Copertina
Autore Paul Auster
Titolo Notizie dall'interno
EdizioneEinaudi, Torino, 2013, Supercoralli , pag. 228+68, ill., cop.ril.sov., dim. 14,5x22x2,2 cm , Isbn 978-88-06-21603-0
OriginaleReport From The Interior
TraduttoreMonica Pareschi
LettoreSara Allodi, 2014
Classe narrativa statunitense , paesi: USA
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Indice


   3   Notizie dall'interno

  87   Due colpi alla testa

 147   Capsula del tempo

 229   Album



 

 

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Pagina 5

In principio tutto era vivo. Anche i piú piccoli oggetti erano dotati di un cuore pulsante, e perfino le nuvole avevano un nome. Le forbici camminavano, telefoni e teiere erano cugini, occhi e occhiali fratelli. Il quadrante dell'orologio era un volto umano, ogni pisello nel piatto aveva una sua personalità e nell'auto dei tuoi genitori, la griglia del radiatore era una bocca ghignante piena di denti. Le penne erano dirigibili. Le monete, dischi volanti. I rami degli alberi, braccia. I sassi pensavano, e Dio era ovunque.

Non c'erano problemi a credere che l'uomo nella luna fosse un uomo vero. Vedevi la sua faccia che ti guardava dal cielo, ed era senza dubbio la faccia di un uomo. Poco importava se non aveva un corpo - per te era sempre un uomo, e non ti sfiorò mai l'idea che in tutto questo potesse esserci una contraddizione. Comunque sembrava del tutto credibile che una mucca potesse saltare fin sulla luna, come nella filastrocca. E che un piatto fuggisse con il cucchiaio.

I tuoi primi pensieri, vestigia della tua vita in te stesso da bambino. Li ricordi solo in parte, frammenti isolati, brevi sprazzi di agnizione che affiorano inaspettati dentro di te in momenti casuali - riportati alla mente dall'odore o dal tocco di qualcosa, o dal modo in cui la luce illumina qualcosa nel presente dell'età adulta. Perlomeno pensi di ricordare, credi di ricordare, ma forse non ricordi affatto, o ricordi solo una successiva reminiscenza di ciò che pensi di aver pensato in quel tempo lontano che ormai per te è quasi del tutto perduto.

3 gennaio 2012, un anno esatto da quando hai cominciato a scrivere il tuo ultimo libro, il tuo diario d'inverno ora ultimato. Una cosa era parlare del tuo corpo, catalogare i tanti dolori e piaceri provati dal tuo io fisico, ma esplorare la tua mente cosí com'è nei tuoi ricordi d'infanzia sarà senz'altro un compito piú difficile - forse impossibile. Eppure ti senti in dovere di provarci. Non perché ti reputi un oggetto di studio prezioso o fuori dal comune, ma proprio per l'esatto contrario, perché ti consideri uno come tanti, uno come tutti.

La sola prova che i tuoi ricordi non sono completamente fasulli è il fatto che ogni tanto ricadi ancora nei tuoi vecchi schemi di pensiero. Ne restano tracce ancora adesso che hai oltre sessant'anni, la tua mente non è stata del tutto purificata dell'animismo della prima infanzia e ogni estate, disteso supino nell'erba, guardi passare le nuvole e le vedi trasformarsi in facce, in uccelli e animali, in paesi e nazioni e regni immaginari. Le griglie dei radiatori ti fanno ancora pensare ai denti, e il cavatappi è ancora una ballerina che volteggia sulle punte. Nonostante l'evidenza esteriore sei rimasto quello che eri, anche se non sei piú la stessa persona.

Pensando a dove arrivare con ciò che stai scrivendo, hai deciso che non varcherai il confine dei dodici anni, perché dopo quell'età hai smesso di essere bambino, l'adolescenza incombeva, nella tua mente cominciavano già a balenare sprazzi di maturità e ti sei trasformato in un essere diverso dalla piccola creatura la cui vita era un continuo tuffo nel nuovo, che ogni giorno faceva qualcosa, perfino diverse cose, o molte cose per la prima volta, ed è proprio questo lento progresso dall'ignoranza a qualcosa che è un po' meno ignoranza a preoccuparti adesso. Chi eri, piccolo uomo? Come sei diventato una persona capace di pensare, e se eri capace di pensare, dove ti portavano i tuoi pensieri? Rivanga le vecchie storie, gratta qua e là per tirar fuori tutto quello che riesci a trovare, poi solleva i frammenti verso la luce e osservali. Fallo. Provaci.

