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| << | < | > | >> |Pagina 5La prima volta che gli strinsi la mano fu nella primavera del 1967. Ai tempi frequentavo il secondo anno di università alla Columbia: ero un ragazzo ignorante e affamato di libri che coltivava la fede (o l'illusione) di diventare un giorno cosí bravo da potersi definire un poeta; e da lettore di poesia, avevo già incontrato il suo omonimo nell' Inferno di Dante, un dannato che si trascina nei versi finali del canto XXVIII della prima Cantica. Bertran de Born, il poeta provenzale del XII secolo, tiene per i capelli la propria testa recisa che ondeggia avanti e indietro come una lucerna: senz'altro una delle immagini piú grottesche nel catalogo di allucinazioni e supplizi che si sussegue per tutto l' Inferno. Benché fosse convinto estimatore della poesia di de Born, Dante lo condannò alla dannazione eterna per aver consigliato il principe Enrico di ribellarsi a suo padre, Re Enrico II; e dato che de Born aveva provocato una divisione fra padre e figlio rendendoli nemici, l'ingegnosa pena dantesca è dividere de Born da se stesso. Da qui il corpo decapitato che si lamenta nel mondo sotterraneo, chiedendo al viaggiatore fiorentino se può esistere dolore piú tremendo del suo.Quando si presentò come Rudolf Born, i miei pensieri andarono subito al poeta. Per caso lei è parente di Bertran? gli chiesi. Ah, mi rispose, quella disgraziata creatura che perse la testa. Può darsi, ma temo sia improbabile. Manca il de. Per averlo bisogna far parte della nobiltà, e la triste verità è che io sono tutt'altro che nobile. Non ricordo perché mi trovassi lí. Qualcuno doveva avermi chiesto di accompagnarlo, ma chi fosse quel qualcuno mi è svanito da tempo dalla mente. Non ricordo nemmeno dove si tenesse la festa - in periferia o in centro, in un appartamento o in un loft - e per la verità neanche il motivo per cui avevo accettato l'invito, dato che all'epoca tendevo a evitare le occasioni mondane, respinto dal baccano del chiacchiericcio generale, imbarazzato dalla timidezza che mi dominava in presenza degli sconosciuti. Ma quella sera, chissà come mai, dissi di sí e seguii il mio amico dimenticato nel luogo, qualunque fosse, dove mi portò. Ricordo invece questo: che a un certo punto della serata mi ritrovai solo, in piedi, in un angolo della stanza. Fumavo una sigaretta e guardavo gli invitati, decine e decine di giovani corpi ammassati nei limiti di quello spazio, ascoltavo il clamore misto di parole e risa, chiedendomi che diavolo ci stavo a fare lí, e pensai che forse era ora di andarsene. Sul calorifero alla mia sinistra era appoggiato un portacenere, e quando mi voltai per spegnere la sigaretta vidi che il ricettacolo colmo di cicche si stava alzando verso di me retto nel palmo della mano di un uomo. Poco prima, senza che me ne accorgessi, si erano sedute sul calorifero due persone: un uomo e una donna, entrambi piú grandi di me, anzi senz'altro piú vecchi di tutti gli altri presenti nella sala: lui sui trentacinque anni, lei attorno alla trentina. Sembravano una coppia un po' incongrua, Born con un vestito di lino bianco stropicciato e anche piuttosto sudicio, e la donna (che risultò poi chiamarsi Margot) tutta in nero. Quando lo ringraziai per il portacenere, lui mi fece un breve cenno di cortesia e disse Le pare con una minima traccia di accento straniero. Francese o tedesco, non avrei saputo decidere, perché parlava un inglese quasi impeccabile. Cos'altro notai in quei primi momenti? Carnagione pallida, capelli rossicci e spettinati (tagliati piú corti della maggioranza degli uomini dell'epoca), una bella faccia larga senza tratti caratteristici (una faccia, per