Copertina
Autore Carlo Auriemma
CoautoreElisabetta Eördegh
Titolo Mar d'Africa
SottotitoloStorie di terre e di vento, di isole e di uomini: in barca a vela dal Mar Rosso verso gli oceani d'Oriente
EdizioneFeltrinelli, Milano, 2002, UE 1684 , pag. 256, dim. 125x195x15 mm , Isbn 978-88-07-81684-0
LettoreRenato di Stefano, 2002
Classe viaggi , mare , natura
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Indice

    Introduzione                     9

 1. Caffè nel deserto               13
 2. Mar Rosso                       20
 3  Città fantasma                  39
 4. Donne in guerra                 51
 5. L'arcipelago di pango           59
 6. Pescatori di squali             71
 7. Fuochi sullo Yemen              80
 8. Socotra                         87
 9. Dentro l'oceano, parte prima    97
10. Pensieri notturni              106
11. Dentro l'oceano, parte seconda 115
12. Uomini e tonni                 122
13. Dengue                         131
14. Chagos                         139
15. Michel                         148
16. Il ponte sul creek             164
17. Notte sul dhow                 173
18. Zanzibar                       183
19. L'isola degli uccelli          193
20. Un buco nello scafo            199
2l. Pescatori di frodo             208
22. L'isola dei ladroni            220
23. In un mare di fango            228
24. Tempesta                       240
25. Guardando l'orizzonte          248

    Avviso ai non naviganti.       253

 

 

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Pagina 9

INTRODUZIONE



Quando ci trovammo davanti alla carta del mondo a decidere dove andare, non ci furono dubbi: avremmo cominciato dal Mar Rosso.

La Barca Pulita stava per partire e bisognava stabilire un itinerario.

Quanto sarebbe durato questa volta il viaggio?

E la rotta?

E la barca?

Avevamo cominciato a rispondere a queste domande molto prima di avere le risposte. Avevamo disegnato un itinerario sul mappamondo, tracciando una bella linea azzurra che si snodava tra coste e isole, che toccava posti bellissimi, che si perdeva tra gli atolli al centro degli oceani.

Avevamo disegnato una rotta e avevamo fatto finta di crederci.

Avevamo stabilito la durata: un anno per l'Indiano, un anno per il Pacifico e uno per l'Atlantico, come se gli oceani fossero tutti uguali, e come se davvero in un anno si potesse attraversare un oceano e fermarsi anche a guardare e a capire qualche decina di migliaia di isole e chilometri e chilometri di coste. Poi avevamo aggiunto un eventuale anno per gli imprevisti: totale, quattro anni.

"Il viaggio durerà quattro anni" avevamo detto a tutti quelli che lo volevano sapere.

Ma la sera, quando parlavamo tra noi prima di addormentarci, dopo giornate lunghe e strane passate a girare come trottole alla ricerca di pezzi di ricambio introvabili, di sponsor improbabili, di partner distratti, la sera quelle domande non avevano più risposta e si affiancavano a mille altre:

"Riusciremo a fare i filmati?".

"Riusciremo a scrivere un altro libro?"

"Riusciremo a far bastare i soldi?"

"E riusciremo a navigare con questa barca nuova, così grande e così complicata, con due alberi, e tutte queste vele?"

"Certo che ci riusciremo. Però adesso dormiamo."


Questo libro è il racconto di tre anni passati a vagabondare tra i mari e le terre, nel tentativo di raggiungere ciò che è lontano e di riscoprire ciò che è rimasto indietro nella storia dell'uomo e del mondo.

Di ogni posto dove siamo stati abbiamo cercato di esplorare gli angoli più remoti e le nicchie più improbabili. Guardavamo la carta geografica, studiavamo la mappa delle isole, analizzavamo, quando c'erano, i percorsi turistici e quelli commerciali, poi dicevamo: "Quì", puntando il dito verso l'isola più lontana o il promontorio più distante da tutte le strade e da tutti gli approdi. Qualche volta ci è andata bene e ci siamo trovati immersi in realtà incredibili e meravigliose. Qualche altra ci è andata male, e abbiamo incontrato cose troppo difficili, o abbiamo avuto paura, o non abbiamo trovato nulla.