Naturalmente il mondo era piatto. Quando qualcuno cercava di spiegarti che la terra è rotonda, un pianeta che ruota intorno al sole insieme ad altri otto pianeti dentro una cosa chiamata sistema solare, non riuscivi a capire quello che il ragazzo piú grande di te stava dicendo. Se la terra era rotonda, allora tutti quelli che abitavano sotto l'equatore erano destinati a cadere, perché era inconcepibile che qualcuno potesse passare la vita a testa in giú. Il ragazzo più grande cercava di spiegarti il concetto di gravità, ma anche quello ti sfuggiva. Immaginavi milioni di persone che precipitavano a capofitto nell'oscurità di una notte infinita e onnivora. Se la terra era davvero rotonda, ti dicevi, l'unico posto sicuro era il Polo Nord.

Senza dubbio influenzato dai cartoni animati che adoravi e che giocavano sul doppio significato della parola in inglese, immaginavi che dal Polo Nord spuntasse un palo, simile a una di quelle colonnine girevoli a strisce davanti ai negozi dei barbieri.

Le stelle, d'altra parte, erano inspiegabili. Né buchi nel cielo né candele né luci elettriche, né altro che somigliasse a qualcosa che conoscevi. L'immensità dell'aria nera sopra tutto e tutti, la vastità dello spazio che stava fra te e quelle piccole luminosità, resistevano a ogni tentativo di comprensione. Belle e benigne presenze sospese nella notte, che erano lí perché dovevano esserci punto e basta. Opera delle mani di Dio, sí, ma cosa gli era passato per la testa?

Le tue circostanze, allora, erano queste: America, anni Cinquanta del secolo scorso; madre e padre; tricicli, biciclette e carretti giocattolo; radio e Tv in bianco e nero; automobili con cambio manuale; due minuscoli appartamenti e poi una casa in periferia; salute delicata nei tuoi primi anni, poi il normale vigore dell'adolescenza; scuola pubblica; una famiglia della borghesia operosa; una cittadina di quindicimila anime popolata da protestanti, cattolici ed ebrei, tutti bianchi eccetto un pugno di neri, ma nessun buddista, indú o musulmano; una sorella piú piccola e otto cugini; fumetti; le scenette di Rootie Kazootie e Pinky Lee in Tv; le canzoni di Natale; la zuppa Campbell, pane Wonder Bread e piselli in scatola; auto truccate (le cosiddette hot rods) e sigarette a ventitre centesimi al pacchetto; un piccolo mondo dentro il grande mondo, che a quei tempi era per te tutto il mondo, perché quello grande non si vedeva ancora.

