernità in arte preserva tutte le temporalità del luogo così come queste si fissano nello spazio e nella parola. Dietro il girotondo delle ore e i punti salienti del paesaggio, si trovano parole e linguaggi: parole specializzate della liturgia, dell'«antico rituale», in contrasto con quelle dell'officina «che canta e chiacchiera»; parole anche di tutti coloro che, parlando lo stesso linguaggio, riconoscono di appartenere allo stesso mondo. Il luogo si compie con le parole, con lo scambio allusivo di qualche parola d'ordine, nella convivenza e nell'intimità complice dei locutori. Vincent Descombes scrive, a proposito della Françoise di Proust, che essa condivide e definisce un territorio «retorico» con tutti coloro che sono capaci di penetrare le sue ragioni, con tutti coloro i cui aforismi, il cui vocabolario e i cui tipi di argomentazione compongono una «cosmologia», ciò che il narratore della Ricerca chiama la «filosofia di Combray». Se un luogo può definirsi come identitario, relazionale, storico, uno spazio che non può definirsi né identitario né relazionale né storico, definirà un nonluogo. L'ipotesi che qui sosteniamo è che la surmodernità è produttrice di nonluoghi antropologici e che, contrariamente alla modernità baudeleriana, non integra in sé i luoghi antichi: questi, repertoriati, classificati e promossi «luoghi della memoria», vi occupano un posto circoscritto e specifico. Un mondo in cui si nasce in clinica e si muore in ospedale, in cui si moltiplicano, con modalità lussuose o inumane, i punti di transito e le occupazioni provvisorie (le catene alberghiere e le occupazioni abusive, i club di vacanze, i campi profughi, le bidonville destinate al crollo o ad una perennità putrefatta), in cui si sviluppa una fitta rete di mezzi di trasporto che sono anche spazi abitati, in cui grandi magazzini, distributori automatici e carte di credito riannodano i gesti di un commercio «muto», un mondo promesso alla individualità solitaria, al passaggio, al provvisorio e all'effimero, propone all'antropologo (ma anche a tutti gli altri) un oggetto nuovo del quale conviene misurare le dimensioni inedite prima di chiedersi di quale sguardo sia passibile. Aggiungiamo che la stessa cosa vale tanto per il nonluogo che per il luogo: esso non esiste mai sotto una forma pura; dei luoghi vi si ricompongono; delle relazioni vi si ricostituiscono; le «astuzie millenarie» dell'«invenzione del quotidiano» e delle «arti del fare», di cui Michel de Certeau ha proposto analisi così sottili, vi possono aprire un cammino e dispiegarvi le loro strategie. Il luogo e il nonluogo sono piuttosto delle polarità sfuggenti: il primo non è mai completamente cancellato e il secondo non si compie mai totalmente – palinsesti in cui si reiscrive incessantemente il gioco misto dell'identità e della relazione. Tuttavia, i nonluoghi rappresentano l'epoca; ne danno una misura quantificabile ricavata addizionando – con qualche conversione fra superficie, volume e distanza – le vie aeree, ferroviarie, autostradali e gli abitacoli mobili detti «mezzi di trasporto» (aerei, treni, auto), gli aeroporti, le stazioni ferroviarie e aerospaziali, le grandi catene alberghiere, le strutture per il tempo libero, i grandi spazi commerciali e, infine, la complessa matassa di reti cablate o senza fili che mobilitano lo spazio extraterrestre ai fini di una comunicazione così peculiare che spesso mette l'individuo in contatto solo con un'altra immagine di se stesso. | << | < | > | >> |Pagina 97Nella realtà concreta del mondo di oggi, i luoghi e gli spazi, i luoghi e i nonluoghi si incastrano, si compenetrano reciprocamente. La possibilità del nonluogo non è mai assente da un qualsiasi luogo; il ritorno al luogo è il rimedio cui ricorre il frequentatore di nonluoghi (che sogna, per esempio, una seconda casa radicata nel più profondo del territorio). Luoghi e nonluoghi si oppongono (o si evocano) come i termini e le nozioni che permettono di descriverli. Ma le parole di moda – quelle che non avevano diritto di esistenza una trentina di anni fa – sono quelle dei nonluoghi. Noi possiamo opporre le realtà del transito (i campi di transito o i passeggeri in transito) a quelle della residenza e della dimora; lo svincolo (dove non ci si incrocia) all' incrocio (dove ci si incontra); il passeggero (definito dalla sua destinazione) al viaggiatore (che s'attarda lungo il suo tragitto) – significativamente, coloro che sono ancora viaggiatori per le ferrovie ordinarie diventano passeggeri quando prendono un treno ad alta velocità –; l' ensemble (nuovo insediamento periurbano, ovvero: «gruppo di abitazioni nuove» secondo il dizionario Larousse), dove non si vive affatto insieme e che non si situa mai al centro di nulla (grands ensembles: simbolo delle zone periferiche), al monumento, dove si condivide e si commemora; la comunicazione (i