Ma la nostra casa è una barca, e la barca è un mezzo meraviglioso perché consente ogni volta di ripartire e di riprovare. Basta issare le vele e dirigere verso il largo per trovarsi ancora di fronte al mondo, senza vincoli e senza limiti di tempo, liberi di scegliere uno scenario nuovo nel catalogo infinito di quelli offerti dal pianeta. E questo è quello che abbiamo fatto nel corso di tre anni.

Il nostro intento, quando abbiamo lasciato il moletto di Portovenere, era quello di filmare e raccontare. Abbiamo cercato di non dimenticarcene mai. Mentre riprendevamo gli animali e fotografavamo le persone abbiamo sempre preso appunti, registrando le sensazioni e le paure, le ansie e le esultanze. Ne è scaturita una decina di quaderni scritti a mano, che poi sono diventati questo libro.

Un libro che, in fondo, potrebbe essere stato scritto da chiunque, perché racconta ciò che abbiamo visto, incontrato e vissuto nel corso di un viaggio che chiunque avrebbe potuto fare. Girare il mondo con una barca, ficcare il naso nei posti più lontani, sbarcare dove nessuno sbarca, non sono cose difficili. Non bisogna essere esperti, non serve essere forti e neppure coraggiosi. Basta lasciarsi guidare dalla curiosità e accettare, ogni tanto, qualche disagio e qualche imprevisto. La cosa più difficile, forse, è partire.

Tutte le storie, le avventure, gli incontri e i luoghi riportati in questo libro sono veri. Le persone sono reali e vengono indicate con il loro nome; solo in un capitolo, il quarto, abbiamo usato nomi di fantasia per garantire alle protagoniste il diritto alla riservatezza. Le ragazze eritree ce lo avevano chiesto.

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Pagina 20

2.
MAR ROSSO



Le rive del Mar Rosso hanno pochi colori, ma sono i più belli del mondo. I toni del viola, del giallo, del verde cupo che il sole accende al tramonto, quando scompare dietro le dune del deserto, sono una sinfonia di luci che ci incantano. Restiamo a guardare quelle rive e quei colori al termine di giornate passate a spiare i granchi e i falchi pescatori, e a nuotare nel mare più selvaggio del mondo tra nuvole di pesci, totani e coralli, nell'acqua trasparente come quella di un acquario.

In questa parte alta del Mar Rosso c'è sempre vento, e il suo canto aspro ci accompagna giorno e notte. È una carezza un po' ruvida che non cessa mai, che odora di pietre cotte al sole e di deserto. Quando navighiamo ci aiuta perché spira sempre da nord verso sud, e ci spinge in poppa lungo la rotta che allontana dal Mediterraneo e avvicina all'Oceano Indiano. Quando stiamo fermi vicino a terra, però, il vento solleva un velo di polvere impalpabile che si deposita a bordo avvolgendo ogni cosa.

La Barca Pulita ora è ferma in un ambiente lunare. Rive brulle e disabitate. Colline nere. Mare vuoto. In mezzo a questo nulla la nostra barca è tutto ciò che abbiamo: casa, rifugio, patria, e la sua pancia calda è la nicchia per lenire la stanchezza e lasciar fuori il senso di solitudine infinita che emana da questi luoghi.

Ogni mattina però lasciamo la sua protezione e scendiamo a esplorare le rive del deserto.

"E se si rompe il fuoribordo? Come facciamo a tornare in barca?" Il vento ci trascinerebbe al largo, in un mare deserto, dove per centinaia di miglia non potremmo incontrare nessuno. Allora coccoliamo il fuoribordo come se fosse il terzo componente dell'equipaggio:

"Hai controllato la candela?".

"Certo, e ho anche preso una tanichetta con la benzina di scorta."