cosí dire, generica, una faccia che in mezzo a qualsiasi folla sarebbe diventata invisibile), e due occhi castani, fermi, gli occhi indagatori di un uomo che sembrava non avere paura di niente. Né magro né grasso, né alto né basso, ma in tutto ciò una sensazione di forza fisica, forse dovuta alle mani poderose. Quanto a Margot, stava seduta senza muovere un muscolo, gli occhi fissi nello spazio come se la sua missione principale nella vita fosse apparire annoiata. Però affascinante, molto affascinante per un ventenne come me, con i capelli neri, la dolcevita nera, la minigonna nera, gli stivali di pelle nera e il trucco pesante nero attorno ai grandi occhi verdi. Non una bellezza, forse, ma un simulacro della bellezza, come se lo stile e la raffinatezza del suo aspetto incarnassero una sorta di ideale femminile dell'epoca. Born dichiarò che lui e Margot erano stati li li per andarsene, ma poi mi avevano visto lí, in piedi da solo in un angolo, e dato che avevo un'aria cosí infelice avevano deciso di avvicinarsi e tirarmi un po' su... tanto per essere sicuri che non mi tagliassi le vene prima della fine della serata. Non avevo idea di come interpretare la battuta. Quest'uomo mi sta insultando, mi chiesi, oppure cerca davvero di mostrarsi gentile con un ragazzo sconosciuto, avendolo visto a disagio? Di per sé le parole avevano un carattere abbastanza scherzoso, disarmante, ma lo sguardo di Born mentre le pronunciava era freddo e distaccato, e non potei fare a meno di sentire che mi stava sondando, mi provocava per ragioni che proprio non capivo. Scrollai le spalle, gli feci un sorrisetto e ribattei: Che ci creda o no, non mi sono mai divertito tanto in vita mia. Fu allora che si alzò, mi porse la mano e mi disse il suo nome. Dopo la mia domanda su Bertran de Born mi presentò a Margot, la quale mi sorrise in silenzio e tornò alla sua occupazione di fissare gli occhi nel vuoto. A giudicare dalla sua età, disse Born, e dalla sua conoscenza di poeti poco noti, direi che è uno studente. Di lettere, senz'altro. NYU o Columbia? Columbia. Columbia, sospirò lui. Che posto triste. La conosce? Insegno li da settembre, alla Scuola di Affari Internazionali. Professore in visita con incarico annuale. Per fortuna ormai è aprile, e fra due mesi me ne tornerò a Parigi. Dunque è francese. Per circostanze, anima e passaporto. Ma di nascita, svizzero. Svizzero francese o tedesco? Nella sua voce sento un po' di entrambi. Born schioccò appena la lingua e poi mi guardò intensamente negli occhi. Orecchio fino, disse. In effetti io sono entrambi... il prodotto ibrido di una madre germanofona e di un padre francofono. Sono cresciuto facendo avanti e indietro fra le due lingue. A quel punto, non sapendo che dire, mi interruppi un momento e poi gli rivolsi una domanda innocua: E cosa insegna nel nostro lugubre ateneo? Disastri. Una materia molto vasta, no? Per la precisione, i disastri del colonialismo francese. Tengo un corso sulla perdita dell'Algeria, e un altro sulla perdita dell'Indocina. Quella deliziosa guerra che abbiamo ereditato da voi. Mai sottovalutare l'importanza della guerra. La guerra è l'espressione piú pura e vivace dell'anima umana. Sta iniziando a parlare come il nostro poeta senza testa. Mi scusi? Deduco che non l'ha letto. Nemmeno una parola. Tutto quello che so di lui, lo so da Dante. De Born era un buon poeta, forse anche un grande poeta... ma inquietante a dir poco. Ha scritto incantevoli poesie d'amore e un commovente lamento per la morte del principe Enrico, ma il suo tema piú autentico, la sola cosa che sembrava stargli a cuore con autentica passione, era la guerra. Ne traeva godimento, davvero. Capisco, disse Born con un sorriso