|
|
| << | < | > | >> |Indice9 L'etnologo e il suo tempo 17 Le rovine e l'arte 27 Un disturbo della memoria sull'Acropoli 33 Il tempo e la storia 45 In the Mood for Love 49 Turismo e viaggio, paesaggio e scrittura 81 Voyage au Congo 85 Il troppo-pieno e il vuoto 101 Paesaggio romano 105 Il muro di Berlino 119 Parigi 135 Conclusione |
| << | < | > | >> |Pagina 12In queste pagine i lettori non troveranno né un diario né delle memorie. Non ho mai veramente tenuto un diario e non ho buona memoria. No, il mio intento è un altro. È naturale che una persona il cui mestiere, per dirla in breve, consiste nell'ascoltare e nell'osservare gli altri nelle situazioni e nei luoghi più diversi, ritorni non sul senso di ciò che ha fatto (è troppo tardi ormai), ma su ciò che questo esercizio le ha insegnato, sulle riflessioni che esso le ispira e sulle domande che le pone attualmente. Il mestiere di antropologo (preferisco questo termine a quello di «etnologo», il cui uso, coi tempi che corrono, rischia di rafforzare in certi lettori l'illusione che esistano individui completamente definibili in base a un'appartenenza etnica e culturale appiccicata alla loro pelle) ha come oggetto l'attualità; l'antropologo parla di quel che ha sotto gli occhi: città e campagne, colonizzatori e colonizzati, ricchi e poveri, indigeni e immigrati, uomini e donne; e parla, ancor più, di tutto ciò che li unisce o li contrappone, di tutto ciò che li collega e degli effetti indotti da questi modi di relazione. Tutto questo costituisce, in linea di principio, l'oggetto di studio dell'antropologo, così come, sempre in linea di principio, se ha gli occhi bene aperti egli può essere indotto a confrontare situazioni che, nonostante evidenti differenze, gli sembrano paragonabili perché hanno un'aria di famiglia imputabile alla storia, agli attori che esse mettono in scena o alle istituzioni che mettono in gioco. L'attuale globalizzazione, pur presentando la caratteristica originale di aver quasi chiuso il cerchio e di riguardare effettivamente tutti gli abitanti del pianeta, non dovrebbe sorprendere l'antropologo: egli ha trascorso gran parte della sua vita a osservarne l'avanzata; le deve la sua stessa esistenza: nelle colonie e, più tardi, nei paesi di nuova indipendenza - dalle campagne in cui sono in corso delle attività di sviluppo alle bidonville delle periferie urbane, dai villaggi isolati ai campi profughi, dalle missioni cattoliche alle chiese pentecostali, dagli altari di fortuna nei quali si inventano nuovi culti alle moschee islamiche o islamiste, dai primi apparecchi a transistor alla televisione generalizzata - egli non ha mai smesso di seguire i progressi della globalizzazione e ha cercato di comprenderne le cause e gli effetti. Dopo il militare e il missionario, l'antropologo è stato, storicamente, uno dei primi segni della globalizzazione, anche se non sempre se n'è reso conto, così come oggi, rifacendo lo stesso errore, può credere di non aver niente da dire su di essa, e che anzi essa gli stia suonando la sua ultima ora, mentre dovrebbe aprirgli gli occhi sulla sua vera vocazione e sul vero oggetto della sua ricerca.| << | < | > | >> |Pagina 33Il tempo e la storiaTikal, Guatemala, ore cinque antimeridiane. Avevo seguito i consigli di una guida incontrata il giorno prima e mi ero presentato all'ingresso del parco mentre era ancora notte. A indurmi a quella spedizione solitaria non era stata tuttavia la prospettiva suggeritami dalla guida di assistere dalla cima di una piramide al sorgere del sole sulla foresta. Era stata, piuttosto, la speranza di ritrovarmi solo, in quei luoghi frequentati durante il giorno da famiglie guatemalteche e turisti stranieri; non erano certo così numerosi come in altri luoghi di richiamo del mondo, ma la loro presenza frettolosa e ciarliera mi aveva dato l'impressione, rafforzata da alcuni cartelli a forma di freccia collocati sugli itinerari principali, di fare una visita preorganizzata. [...] A quale passato mi rinviavano quelle rovine? Un passato maya del quale alcuni manuali mi avevano fornito una certa informazione, ma la cui durata (quasi bimillenaria) mi toglieva ogni riferimento. È noto, inoltre, che ogni re costruiva i suoi monumenti sulle rovine di quelli che erano stati innalzati dai suoi predecessori e che ne costituivano, da quel momento in poi, il nuovo