"I remi?"

"Ne ho presi quattro."

Quattro remi invece di due, una cima lunga e un ancorotto per ancorare al volo, in caso di necessità, sui reef - i massi di corallo che tappezzano ovunque il fondo di questo mare -, sono alcune delle precauzioni che abbiamo adottato per paura di finire dispersi verso il largo. E come ultima risorsa ci portiamo sempre un paio di pinne a testa, perché, se non riuscissimo a rientrare a remi, avremmo almeno la possibilità di abbandonare il gommone e rientrare a nuoto. Può sembrare strano che a nuoto sia meglio che a remi, ma in effetti un gommone con due persone a bordo offre una presa al vento incredibilmente maggiore di quella di un nuotatore, che stando immerso ne rimane, per così dire, immune.

Quando lasciamo la barca, per ulteriore prudenza, puntiamo sempre in direzione del vento. In caso di avaria, sarà il vento stesso a riportarci indietro, e dovremo solo acciuffare la barca al volo. Certo, questo limita del cinquanta per cento le nostre possibilità di esplorazione, ma il restante cinquanta per cento di questo mondo senza confini è sempre molto di più di quanto si possa desiderare.

E la sera scriviamo. Mi aggrappo alla matita e cerco di raccontare: colori, suoni, deserto. Ma è più difficile del previsto. Rileggo e non va mai bene. Dalla matita escono solo immagini deboli, come attraverso un vetro sporco. Allora chiudo gli occhi. Cerco di ricordare le sensazioni, e di metterle sulla carta, semplici, così come le ho vissute.


Squali

Entro in acqua sul limite esterno del reef, dove le colonie dei coralli improvvisamente sprofondano verso il basso. La Barca Pulita è lontana e vedo soltanto i suoi alberi spuntare dietro una lingua di sabbia marrone. La riva però è a soli duecento metri. Lascio il gommone che mi ha portato fin qui, respiro a lungo e mi immergo, nuotando piano verso il fondo. Scendo di qualche metro, mi aggrappo a un masso e mi arresto, trattenendo il fiato.

L'acqua è piena di pesci. Appena mi hanno visto si sono dati alla fuga, ma quando mi fermo si fermano anche loro. Poi, rassicurati dalla mia immobilità, si voltano e si avvicinano. Prima lentamente, poi col passare dei secondi diventano più curiosi; la distanza diminuisce, mentre il silenzio intorno si carica di aspettativa.

Il mondo dei reef in realtà è diverso da come appare attraverso lo schermo di un televisore a colori. A prima vista può sembrare un posto idilliaco pieno di creature fantastiche che si aggirano graziosamente tra i rami dei coralli senza alcuno scopo apparente, se non quello di farsi ammirare. Invece è un mondo dominato dalla paura. E quei colori che a noi sembrano tanto belli esistono solo in funzione di una lotta per la vita o la morte che non cessa mai un momento. Le livree variopinte servono per attirare le prede, o per confondere gli aggressori, o addirittura sono segnali di avvertimento, come nel caso dei pesci farfalla che se ne stanno indifferenti allo scoperto perché con i colori sfacciati del corpo e delle pinne informano tutti, come con un codice, del loro essere velenosi.

Sott'acqua, poi, ogni anfratto nasconde un animale in agguato. Le piovre, perfettamente mimetizzate, fanno capolino dalle fessure nella roccia, con i tentacoli raccolti sotto il corpo, pronte ad attorcigliarsi al primo essere che passi troppo vicino; le murene trascorrono le giornate in agguato col corpo giallastro invisibile nella tana, la sola testa che sporge dal buco. Persino gli anemoni di mare che oscillano variopinti nella corrente come fiori al vento non sono quello che sembrano, perché hanno braccia urticanti in grado di tramortire al semplice contatto. Infine ci sono i grossi predatori, come i barracuda, che si spostano a gruppi di centinaia e che attaccano tutti assieme, o le enormi cernie carnivore, con la bocca più grande della testa di un uomo, e gli squali, che pattugliano il fondo, con l'aria di chi non ha niente da temere.