ironico. Un uomo come piace a me. Parlo del godimento nel vedere uomini che si sfondano il cranio a vicenda, o nel contemplare castelli incendiati e demoliti, e cadaveri con le lance piantate nel fianco. Roba sanguinolenta, mi creda, ma de Born non fa una piega. Il semplice pensiero di un campo di battaglia lo colma di gioia. Deduco che lei non ambisce a diventare un soldato. Per niente. Preferirei andare in prigione che combattere in Vietnam. E premesso che eviti sia la prigione sia l'esercito, che progetti avrebbe? Nessuno. Solo continuare con quello che sto facendo nella speranza che funzioni. E sarebbe? La scrittura. La bella arte dell'imbrattacarte. Mi sembrava. Quando Margot l'ha vista in fondo alla stanza, mi ha detto: Guarda quel ragazzo con gli occhi tristi e il viso pensieroso... scommetto che è un poeta. E, mi dica, è proprio cosí? Sí, scrivo poesie. E recensisco qualche libro per lo «Spectator». Ah, il giornaletto degli studenti. Da qualche parte si deve pur iniziare. Interessante... Mica tanto. Metà delle persone che conosco vogliono diventare scrittori. Perché dice volere? Se già lo sta facendo, non lo vuole soltanto. È una cosa che già esiste. Perché è ancora troppo presto per sapere se sono abbastanza bravo. Le pagano gli articoli? No, figurarsi. È un giornalino universitario. Quando cominceranno a pagarla saprà che è abbastanza bravo. D'un tratto, prima che potessi rispondere, Born si voltò verso Margot per annunciarle: Avevi ragione, angelo mio. Il tuo giovanotto è un poeta. Margot alzò gli occhi verso di me e con uno sguardo neutro, valutativo, parlò per la prima volta, pronunciando le frasi con un accento straniero che risultò molto piú spiccato di quello del suo compagno - un inconfondibile accento francese. Io ho sempre ragione, disse. Ormai dovresti saperlo, Rudolf. Un poeta, continuò Born, sempre rivolto a Margot, occasionale recensore di libri, e studente nel tristo maniero sulle alture, vale a dire che probabilmente è nostro vicino. Ma non ha nome. O almeno, nessuno che io conosca. Mi chiamo Walker, dissi, rendendomi conto che quando ci eravamo stretti la mano avevo dimenticato di presentarmi. Adam Walker. Adam Walker, ripetè Born staccando gli occhi da Margot e guardando me mentre sfoderava un altro dei suoi sorrisi enigmatici. Un bel nome americano, solido. Cosí forte, cosí insulso, cosí affidabile. Adam Walker. Il cacciatore di taglie solitario in un western in cinemascope, che perlustra il deserto con il fucile e la sei colpi in sella al suo castrone sauro. O magari il chirurgo di buon cuore, un uomo tanto perbene, in una soap opera per casalinghe, tragicamente innamorato di due donne nello stesso tempo. Sí, sembra solido, risposi, ma in America niente lo è. Il cognome fu assegnato a mio nonno quando sbarcò a Ellis Island, nel 1900. Pare che gli addetti dell'ufficio immigrazione considerassero Walshinksky troppo difficile da scrivere, e cosí lo chiamarono Walker. Che paese, disse Born. Funzionari analfabeti che defraudano un uomo della sua identità con un semplice tratto di penna. Non della sua identità, precisai. Solo del nome. Poi per trent'anni ha fatto il macellaio kosher nel Lower East Side. E poi ci fu ancora molto, moltissimo, un'ora buona di conversazione che si rimpallò senza meta da un argomento all'altro. Il Vietnam e la crescente opposizione alla guerra. Le differenze fra New York e Parigi. L'assassinio di Kennedy. L'embargo americano agli scambi commerciali con Cuba. Temi neutri, d'accordo, ma Born aveva opinioni decise su tutto, e spesso erano opinioni violente, anticonformiste: e dato che proferiva le sue parole con un tono mezzo beffardo, di accondiscendenza sorniona, non riuscivo