basamento. Di quella città sepolta sotto la foresta e dispersa nei secoli non avevo dunque alcuna immagine, alcuna idea, né delle migliaia di abitanti (diecimila nel centro di essa, centomila se si considera l'intero agglomerato) che, secondo gli specialisti, vi avevano occupato uno spazio di un centinaio di chilometri quadrati. Il sito che mi affascinava (templi, stele e piramidi, radura nella foresta) non possedeva dunque, a voler essere precisi, alcuna esistenza storica, non mi restituiva alcun passato: così com'era, era inedito (i primi scavi risalivano alla fine degli anni cinquanta). L'invasione della foresta aveva da lungo tempo decretato la morte della cittadella scomparsa; quanto ne emergeva qua e là, quella commistione di pietre e di natura vegetale, aveva solo pochi anni di vita e non assomigliava né da vicino né da lontano a una ricostruzione storica. Contemplare rovine non equivale a fare un viaggio nella storia, ma a fare esperienza del tempo, del tempo puro. Riguardo al passato, la storia è troppo ricca, troppo molteplice e troppo profonda per ridursi al segno di pietra che ne è emerso, oggetto perduto come quelli ritrovati dagli archeologi che scavano le loro fette di spazio-tempo. Riguardo al presente, l'emozione è di ordine estetico, ma lo spettacolo della natura vi si combina con quello delle vestigia. Ci accade di contemplare dei paesaggi e di ricavarne una sensazione di felicità tanto vaga quanto intensa; più quei paesaggi sono «naturali» (meno essi devono all'intervento umano), più la coscienza che noi ne abbiamo è quella di una permanenza, di una lunghissima durata che ci fa misurare per contrasto il carattere effimero dei destini individuali. Allo spettacolo del perpetuo rinnovamento della natura può tuttavia ricollegarsi anche il confortante sentimento di una totalità che trascende quei destini o nella quale essi si fondono, l'intuizione panteista o materialista del «nulla si crea e nulla si distrugge». La natura, in questo senso, abolisce non solo la storia, ma il tempo. Le rovine aggiungono alla natura qualcosa che non appartiene più alla storia, ma che resta temporale. Non esiste paesaggio senza sguardo, senza coscienza del paesaggio. Il paesaggio delle rovine, che non riproduce integralmente alcun passato e allude intellettualmente a una molteplicità di passati, in qualche modo doppiamente metonimico, offre allo sguardo e alla coscienza la duplice prova di una funzionalità perduta e di un'attualità massiccia, ma gratuita. Conferisce alla natura un segno temporale e la natura, a sua volta, finisce col destoricizzarlo traendolo verso l'atemporale. Il «tempo puro» è questo tempo senza storia, di cui solo l'individuo può prendere coscienza e di cui lo spettacolo delle rovine può offrirgli una fugace intuizione. | << | < | > | >> |Pagina 41Le rovine esistono attraverso lo sguardo che si posa su di esse. Ma fra i loro molteplici passati e la loro perduta funzionalità, quel che di esse si lascia percepire è una sorta di tempo al di fuori della storia a cui l'individuo che le contempla è sensibile come se lo aiutasse a comprendere la durata che scorre in lui. Camus ha scritto prima della guerra la maggior parte dei saggi che sono stati poi raccolti in Noces e nell' Été. La felicità che egli prova a Tipasa, nella luce abbagliante della primavera, deriva dall'esperienza di un paesaggio nel quale le rovine di una città romana nei pressi di Algeri si amalgamano così intimamente con la natura che sembrano fondersi in essa, appartenervi: «In questa unione dei ruderi e della primavera, i ruderi sono tornati ad essere pietra e, perdendo il lustro imposto dall'uomo, sono rientrati nella natura». C'è voluto molto tempo perché il loro passato li abbandonasse: «i molti anni hanno riportato le rovine alla casa della madre». In un sito nel quale ama recarsi per trascorrere la giornata, Camus prova una voluttà panteista, l'intuizione di un'intesa carnale con quanto lo circonda. Un po' come Rousseau sulle rive del lago di Biel, egli arriva a smarrirvi persino il sentimento dell'individualità sociale, dell'identità.