Armato di forcone, un furibondo Farmer Alfalfa insegue il gatto Felix in un campo di granturco. Nessuno dei due può parlare, ma le loro azioni sono accompagnate dal fragore ininterrotto di una musica allegra e velocissima, e mentre li guardi ingaggiare l'ennesima battaglia della loro guerra infinita sei convinto che siano reali, che queste figure stilizzate in bianco e nero siano vive quanto te. Compaiono ogni pomeriggio in un programma televisivo dal titolo Junior Frolics, condotto da un uomo di nome Fred Sayles che per te è semplicemente lo Zio Fred, il custode dai capelli d'argento di questo paese delle meraviglie, e siccome non sai niente di come si produce un film di animazione, e non puoi lontanamente indovinare il procedimento con cui si fanno muovere i disegni, immagini che debba esserci una sorta di universo parallelo dove personaggi come Farmer Alfalfa e il gatto Felix possono esistere - non come segni di inchiostro che ballonzolano su uno schermo televisivo, ma come creature in carne e ossa, tridimensionali, grandi quanto un adulto. La logica esige che siano grandi, perché le persone che compaiono in Tv sono sempre piú grandi della loro immagine sullo schermo, e in piú devono appartenere a un universo parallelo, perché quello in cui vivi non è popolato da personaggi dei cartoni animati, anche se ti piacerebbe. Un giorno, quando hai cinque anni, tua madre ti annuncia che porterà te e il tuo amico Billy allo studio di Newark dove si registra Junior Frolics. Potrai vedere lo Zio Fred da vicino, ti dice, e partecipare alla trasmissione. Tutto questo per te è elettrizzante, straordinariamente elettrizzante, ma lo è ancora di piú il pensiero che alla fine, dopo mesi di congetture, Farmer Alfalfa e il gatto Felix saranno li davanti ai tuoi occhi. Finalmente scoprirai che aspetto hanno. Vedi mentalmente la scena che si svolge su un enorme palcoscenico, un palcoscenico grande quanto un campo da football, mentre il vecchio contadino bisbetico e quel furbacchione del gatto nero si rincorrono avanti e indietro in una delle loro epiche scaramucce. Il giorno stabilito, però, non succede niente di ciò che ti aspettavi. Lo studio è piccolo, lo Zio Fred ha la faccia truccata e tu, dopo aver ricevuto un sacchetto di mentine per intrattenerti durante lo spettacolo, ti siedi sulla gradinata con Billy e gli altri bambini. Guardi quello che dovrebbe essere un palcoscenico giú in basso, ma in effetti è solo il pavimento di cemento dello studio, e lí c'è un televisore. E nemmeno un televisore speciale, ma un apparecchio né piú e né meno come quello che hai a casa. Del contadino e del gatto non c'è traccia. Dopo aver dato il benvenuto al pubblico in sala, lo Zio Fred presenta il primo cartone animato. Il televisore si accende, ed ecco Farmer Alfalfa e il gatto Felix che saltellano qua e là come hanno sempre fatto, ancora intrappolati nel televisore, ancora piccoli come sono sempre stati. Sei in preda alla confusione. Quale errore hai commesso? ti domandi. Dove hai sbagliato con il tuo ragionamento? La realtà è cosí sfacciatamente in contrasto con quanto avevi immaginato che non puoi fare a meno di sentirti vittima di un brutto scherzo. Stordito dalla delusione, riesci appena a sforzarti di seguire lo spettacolo. Dopo, mentre stai tornando verso l'auto con Billy e tua madre, getti via le mentine, disgustato.