a capire se fosse serio o no. In certi momenti sembrava un falco di estrema destra; poi formulava idee degne di un anarchico bombarolo. Sta cercando di provocarmi, mi chiesi, o per lui questa è routine, il suo modo solito di divertirsi il sabato sera? Nel frattempo, l'imperscrutabile Margot si era alzata dal termosifone che le faceva da trespolo per scroccarmi una sigaretta, e poi era rimasta in piedi, apportando alla conversazione un contributo minimo, anzi pressoché nullo, intenta però a studiarmi attentamente ogni volta che parlavo, gli occhi fissi su di me con la curiosità sfrontata di una bambina. Confesso che mi piaceva essere guardato da lei, anche se mi metteva un poco in imbarazzo. Trovavo nella cosa un che di vagamente erotico, ma all'epoca non avevo abbastanza esperienza da capire se mi stesse inviando un segnale o mi guardasse solo per il gusto di farlo. La verità era che non avevo mai incontrato persone come loro, e poiché mi risultavano entrambi cosí estranei, cosí inconsueti nell'atteggiamento esteriore, piú gli parlavo e piú mi sembravano farsi irreali: quasi personaggi immaginari di un racconto che si stava svolgendo nella mia mente. Non ricordo se stessimo bevendo, ma se la festa somigliava alle altre cui avevo presenziato dal mio arrivo a New York dovevano esserci bocce di vino rosso a buon mercato e un'ampia scorta di bicchieri di carta: quindi, man mano che continuavamo a parlare, probabilmente eravamo sempre piú ubriachi. Mi spiace di non riuscire a rievocare nient'altro di quello che dicemmo, ma è passato molto tempo dal 1967, e per quanto mi sforzi di cercare parole e gesti e fugaci sfumature di quel primo incontro con Born, per lo piú faccio cilecca. Tuttavia, nella nebbia spiccano alcuni momenti vividi. Born che mette la mano nella tasca interna della giacca di lino e ne estrae un sigaro già mezzo fumato, per accenderlo poi con un fiammifero informandomi, nel mentre, che si trattava di un Montecristo, il migliore di tutti i sigari cubani, allora al bando negli Stati Uniti, come lo sono tuttora: era riuscito a procurarselo tramite un rapporto personale con qualcuno che lavorava all'ambasciata francese di Washington. Proseguí con alcune parole lusinghiere su Castro - pronunciate dal medesimo uomo che pochi minuti prima aveva difeso Johnson, McNamara e Westmoreland per il loro eroismo nel combattere la minaccia comunista in Vietnam. Ricordo di essermi divertito alla vista del professore di scienze politiche trasandato che estraeva quel mezzo sigaro, e dissi che mi ricordava il proprietario di una piantagione di caffè in Sudamerica impazzito dopo troppi anni trascorsi nella giungla. Born rise alla battuta, aggiungendo subito che non ero lontano dal vero, dato che aveva passato gran parte dell'infanzia in Guatemala. Ma quando gli chiesi di dirmi di piú, tagliò corto con un cenno e le parole un'altra volta. Le racconterò tutta la storia, aggiunse, ma in un ambiente piú tranquillo. Tutta la storia della mia incredibile vita fino a oggi. Vedrà, signor Walker. Un giorno finirà per scrivere la mia biografia. Glielo assicuro. Il sigaro di Born, quindi, e la mia nomina a suo futuro Boswell, ma anche un'immagine di Margot che mi sfiora il volto con la mano destra e sussurra: Stia bene. Questo dev'essere successo verso la fine, quando stavamo per andarcene o eravamo già scesi da basso, ma non ho nessuna memoria del commiato, né di averli salutati. Tutti questi dettagli sono scomparsi, cancellati dal passaggio di quarant'anni. Erano due sconosciuti che avevo incontrato a una festa rumorosa in una serata di primavera nella New York della mia giovinezza, una New York che non esiste più: punto e basta. Potrei sbagliarmi, ma