[...] L'esperienza che Camus fa delle rovine e del tempo è esemplare. Sappiamo perché la storia futura lo spaventa: essa sarà segnata dallo scontro fra coloro che ama e si concluderà con la perdita dei paesaggi della sua infanzia. Egli non è capace - né vuole esserlo - di prendere coscienza politicamente, cioè storicamente, della sua situazione. Il ritorno a Tipasa (possiamo immaginare che lo abbia rivissuto più volte nel pensiero) è dunque per lui una fuga al di fuori della storia verso la coscienza del tempo puro, verso la sola coscienza del tempo. Siamo posti oggi dinanzi alla necessità opposta: quella di reimparare a sentire il tempo per riprendere coscienza della storia. Mentre tutto concorre a farci credere che la storia sia finita e che il mondo sia uno spettacolo nel quale quella fine viene rappresentata, abbiamo bisogno di ritrovare il tempo per credere alla storia. Questa potrebbe essere oggi la vocazione pedagogica delle rovine. | << | < | > | >> |Pagina 49Turismo e viaggio, paesaggio e scritturaSe il turismo rappresenta oggi un argomento di riflessione particolarmente interessante lo si deve al fatto che il suo sviluppo, davvero spettacolare, è parallelo a quello della nostra nuova modernità. In altra occasione ho chiamato quest'ultima surmodernità, perché essa mi sembrava prolungare, accelerare e complicare gli effetti della modernità come era stata concepita nel XVIII e nel XIX secolo. La surmodernità sarebbe l'effetto combinato di un'accelerazione della storia, di un restringimento dello spazio e di una individualizzazione dei destini. Questi tre fattori sono, a loro volta, complessi: se abbiamo la sensazione che la storia stia accelerando il suo corso, è perché ogni giorno nuovi avvenimenti sono portati a nostra conoscenza; se abbiamo la sensazione che il pianeta si restringa, ciò è dovuto agli stessi motivi, ma anche allo sviluppo dei mezzi di trasporto, alla circolazione delle immagini e alla nostra presa di coscienza planetaria, legata anch'essa all'esplorazione dello spazio e alle preoccupazioni ecologiche. Quanto all'individualizzazione dei destini, essa può essere posta in relazione al sistema economico globale e alle nuove forme di consumo e di comunicazione. Il turismo illustra in modo esemplare alcuni aspetti di questa surmodernità: esso è evidentemente influenzato dalle nuove possibilità di circolazione planetaria; l'apertura dell'intero pianeta al turismo è rafforzata dalla circolazione delle informazioni e delle immagini. Gli stessi paesi «chiusi» politicamente in genere si aprono al turismo. I viaggi, infine, sono presentati come un «prodotto» più o meno elaborato che gli individui possono acquistare. Al di là di questa illustrazione, il turismo rappresenta e riproduce un certo numero di ambivalenze e di ambiguità caratteristiche della nostra epoca. La prima ambivalenza è quella del mondo che vede amplificarsi simultaneamente il turismo e i grandi movimenti migratori. Il turismo assume ogni giorno un'importanza sempre maggiore, e paesi che alcuni anni fa erano importatori di turisti ne sono diventati anche esportatori. Tuttavia, la maggioranza dei turisti appartiene alle zone economicamente più sviluppate del pianeta, e un buon numero di essi si reca a visitare i paesi che i migranti abbandonano per ragioni economiche o politiche. Questi due ampi movimenti, il turismo e la migrazione, il primo dichiaratamente provvisorio, il secondo aspirante alla lunga durata o alla permanenza, definiscono l'ambivalenza di un mondo nel quale lo scarto fra i ricchi più ricchi e i poveri più poveri aumenta progressivamente. | << | < | > | >> |Pagina 56Il fascino delle destinazioni lontane dipende in parte dall'illusione che ci induce a credere che viaggiare permetta di conoscere gli altri. Illusione nella stragrande maggioranza dei casi, e illusione quasi inevitabile, la cui natura è rivelata dal ricorso alla cinepresa: perché, se gli altri possono essere e anzi dovrebbero essere un oggetto di incontro, non dovrebbero essere un oggetto di visita come le belve del Kenya o le cascate del Niagara. La cinepresa esprime allora il malinteso più profondo di cui essa non è che una modalità. Le persone filmate sono esse stesse un'illusione, un'illusione che risponde al desiderio dei visitatori: l'illusione del pittoresco, del colore locale. La verità di questa illusione si trova nelle statistiche mondiali, ma anche negli immigrati, clandestini o meno, o nelle situazioni di violenza su cui la televisione ci intrattiene episodicamente. Se fossimo animati soltanto dal desiderio di incontrare gli altri, potremmo farlo facilmente, senza uscire dai nostri confini, nelle nostre città e nelle nostre periferie.