In questo mondo alieno, bello e spietato, ogni essere passa la vita in bilico tra la ricerca di animali più piccoli da catturare e la paura di essere lui stesso divorato da quelli più grandi.

Resto immobile sul fondo, trattenendo il fiato, e dopo qualche decina di secondi sono circondato dai pesci. I primi ad arrivare, come sempre, sono i barracuda, col corpo affusolato coperto di linee più chiare, e la bocca socchiusa che lascia intravedere le file di denti aguzzi. Si fermano a un paio di metri a osservarmi con occhio guardingo. Poi arrivano i pesci pappagallo, i labridi, le orate, i pagelli, e alla fine mi trovo al centro di un carosello di animali curiosi, che volteggiano lentamente davanti alla maschera, in un silenzio impressionante, mentre i miei polmoni cominciano a reclamare l'aria.

Ci sono anche una ventina di carangidi, con il corpo tempestato di scaglie luminescenti, che insieme ad altri nuotano in cerchio attorno al mio corpo. Stringo le mascelle per vincere la voglia di respirare e mi costringo a restare immobile finché ne individuo uno della taglia giusta. Aspetto che passi davanti alla punta dell'arpione e faccio scattare il grilletto del fucile subacqueo. La freccia parte, vola nell'acqua, e colpisce il pesce proprio a lato della testa, dove il corpo si allarga ed è più facile mirare. Il carangide dà un guizzo, si impenna, frusta l'acqua furiosamente, con movimenti arruffati e disperati, col corpo trapassato dalla freccia, che a sua volta è legata al mio fucile da un corto sagolino nero.

È in quel momento che succede. Un lampo grigio e argenteo. Uno strattone violento. Un altro strattone... Lo squalo è sbucato dal nulla. Forse è venuto da sotto. Forse da dietro, non so. Ha afferrato il mio pesce tra le mascelle e mi sta strattonando. Lui da una parte tira il pesce e l'arpione, io, dall'altra, senza più aria, trattengo il fucile con tutte le forze, in un tiro alla fune involontario e indiavolato. Il cordino che trattiene l'arpione si tende violentemente e vedo l'asta piegarsi sotto lo sforzo. Impiego qualche attimo a rendermi conto del pericolo, mentre lo squalo tira e strappa, con formidabili strattoni, in una nuvola di sangue e di scaglie. Arrivano altri pescecani, e si lanciano sul primo, con le mascelle spalancate.

"Al diavolo!" Mollo il fucile e fuggo, nuotando all'indietro, con i polmoni che si contraggono per la mancanza d'aria. So che non devo uscire dall'acqua, e so che non devo perdere di vista gli squali. L'ho letto tante volte sui manuali d'immersione e nelle storie di incontri analoghi capitati ad altri. Se puntassi verso l'alto non potrei più controllare lo spazio attorno al mio corpo, mentre è importante tenerli d'occhio per fronteggiare e scoraggiare ogni tentativo di avvicinamento. Li vedo entrare e uscire dal campo visivo della maschera mentre nuotano furenti, in un feroce carosello, con rapide sortite e improvvisi cambi di rotta, mentre l'acqua si è intorpidita per il sangue, quello del mio pesce e forse quello di uno squalo ferito.

Raggiungo la parete del reef e mi metto con le spalle al corallo. I polmoni scoppiano, il cuore batte all'impazzata. Tre squali mi hanno seguito e disegnano nervosi semicerchi attorno al mio corpo. Cerco di restare con le spalle vicinissime alla parete verticale per impedire che possano attaccarmi di dietro.