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Pagina 51

Niente sugli scarponi - ma neanche una parola pure sugli indiani. Sapevi che erano qui già da prima, che occupavano il paese oggi chiamato America da duemila anni quando gli europei cominciarono ad arrivare su queste coste, ma quando i tuoi insegnanti parlavano dell'America, gli indiani entravano di rado nella storia. Erano i nativi, i predecessori autoctoni, gli indigeni che un tempo avevano dominato questa parte del mondo, e nell'America di metà secolo prevalevano due visioni completamente opposte su di loro, in totale contraddizione l'una con l'altra, eppure equivalenti, entrambe con la stessa pretesa di verità. Nei western in bianco e nero che guardavi alla televisione, gli uomini rossi erano invariabilmente presentati come spietati assassini, nemici della civiltà, demoni dediti al saccheggio che attaccavano le fattorie dei coloni bianchi per puro e sadico piacere. D'altro canto, però, c'era il maestoso ritratto del capo indiano sulla lattina di lievito Calumet, la stessa lattina che avevi decorato per ricavarne un sonaglio cerimoniale quando avevi cinque anni, e lo spettacolo sugli indiani al quale avevi preso parte non aveva come argomento la brutalità degli indiani bensí la loro saggezza, la loro comprensione della natura, piú profonda di quella dell'uomo bianco, il loro intimo dialogo con le forze eterne dell'universo, e il Grande Spirito in cui credevano ti sembrava una divinità gentile e amichevole, a differenza del Dio vendicativo della tua immaginazione, che regnava per mezzo del terrore e di punizioni tormentose. In seguito, quando ti assegnarono la parte del governatore William Bradford in una commedia scolastica allestita in seconda o in terza, presiedesti una ricostruzione del primo Ringraziamento con i munifici Squanto e Massasoit, consapevole che gli indiani erano persone buone e gentili, e che senza la loro generosità e il loro aiuto costante, senza i loro copiosi doni di cibo e i loro insegnamenti esperti sulla natura di quelle terre, i Padri Pellegrini non avrebbero superato il primo inverno nel Nuovo Mondo. Ecco le prove contrastanti: sia angeli sia demoni, primitivi violenti e nobili nativi, due visioni inconciliabili della stessa realtà, eppure, in mezzo a tutta questa confusione, da qualche parte c'era un terzo termine, una frase che aveva alimentato la parte piú segreta del tuo mondo interiore fin da quando avevi memoria: indiani selvaggi. Erano le parole che tua madre usava ogni volta che ti comportavi male, quando i tuoi modi solitamente pacati degeneravano nel chiasso e nell'anarchia, perché la verità è che una parte di te voleva essere selvaggia, ed esprimevi quell'impulso immaginando di essere un indiano, un bambino che correva mezzo nudo con arco e frecce tra foreste di pini giganteschi, trascorreva giornate intere galoppando per le pianure sul suo stallone palomino e cacciava i bufali con i guerrieri della sua tribú. L' indiano selvaggio rappresentava tutto ciò che era sensuale, liberatorio e incontrollato, era l'Es che dava sfogo ai suoi desideri libidinosi in opposizione al Super-io degli eroici cowboy con il cappello bianco, al mondo oppressivo delle scarpe scomode e delle sveglie e delle aule scolastiche asfittiche e surriscaldate. Naturalmente, non avevi mai incontrato un indiano, non ne avevi mai visto uno tranne che nei film e nelle fotografie, ma nemmeno Kafka aveva mai visto un indiano in carne e ossa, e questo non gli aveva impedito di scrivere un racconto di un unico paragrafo dal titolo Desiderio di diventare un indiano: «Ah, fossi un indiano, ecco qua, pronto, sul cavallo in corsa, obliquo nel vento... », una singola frase indipendente che cattura in pieno il desiderio di liberarsi da ogni freno, lasciarsi andare, fuggire le frastornanti convenzioni della cultura occidentale. Ecco cosa avevi assimilato prima della terza o della quarta elementare: i bianchi arrivati qui nel 1620 erano cosí pochi che non avevano altra scelta se non fare la pace con le tribú circostanti, ma quando diventarono piú numerosi, quando l'invasione di immigrati inglesi cominciò a crescere, e poi crebbe ancora, la situazione si capovolse, e un po' alla volta gli indiani vennero cacciati via, espropriati delle loro terre, massacrati. Non conoscevi la parola genocidio, ma quando vedevi indiani e bianchi lanciarsi all'assalto nei vecchi western in Tv, sapevi che dietro quelle storie c'era qualcosa di piú. L'unico indiano trattato con un po' di rispetto era Tonto, il fedele compagno del Cavaliere Solitario, impersonato dall'attore Jay Silverheels, che ammiravi per il coraggio, l'intelligenza e i lunghi, pensosi silenzi. In quinta, vale a dire quando avevi ormai dieci e undici anni, eri già diventato un lettore entusiasta di Mad, e nell'ormai famosa parodia del Cavaliere Solitario, comparsa in un numero di quella rivista, il vendicatore di torti mascherato e il suo leale amico si trovano ad affrontare una banda di indiani ostili. Il Cavaliere Solitario si gira verso l'amico e dice: «Be', Tonto, a quanto pare siamo circondati». Al che l'indiano risponde: «Come sarebbe a dire, siamo?» Non ti sfuggí la battuta, grandiosa e molto divertente proprio perché in fondo, e tu lo sentivi, non era affatto una battuta.