sono quasi sicuro che non ci scambiammo nemmeno i numeri di telefono. | << | < | > | >> |Pagina 12Pensavo che non li avrei rivisti mai piú. Born insegnava alla Columbia da sette mesi, e non avendolo mai incontrato per caso in tutto quel tempo sembrava difficile imbattermi in lui adesso. Ma negli avvenimenti reali le probabilità non contano, e l'improbabilità che una cosa succeda non vuol dire che non succederà. Due giorni dopo la festa, finita la mia ultima lezione del pomeriggio, entrai nel West End Bar sperando di trovarci qualcuno dei miei amici. Il West End era un buco cavernoso e squallido dotato di una dozzina o piú di separé e tavoli, un ampio bancone ovale al centro della sala e vicino all'entrata una zona dove si potevano consumare spuntini da tavola calda scadente: era il mio locale preferito, frequentato da studenti, ubriaconi e clienti abituali del quartiere. Era un pomeriggio caldo e soleggiato, perciò a quell'ora non c'era quasi nessuno. Mentre facevo il mio giro attorno al bancone in cerca di una faccia conosciuta, notai Born seduto da solo in un separé in fondo. Stava leggendo un giornale tedesco (lo «Spiegel», credo), mentre fumava un altro dei suoi sigari cubani ignorando il bicchiere di birra mezzo vuoto appoggiato sul tavolino alla sua sinistra. Anche stavolta indossava il vestito bianco - o forse uno diverso, dato che la giacca sembrava piú pulita e meno stropicciata di quella di sabato sera - ma la camicia bianca non c'era piú, sostituita da una rossa: un rosso scuro, deciso, a metà fra il mattone e il cremisi.Strano, ma il mio primo impulso fu di voltarmi e uscire senza salutarlo. Credo che ci sarebbe molto da indagare riguardo a questa esitazione, perché sembra indicare che avevo già capito che avrei fatto meglio a tenermi lontano da Born, che aver a che fare con lui sarebbe stato fonte di problemi. E come facevo a saperlo? Avevo passato poco piú di un'ora in sua compagnia, eppure anche in un tempo cosí breve avevo percepito che si portava addosso qualcosa di malsano, di vagamente repulsivo. Con ciò non volevo negare le altre sue qualità - fascino, intelligenza, senso dell'umorismo - ma al di sotto emanava un che dì oscuro e cinico che mi aveva sfasato, lasciandomi la sensazione che non fosse un uomo di cui fidarsi. Mi sarei fatto un'opinione diversa se non avessi disprezzato le sue opinioni politiche? Impossibile dirlo. Mio padre e io dissentivamo su quasi tutti i temi politici del momento, ma ciò non mi impediva di ritenerlo fondamentalmente una brava persona - o almeno una persona non cattiva. Ma Born non era buono. Era arguto ed eccentrico e imprevedibile, ma sostenere che la guerra è l'espressione piú pura dell'anima umana ti esclude automaticamente dall'ambito della bontà. E se avesse pronunciato quelle parole per gioco, per pungolare il solito studente antimilitarista a reagire e venire allo scoperto, sarebbe stato semplicemente perverso. Il signor Walker, mi disse alzando gli occhi dalla sua rivista e facendomi segno di sedermi con lui. Proprio l'uomo che cercavo. Avrei potuto inventarmi una scusa, dirgli che ero in ritardo per un appuntamento, ma non lo feci. Questa era l'altra metà della complessa equazione che poteva rappresentare i miei rapporti con Born. Per quanto potessi diffidarne, ero anche affascinato da quest'uomo cosí particolare, indecifrabile, e il fatto che sembrasse sinceramente contento di avermi incontrato attizzava le braci della mia vanità, quell'invisibile calderone di autostima e ambizione che arde e ribolle in ognuno di noi. Qualunque riserva avessi su di lui, qualunque perplessità nutrissi sul suo carattere ambiguo, non potevo trattenermi dal desiderare che mi stimasse, che