| << | < | > | >> |Pagina 59Se ci attenessimo a questa visione pessimista, saremmo autorizzati a pensare che ogni viaggio, anche quando comporta lo spostamento del corpo, è immobile, nel senso che non fa muovere né lo spirito né l'immaginazione. Potremmo spingerci ancora più lontano nel pessimismo e aggiungere che il viaggio immobile nel senso fisico stretto del termine è anch'esso impossibile perché la nostra immaginazione è satura di immagini. Nella Guerre des rêves avevo avanzato l'idea che i tre poli dell'immaginario (l'immaginario individuale, l'immaginario collettivo e l'immaginario creativo, cioè i sogni, i miti e le opere) dovevano restare legati fra loro, irrigarsi reciprocamente, per sopravvivere. E avevo espresso la preoccupazione di vedere oggi l'immagine sostituirsi gradualmente ai miti (miti delle origini o del futuro, miti religiosi o politici) e alle opere (diventate prodotti di consumo e tributarie dell'industria): che cosa resterebbe allora dell'immaginario e dei sogni individuali?Come si colloca il viaggio in rapporto a questi tre poli? Per dirla in breve, potremmo affermare che inizialmente esso è un viaggio di scoperta e successivamente di conquista degli altri, un viaggio che l'Occidente ha esemplificato in particolar modo cercando di colonizzare il mondo: l'incontro con gli altri, in questo senso, è stato un fallimento perché la conquista ha avuto in sostanza lo scopo di asservirli e di assimilarli. Questo vizio iniziale non è stato eliminato e certe forme di turismo sono ancora caratterizzate da un complesso di superiorità dei turisti nei confronti degli abitanti dei paesi nei quali si recano. L'immaginario del viaggio di scoperta-conquista aveva molto a che vedere con certi miti collettivi (l'esotismo, il sogno coloniale, l'impero) e con i sogni di alcuni individui intraprendenti (i grandi viaggiatori). Ovviamente questo immaginario esiste ormai soltanto in una forma caricaturale e ridotta nell'immaginario del viaggio contemporaneo. Il sogno collettivo e individuale lo ritroviamo forse, paradossalmente e crudelmente, solo in certi migranti che, prolungando il sogno americano, sperano di trasformare la loro vita fuggendo in altri paesi. | << | < | > | >> |Pagina 62Una volta tanto potremo gestire l'immobilità, ma saremo ancora dei viaggiatori? Questo punto è essenziale, e non è certo casuale che oggigiorno la metafora del viaggio sia spesso associata all'attività cibernetica: si «naviga», si «viaggia» su Internet. Questa insistenza linguistica rivela forse un disagio la cui natura ci risulta più chiara se lo avviciniamo ai due ideali di incontro con l'altro e di costruzione di sé tradizionalmente associati all'idea di viaggio. L'illusione della comunicazione non consiste invece nel farci credere che i soggetti individuali esistono, intangibili, al di fuori dell'atto di comunicazione che li mette in rapporto fra loro? Che essi scambiano informazioni per arricchire le loro conoscenze senza trasformarsi? Che perseverano nel loro essere facendo a meno del faccia a faccia e del corpo a corpo? La comunicazione, in questo senso, è l'opposto del viaggio, nella misura in cui quest'ultimo implica, idealmente, la costruzione di sé attraverso l'incontro con gli altri. La comunicazione presuppone ciò che il viaggio cerca di creare: dei soggetti individuali ben costruiti. L' Homo communicans trasmette o riceve informazioni e non dubita di quel che egli è; il viaggiatore ideale cerca di esistere, di formarsi, e non saprà mai veramente chi egli è o ciò che egli è. In questo senso, la pratica attuale del turismo ha più a che fare con la comunicazione che con il viaggio. Il turismo culturale accresce il sapere, il turismo sportivo rimette in forma, ma senza che ad essi sia mai associata l'idea di una trasformazione essenziale dell'essere. L'ideale della comunicazione è l'istantaneità, mentre il viaggiatore se la prende comoda, coniuga i tempi, spera, si ricorda. Il turismo può essere oggetto di studio, può contribuire allo scenario di un romanzo, ma il viaggio è analogo alla scrittura, che ne costituisce talvolta il prolungamento. Il turista consuma la propria vita, il viaggiatore la scrive. Ogni viaggio è racconto, racconto futuro, destinato alla rilettura.| << | < | |