suoi codici, le sue immagini, le sue strategie) alla lingua (che si parla).Qui la terminologia è essenziale poiché tesse la trama delle abitudini, educa lo sguardo, informa il paesaggio. Ritorniamo un istante alla definizione proposta da Vincent Descombes della nozione di «Paese retorico», a partire da una analisi della «filosofia», o piuttosto della «cosmologia», di Combray: «Dove il personaggio è chez soi, a casa sua, a suo agio? La questione non verte tanto su di un territorio geografico quanto su di un territorio retorico (prendendo il termine retorico nel senso classico, senso definito da atti retorici quali l'arringa, l'accusa, l'elogio, la censura, la raccomandazione, ecc.). Il personaggio è chez lui quando è a suo agio nella retorica delle persone di cui condivide l'esistenza. Il segno che si è chez soi è che si riesce a farsi comprendere senza troppi problemi e che allo stesso tempo si riesce ad entrare nelle ragioni degli interlocutori senza aver bisogno di lunghe spiegazioni. Il Paese retorico di un personaggio si ferma là dove i suoi interlocutori non comprendono più le ragioni che egli dà dei suoi fatti e dei suoi gesti, né dei risentimenti che nutre o delle ammirazioni che manifesta. Una difficoltà di comunicazione retorica segnala il passaggio di una frontiera, che beninteso va vista come una zona di frontiera, un dislivello, e non come una linea ben tracciata». Se Descombes ha ragione, se ne deve concludere che nel mondo della surmodernità si è sempre e non si è mai chez soi: le zone di frontiera o i «dislivelli» di cui egli parla non introducono mai a mondi totalmente estranei. La surmodernità (che risulta simultaneamente dalle tre figure dell'eccesso, ovvero la sovrabbondanza d'avvenimenti, la sovrabbondanza spaziale e l'individualizzazione dei riferimenti) trova naturalmente la sua espressione completa nei nonluoghi. Attraverso questi, tuttavia, transitano parole e immagini che mettono radice anche in quei luoghi ancora diversi in cui gli uomini tentano di costruire una parte della loro vita quotidiana. A sua volta, il nonluogo prende in prestito le sue parole dal territorio, come sulle autostrade dove le «aree di sosta» – il termine «area» è veramente il più neutro possibile, il più lontano da luogo e località – sono a volte designate in riferimento a qualche attributo particolare e misterioso del territorio: area del Gufo, area della Tana dei lupi, area della Conca della tormenta. Viviamo dunque in un mondo in cui ciò che gli etnologi chiamavano tradizionalmente «contatto culturale» è diventato un fenomeno generale. La prima difficoltà di un'etnologia del «qui» è che essa ha sempre a che fare con l'«altrove» senza che lo statuto di questo «altrove» si possa costituire in oggetto singolo e distinto (esotico). Il linguaggio testimonia di queste molteplici impregnazioni. Il ricorso al basic english delle tecnologie della comunicazione o del marketing è, a questo riguardo, rivelatore: esso marca non tanto il trionfo di una lingua sulle altre quanto l'invasione di tutte le lingue da parte di un vocabolario universale. È il bisogno di questo vocabolario generalizzato che è significativo, più del fatto che esso sia inglese. L'indebolimento linguistico (se si definisce così l'abbassamento della competenza semantica e sintattica nella pratica media delle lingue parlate) è più imputabile a questa generalizzazione che alla contaminazione e alla sovversione di una lingua con l'altra. Si veda bene, di conseguenza, ciò che distingue la surmodernità dalla modernità così come la definisce Starobinski attraverso Baudelaire. La surmodernità non è la totalità della contemporaneità. Nella modernità del paesaggio baudeleriano, viceversa, tutto si mischia, tout se tient: i campanili e le ciminiere sono i «padroni della città». Ciò che contempla lo spettatore della modernità, è l'embricatura dell'antico e del nuovo. Quanto alla surmodernità, essa fa dell'antico (della storia) uno spettacolo specifico — così come fa di tutti gli esotismi e di tutti i particolarismi locali. La storia e l'esotismo svolgono lo stesso ruolo delle «citazioni» nel testo scritto, ruolo espresso a meraviglia nei depliant delle agenzie di viaggio. Nei nonluoghi della surmodernità, vi è sempre un posto specifico (in vetrina, su di un manifesto, a destra dell'aereo, a sinistra dell'autostrada) per delle «curiosità» presentate come tali – gli ananas della Costa d'Avorio, Venezia città dei Dogi, la città di Tangeri, il sito di Alésia. Ma essi non operano alcuna sintesi, non integrano nulla, autorizzano solo, per il tempo di un percorso, la coesistenza di individualità distinte, simili e indifferenti le une alle altre. Se i nonluoghi sono lo spazio della surmodernità, questa non può pretendere alle stesse ambizioni della modernità. Appena gli individui si accostano, fanno del sociale e organizzano