mi reputasse qualcosa di piú del solito studente universitario americano sgobbone, che si accorgesse del potenziale che io speravo di serbare in me, pur dubitandone nove minuti su dieci della mia vita da sveglio. Quando mi fui seduto nel separé, Born mi guardò dall'altro lato del tavolo, sbuffò una nuvola di fumo dal sigaro e sorrise. L'altra sera, mi disse, ha fatto buona impressione a Margot. Anche lei mi ha colpito, gli risposi. Forse si sarà accorto che non parla molto. Il suo inglese non è impeccabile. È difficile esprimersi in una lingua che non si conosce bene. Il suo francese è perfetto, ma non parla molto neanche in francese. Insomma, le parole non sono tutto. Strana osservazione per uno che vuoi fare lo scrittore. Stavo parlando di Margot... Sí, Margot. Esatto. Proprio quello che volevo dire. Una donna che tende ai lunghi silenzi, ma sabato sera mentre tornavamo a casa dalla festa non la smetteva piú di parlare. Interessante, commentai, senza capire bene dove andasse a parare. E cosa è stato a scioglierle la lingua? Lei, ragazzo mio. L'ha presa in grande simpatia, ma deve sapere che è anche molto preoccupata. Preoccupata? E perché mai dovrebbe esserlo? Non mi conosce nemmeno. Forse no. Però si è messa in testa che il suo futuro è in pericolo. Il futuro di tutti è in pericolo. Soprattutto dei maschi americani di piú o meno vent'anni... come lei sa bene. Ma purché io non mi faccia cacciare dall'università, sarò esentato dalla leva fino a dopo la laurea. Non ci scommetterei, ma è possibile che per allora la guerra sia già finita. No, signor Walker, non ci scommetta. Questa guerricciola durerà ancora anni. Accesi una Chesterfield e annuii. Per una volta concordo con lei, dissi. E comunque, Margot non parlava del Vietnam. Sí, lei potrebbe finire in prigione - o ritornare a casa in una bara fra due o tre anni - ma Margot non stava pensando alla guerra. È convinta che lei sia troppo buono per questo mondo, e che il mondo finirà per schiacciarla. Non riesco a seguire il ragionamento. Margot crede che lei abbia bisogno di aiuto. Magari non sarà la testa piú lucida del mondo occidentale, però incontra un ragazzo che si dichiara un poeta, e la prima cosa che le viene in mente è morire di fame. Ma è assurdo. Margot non sa quel che dice. Scusi se la contraddico, ma quando alla festa le ho domandato che progetti aveva, mi ha risposto che non ne aveva affatto. A parte, naturalmente, la nebulosa ambizione di diventare un poeta. Quanto guadagnano i poeti, signor Waiker? Di solito niente. Se hai fortuna, ogni tanto qualcuno ti getta un pugno di monetine. E questo a me sembra morire di fame. Non ho mai detto che pensavo di mantenermi scrivendo. Dovrò trovare un lavoro. Per esempio? Mah, è difficile dirlo. Potrei lavorare per una casa editrice, o per un giornale. Potrei tradurre libri. Scrivere articoli, recensioni. Una di queste cose, o diverse messe insieme. È troppo presto per saperlo, e finché non mi troverò ad andare nel mondo, è anche inutile perderci il sonno, le pare? Ma lei è già nel mondo, che le piaccia o no... e prima imparerà a parare i colpi, meglio si troverà. Come mai questa premura improvvisa? Ci siamo appena conosciuti, perché dovrebbe starle a cuore quello che succede a me? Perché Margot mi ha chiesto di aiutarla, e dato che non mi chiede quasi mai nulla, è per me un punto d'onore obbedire ai suoi desideri. Le risponda che la ringrazio, ma non è necessario che v'incomodiate. Posso fare da solo. Oh, ma è proprio testardo, disse Born posando il sigaro quasi finito sull'orlo del portacenere e protendendosi in avanti finché la sua faccia non fu a pochi centimetri dalla mia. Mi sta dicendo che se le offrissi un lavoro