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Pagina 139

14.
CHAGOS



Partiamo. Le isole Chagos sono proprio sotto di noi, dall'altra parte dell'equatore, a seicento miglia di distanza. Seicento miglia non sono molte, e normalmente richiederebbero una settimana di navigazione o poco più, ma stavolta è diverso. Tra noi e le Chagos c'è la fascia delle grandi calme equatoriali, una specie di terra di nessuno che segna il confine tra i venti dell'emisfero nord e quelli dell'emisfero sud, e dove non c'è mai vento. È impossibile prevedere l'ampiezza di quest'area, che cambia col tempo e con le stagioni. Proprio per questo i marinai di una volta temevano le calme equatoriali più di quanto temessero le tempeste delle latitudini più alte. I velieri potevano restarvi intrappolati per settimane o mesi, fermi immobili, con le vele flosce e i cordami a penzoloni, bloccati in una specie di sortilegio senza vento e senza tempo. Gli scafi si incrostavano di alghe lunghissime, gli equipaggi appassivano nella calura, razionavano acqua e viveri, si ammalavano, e col passare dei giorni si radicava la paura di essere vittime di un incantesimo.

Oggi, anche in mezzo al mare, agli incantesimi non crede più nessuno, e con gli scafi agili e leggeri delle barche moderne il passaggio che un tempo poteva richiedere mesi si può fare in una o due settimane. Ma quella delle calme resta una prova difficile e strana, sia per la barca che per chi ci sta sopra.

Partiamo da Male sotto un cielo pieno di vento e di nuvole che, se ci costringe a cambiare continuamente rotta e velatura, ci spinge però allegramente verso sud. La Barca Pulita corre veloce tra le onde, facendo lo slalom tra gli acquazzoni, in direzione dell'equatore, mentre alla nostra destra gli atolli meridionali delle Maldive sfilano in lontananza.

Dopo due giorni gli atolli finiscono, il vento si acquieta e tutto attorno a noi sembra rallentare, si abbassano le onde, scompaiono le correnti. A ogni miglio che guadagniamo verso sud, l'alito che ci spinge diventa più stanco, e all'alba del terzo giorno siamo immersi nella calma più totale.

È un mondo nuovo e diverso. Il mare giace immobile, con la superficie liscia e oleosa come uno specchio, che di giorno riflette le nuvole e l'immagine del sole e di notte riflette le stelle. Sarà per la scomparsa delle onde o forse per il silenzio totale che grava attorno a noi, ma l'oceano sembra ancora più grande: un mondo infinito e senza tempo da attraversare in punta di piedi, senza farsi notare.

Al mattino il cielo è sempre sereno, poi, col crescere del sole, la temperatura aumenta e l'evaporazione del mare lo riempie di spettacolari nuvoloni. Al pomeriggio cominciano i temporali con vento e pioggia, ma neppure quelli servono a farci avanzare. Il vento è forte: dovremmo prendere i terzaroli, ammainare il genoa e issare i fiocchi da tempesta, tutte operazioni che richiedono tempo e che durano più di quanto duri il vento stesso. Preferiamo ammainare tutte le vele e aspettare sotto la pioggia che il temporale si sfoghi, dopo di che ritorna l'azzurro e il vento scompare.

In realtà il vento non manca mai del tutto. È scarso e capriccioso, arriva un po' di qua e un po' di là, e non riesce neppure a increspare il mare. Ma è comunque su questi soffi deboli che dobbiamo basarci per passare al di là delle calme. Per sfruttarli dovremmo rimanere sempre al timone e regolare le vele di continuo, ma di giorno fa troppo caldo per rimanere al timone sotto il sole, e di notte siamo stanchissimi e caschiamo dal sonno. Allora preferiamo lasciare innestato il timone a vento, anche se ci fa avanzare zigzagando su una rotta tutta curve e tentennamenti, mentre noi passiamo le giornate sotto un tendalino improvvisato, a leggere e guardarci attorno, a scrivere e a tirarci addosso secchiate di acqua di mare.

Al sesto giorno, muovendoci come lumache, superiamo l'equatore.

"Siamo nell'emisfero sud" decreto dopo aver verificato due o tre volte i conti. Ma non si direbbe. Il mare è uguale, il cielo è lo stesso, e il vento continua a mancare.

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