Il diario di Anna Frank. L'India diventa una nazione indipendente. Muore Henry Ford. Partito dal Perú con una zattera a vela, Thor Heyerdahl raggiunge la Polinesia in 101 giorni. Erano tutti miei figli, di Arthur Miller. Un tram che si chiama desiderio, di Tennessee Williams. Scoperta dei rotoli del mar Morto. In un punto sopra un deserto degli Stati Uniti occidentali, un jet americano infrange il muro del suono. Truman nomina George C. Marshall segretario di Stato, e il piano Marshall prende il via. La scultura di Giacometti Uomo che indica. La peste, di Albert Camus. L'Onu annuncia un piano per la divisione della Palestina. A New York viene fondato l'Actors Studio. André Gide vince il premio Nobel. Pablo Casals si impegna solennemente a non esibirsi in pubblico finché Franco rimarrà al potere. Muore Al Capone. Negli Stati Uniti, termina dopo cinque anni il razionamento dello zucchero. Jackie Robinson diventa il primo giocatore nero di baseball nelle Major Leagues. Truman firma l'ordine esecutivo 9835, che richiede a tutti i dipendenti governativi un giuramento di lealtà, e diventa il primo presidente a rivolgersi al popolo americano dalla televisione. Ti ucciderò, di Mickey Spillane. Doctor Faustus, di Thomas Mann. Il Comitato per le attività antiamericane apre l'inchiesta sull'influenza comunista nell'industria cinematografica. Monsieur Verdoux, di Charlie Chaplin. Gli Yankees battono i Dodgers nelle World Series. Debutta Maria Callas. Su New York cadono settanta centimetri di neve, la peggior tormenta nella storia della città. Le catene della colpa, diretto da Jacques Tourneur - cosí come Anima e corpo, Forza bruta, Odio implacabile, Perfido inganno, Solo chi cade può risolgere, Morirai a mezzanotte, Il cerchio si chiude, Ho ritrovato la vita, Il bacio della morte, Una donna nel lago, La fiera delle illusioni, Anime in delirio, Trasportato per ferrovia, La fuga e Nessuno mi crederà. Eventi casuali, scollegati, li unisce solo il fatto di essersi verificati tutti nell'anno della tua nascita, il 1947.

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Pagina 62

Essere parte delle cose eppure non esserlo. Essere accettati da molti eppure venire guardati con sospetto da altri. Dopo aver assorbito da piccolo il racconto trionfale dell'eccezionalità americana, cominciasti a escluderti dalla storia, a capire che appartenevi a un altro mondo oltre a quello in cui vivevi, che il tuo passato aveva radici in un altrove di lontani insediamenti dell'Europa dell'Est, e che se i tuoi nonni paterni e i tuoi bisnonni materni non avessero avuto l'intelligenza di lasciare quella parte del mondo al momento giusto, quasi nessuno di voi sarebbe sopravvissuto, sareste stati ammazzati piú o meno tutti durante la guerra. La vita era precaria. Il terreno sotto i tuoi piedi poteva spalancarsi da un momento all'altro, e ora che la tua famiglia era approdata in America, era stata salvata dall'America, non per questo dovevi aspettarti che l'America ti facesse sentire benvenuto. Le tue simpatie si rivolsero ai reietti, ai disprezzati e agli offesi, agli indiani che erano stati cacciati dalle loro terre e massacrati, agli africani spediti qui in catene, e anche se non rinnegasti il tuo attaccamento nei confronti dell'America, non potevi rinnegarlo perché quello in fondo era ancora il tuo posto, il tuo paese, cominciasti a viverci con una nuova sensazione di sospetto e disagio. Nel tuo piccolo mondo non era facile prendere una posizione, ma facevi il possibile ogni volta che ne avevi l'opportunità, reagivi quando certi ragazzi piú grandi della tua città ti chiamavano ebreo ed ebreo di merda, e siccome a scuola ti rifiutavi di partecipare ai festeggiamenti natalizi, di cantare canzoni di Natale all'adunata annuale prima delle vacanze, i tuoi insegnanti ti permettevano di rimanere solo in aula quando il resto della classe si recava nell'auditorio per fare le prove insieme alle altre classi di coetanei. L'improvviso silenzio che ti circondava mentre sedevi al tuo banco, il clic della lancetta dei minuti del vecchio orologio meccanico con i numeri romani mentre leggevi Poe e Stevenson e Conan Doyle, un paria autodichiarato che si ostinava a tenere duro, ma orgoglioso, comunque orgoglioso nella tua ostinazione, nel tuo rifiuto di fingerti qualcuno che non eri.