rifiuterebbe? Dipende dal lavoro. Be', è ancora da vedere. Qualche idea ce l'ho già, ma non ho deciso. Forse mi può aiutare. Non sono sicuro di aver capito. Dieci mesi fa è morto mio padre, e pare che io abbia ereditato una notevole quantità di denaro. Non abbastanza per comprare un castello o una compagnia aerea, ma per cambiare qualcosetta nella vita, sí. Naturalmente potrei ingaggiarla per scrivere la mia autobiografia, ma credo che sia troppo presto per quello. Ho solo trentasei anni, e mi sembra un po' assurdo parlare della vita di un uomo prima che arrivi ai cinquanta. E allora, cosa? Ho pensato di fondare una casa editrice, ma non sono sicuro di poter digerire tutta la programmazione a lungo termine che comporterebbe. Invece una rivista, mi sembra molto piú divertente. Un mensile, magari un trimestrale, ma una cosa fresca e audace, una pubblicazione che a ogni numero stimoli chi la legge e susciti dibattiti. Lei cosa ne pensa, signor Walker? Potrebbe interessarle lavorare a un periodico? Sicuro. L'unica domanda è: perché io? Lei fra un paio di mesi tornerà in Francia, quindi credo che stia parlando di una rivista francese. Io il francese lo so discretamente, ma non abbastanza bene per i suoi scopi. E in ogni caso, frequento l'università qui, a New York. Non posso prendere e andarmene via. E chi ha detto di andarsene? Chi ha parlato di una rivista francese? Se avessi un bel gruppo di americani che mandano le cose avanti qui, potrei fare un salto a controllare ogni tanto, ma in sostanza mi terrei fuori. Dirigere una rivista di persona non m'interessa. Ho il mio lavoro, la mia carriera, e non avrei neanche tempo. L'unica responsabilità da parte mia sarebbe tirar fuori i soldi... e poi sperare di guadagnarci. Lei è un politologo, io uno studente di lettere. Se sta pensando di fondare una rivista politica, non conti su di me. Siamo da lati opposti della barricata, e se provassi a lavorare per lei sarebbe un disastro. Se invece sta parlando di una rivista letteraria, allora sí, mi interessa molto. Solo perché insegno relazioni internazionali e scrivo di governi e di politica non significa che sia gretto e rozzo. L'arte non m'interessa meno di quanto interessi a lei, signor Walker, e non le chiederei di lavorare a una rivista se non pensassi a una rivista letteraria. E come fa a sapere che sarei all'altezza? Non lo so, ma lo intuisco. Non ha senso. Lei è qui che mi offre un lavoro senza aver letto una parola di quello che ho scritto. Sbaglia. Proprio stamane ho letto quattro sue poesie nell'ultimo numero della «Columbia Review», e sei articoli suoi sul giornale studentesco. Il pezzo su Melville era particolarmente riuscito, a mio parere, e la sua poesia breve sul cimitero mi ha commosso. Ancora quanti cieli su di me / finché anche questo non sparirà? Notevole. Mi fa piacere che lo pensi. È ancora piú notevole che abbia agito cosí in fretta. Sono fatto cosí. La vita è troppo breve per tergiversare. Ce lo diceva sempre anche la mia maestra di terza elementare... parola per parola. Luogo meraviglioso, questa vostra America. Ha ricevuto un'ottima istruzione, signor Walker. Born rise del suo futile commento, bevve un sorso di birra e poi si appoggiò alla sedia per riflettere sull'idea che aveva messo in movimento.
Quello che desidero che faccia, disse infine, è stendere un
progetto, un prospetto. Mi spieghi quali testi apparirebbero
nella rivista, la lunghezza di ogni numero, lo stile delle copertine, il design,
la periodicità e il nome che vorrebbe darle, eccetera. Quando avrà finito può
lasciarmelo in ufficio. Io gli darò un'occhiata, e se le sue idee mi piaceranno
saremo soci.
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