dei luoghi. Lo spazio della surmodernità è invece segnato da questa contraddizione: esso ha a che fare solo con individui (clienti, passeggeri, utenti, ascoltatori), ma questi sono identificati, socializzati e localizzati (nome, professione, luogo di nascita, indirizzo) solo all'entrata o all'uscita. Se i nonluoghi sono lo spazio della surmodernità, occorre spiegare questo paradosso: il gioco sociale sembra svolgersi lontano dagli avamposti della contemporaneità. È come in una immensa parentesi che i nonluoghi accolgono individui ogni giorno più numerosi. | << | < | > | >> |Pagina 108L'etnologia ha sempre a che fare con almeno due spazi: quello del luogo che studia (un villaggio, un'azienda) e quello, più vasto, in cui questo luogo si iscrive e da dove si esercitano influenze e vincoli che non sono privi di effetti sul gioco interno delle relazioni locali (l'etnia, il regno, lo Stato). L'etnologo è così condannato allo strabismo metodologico: non deve perdere di vista né il luogo immediato della sua osservazione, né le sue esternalità, le connessioni significative con il suo esterno.Nella situazione della surmodernità, una parte di questo «esterno» è fatta di nonluoghi e una parte di questi nonluoghi di immagini. Oggi, la frequentazione dei nonluoghi costituisce una esperienza, senza precedenti storici, di individualità solitaria e di mediazione non umana (basta un manifesto o uno schermo) fra l'individuo e la potenza collettiva. L'etnologo delle società contemporanee ritrova dunque la presenza individuale proprio in quell'universale in cui era tradizionalmente abituato a individuare, viceversa, i determinanti generali che danno senso alle configurazioni particolari o agli accadimenti singoli. Vedere in questo gioco di immagini solo un'illusione (una forma postmoderna di alienazione) sarebbe un errore. L'analisi di ciò che lo determina non ha mai esaurito la realtà di un fenomeno. Ciò che è significativo nell'esperienza del nonluogo è la sua forza di attrazione, inversamente proporzionale all'attrazione territoriale, alla pesantezza del luogo e della tradizione. L'accorrere degli automobilisti sulle strade del fine settimana o delle vacanze, le difficoltà dei controllori di volo a padroneggiare l'affollamento delle vie aeree, il successo delle nuove forme di distribuzione ne costituiscono una indubbia testimonianza. Ma altrettanto vale per fenomeni che, in prima istranza, potrebbero essere imputati alla preoccupazione di difendere i valori territoriali o di ritrovare le identità avite. Se gli immigrati allarmano tanto (spesso assai astrattamente) gli «indigeni», è forse innanzi tutto perché essi dimostrano la relatività delle certezze iscritte nel suolo. È l' emigrato ciò che nel personaggio dell' immigrato li allarma e li affascina allo stesso tempo. Se osservando l'Europa contemporanea siamo costretti a evocare il «ritorno» dei nazionalismi, dovremmo forse prestare attenzione anche a tutto ciò che in questo «ritorno» vi è di rifiuto dell'ordine collettivo: il modello identitario nazionale è evidentemente disponibile per dare forma a questo rigetto, ma è l'immagine individuale (l'immagine del libero percorso individuale) che gli dà senso e lo anima oggi, ma che può indebolirlo domani. Nelle sue modalità modeste come nelle sue espressioni lussuose l'esperienza del nonluogo (indissociabile da una percezione più o meno chiara dell'accelerazione della storia e del restringimento del pianeta) è oggi una componente essenziale di ogni esistenza sociale. Donde il carattere molto particolare e in definitiva paradossale di ciò che in Occidente si considera a volte come la moda del ripiegarsi su se stessi, del cocooning: mai le storie individuali (a causa del loro necessario rapporto con lo spazio, con l'immagine e il consumo) sono state così coinvolte nella storia generale, nella storia tout court. A partire da qui, tutti gli atteggiamenti individuali sono concepibili: la fuga (a casa propria, altrove), la paura (di sé, degli altri), ma anche l'intensità dell'esperienza (la «performance») o la rivolta contro i valori stabiliti. Non c'è più analisi sociale che possa tralasciare gli individui, né analisi degli individui che possa ignorare gli spazi attraverso i quali essi transitano. Un giorno, forse, un segno verrà da un altro pianeta. E, per effetto di una solidarietà di cui l'etnologo ha studiato i meccanismi su scala ridotta, l'insieme dello spazio terrestre diventerà un luogo. Essere terrestre significherà qualche cosa. Nell'attesa, non è detto che bastino le minacce che gravano sull'ambiente. È nell'anonimato del nonluogo che si prova in solitudine la comunanza dei destini umani.
Ci sarà dunque posto domani, o forse, malgrado
l'apparente contraddizione dei termini, c'è già posto
oggi per una etnologia della solitudine.
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