Nella tua mente, tutto questo aveva poco o nulla a che vedere con la religione. Ti stavi schierando dalla parte dell'impotenza, sperando di trovare un po' di forza morale o intellettuale nell'ammissione della tua diversità, ma ebreo identificava una categoria di persone piuttosto che un sistema teologico, una storia di lotte e di emarginazione culminata nel disastro della Seconda guerra mondiale, e quella storia era la sola cosa che ti riguardasse. Quando avevi nove anni, però, i tuoi genitori cominciarono a frequentare una delle sinagoghe locali. Inutile dire che si trattava di una congregazione riformista, perché quel tipo di giudaismo semplificato, addolcito, serviva meglio gli interessi di persone come loro: quegli ebrei americani indifferenti, non religiosi, non praticanti, che cercavano di riaffermare il loro legame con le tradizioni dei loro predecessori. In poche parole - poche, ma senza dubbio vere -, il responsabile era Hitler. La rinascita di vita ebraica nell'America postbellica era il risultato diretto dei campi di sterminio, e il motore che spingeva persone come i tuoi genitori a parteciparvi era il senso di colpa, il timore che se ai loro figli non fosse stato insegnato a diventare ebrei, il concetto stesso di giudaismo in America sarebbe svanito nel nulla. Tuo padre non aveva studiato l'ebraico da ragazzo, non aveva conosciuto i rigori della preparazione per il Bar Mitzvah, e tua madre, che era figlia di un socialista, non aveva mai messo piede in una sinagoga, ma insieme complottarono per costringerti a fare qualcosa che loro stessi non avevano mai fatto, e cosí, lo stesso settembre in cui entrasti in quarta, entrasti anche nella scuola ebraica, il che significava andare in sinagoga a frequentare le lezioni ogni martedí e giovedí pomeriggio dalle quattro alle cinque e mezzo, e ogni sabato mattina dalle nove e mezzo a mezzogiorno. C'erano mille altre cose che avresti preferito fare, ma tre volte la settimana, per quattro lunghi anni, ti trascinasti con riluttanza fino a quella prigione di noia, odiando ogni momento della tua reclusione, imparando a poco a poco i rudimenti dell'ebraico, studiando le storie piú importanti del Vecchio Testamento, la maggior parte delle quali ti inorridí nel profondo, in particolare l'uccisione di Abele da parte di Caino (perché Dio aveva rifiutato le offerte di Caino?), Noè e il diluvio (perché Dio aveva voluto distruggere il mondo che Lui stesso aveva creato?), Abramo e il sacrificio di Isacco (quale Dio poteva chiedere a un uomo di uccidere il proprio figlio?), e il furto della progenitura perpetrato da Giacobbe nei confronti di Esaú (perché Dio aveva benedetto un imbroglione, un uomo senza coscienza?), tutte cose che confermarono la tua scarsa opinione di Dio, che ti appariva di volta in volta come uno psicopatico furioso e demente, un bambino petulante e un criminale assassino traboccante di collera - una figura perfino piú spaventosa e temibile del Dio delle tue prime fantasticherie. Come se non bastasse, eri finito in una classe composta esclusivamente da ragazzi, la maggior parte dei quali avevano ancora meno voglia di te di trovarsi lí e consideravano quell'insegnamento supplementare forzato un'ingiusta punizione per il mero peccato di essere vivi, quindici o venti bambini ebrei con l'argento vivo in corpo e un disprezzo ribelle per ogni parola pronunciata dal maestro, un vice rabbino dallo sfortunato cognome ittico, Fish, un tracagnotto con la faccia larga e la fronte alta, che passava la maggior parte del tempo in classe a schivare palline di carta masticata, a urlare ai ragazzi di fare silenzio, e a battere il pugno sulla cattedra. Povero rabbi Fish. Era stato gettato in una stanza con un branco di indiani selvaggi, e tre volte alla settimana ci rimetteva lo scalpo.

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Pagina 160

Ricordi il tuo secondo anno alla Columbia come un periodo di brutti sogni e grandi fatiche, contraddistinto dalla crescente persuasione che il mondo si stesse disintegrando davanti ai tuoi occhi. Non era solo la guerra in Vietnam, ormai talmente vasta e micidiale che in certi giorni era difficile pensare ad altro, erano anche la sporcizia e lo sfacelo nelle strade del tuo quartiere, le schiere di gente folle e scarmigliata che arrancava lungo i marciapiedi di Morningside Heights, e anche la droga, che stava rovinando le vite di tante persone vicinissime a te, prima di tutti il tuo ex compagno di stanza John S., poi un tuo amico del liceo morto per overdose di eroina, e ancora, subito dopo la fine del semestre primaverile, ci fu la guerra dei Sei giorni in Medio Oriente, che ti inquietò moltissimo, tanto che nella breve fase di incertezza su quello che sarebbe stato l'esito pensasti seriamente di arruolarti nell'esercito israeliano, perché a quell'epoca Israele non era un paese problematico, eri ancora convinto che fosse uno stato laico e socialista, che non avesse le mani sporche di sangue, e poi, qualche settimana piú tardi, i disordini a Newark, la tua città natale, la città in cui tuttora abitavano tua madre, tua sorella e il tuo patrigno, il deflagrare spontaneo di quel conflitto razziale tra popolazione nera e poliziotti bianchi che fece oltre venti vittime e piú di settecento feriti, e si concluse con l'arresto di millecinquecento persone, moltissimi edifici rasi al suolo dalle fiamme, e danni cosí gravi che persino oggi, a distanza di quarantacinque anni, Newark non si è ancora del tutto ripresa dalla furia autodistruttiva di quegli scontri. Sí, in quell'anno cosí difficile faticasti a reggerti in piedi, correvi sempre il rischio di perdere l'equilibrio, eppure andavi avanti, ti tenevi al passo con gli impegni scolastici e scrivevi il piú possibile. Gran parte dei testi che componevi finiva in nulla, ma non ogni parola, non ogni frase, e proprio nel 1967, per la prima volta, mettesti insieme alcune righe e frasi e paragrafi che hanno alla fine trovato una collocazione tra le tue opere pubblicate. Frammenti che inseristi nella tua prima raccolta di poesie, ad esempio (Unearth, terminata nel 1972), e il breve testo in prosa intitolato Appunti da un taccuino, che molto piú tardi avresti deciso di includere nella raccolta di poesie Affrontare la musica (Collected Poems, 2004), una serie di tredici proposizioni filosofiche la prima delle quali è: Il mondo è nella mia testa. Il mio corpo è nel mondo. Ancor oggi tieni fede a quel paradosso, a quel tentativo di catturare la strana duplicità dell'essere vivi, l'inesorabile unione di dentro e fuori che accompagna ogni nostro battito del cuore dalla nascita alla morte. 1966-67: un anno di molte letture, forse mai cosí tante in tutta la tua vita. Non solo poeti, ma anche filosofi. I settecenteschi Berkeley e Hume, per esempio, ma anche pensatori del ventesimo secolo come Wittgenstein e Merleau-Ponty. In quelle due frasi vedi la traccia di tutti e quattro, ma alla fine quella che acquistò maggiore significato, quella che ancor oggi significa di piú per te, fu la fenomenologia di Merleau-Ponty, la sua visione del sé incarnato.

Morivi dalla voglia di andartene. Terminato il semestre di primavera, l'ultimo posto al mondo in cui avresti voluto essere era la calda e maleodorante New York, e poiché avevi risparmiato un po' di soldi dal tuo stipendio di fattorino part-time alla Butler Library, avevi il necessario per scampare al lavoro estivo e partire per i fatti tuoi. Il Maine ti sembrava una meta allettante, perciò apristi una cartina e cercasti il luogo piú sperduto possibile, che si rivelò una cittadina di nome Dennysville, circa centotrenta chilometri a est di Bangor e cinquanta a ovest di Eastport (la città piú orientale degli Stati Uniti, situata su un'isola di fronte alla costa canadese). Scegliesti Dennysville perché avevi letto che il Dennys River Inn offriva una sistemazione dignitosa per soli sei dollari al giorno (tre pasti caldi inclusi), ed eccoti dunque in partenza, diciotto ore di pullman, e durante il tragitto e poi nella lunga attesa per una coincidenza a Bangor, divorasti parecchi libri, compreso America, l'ultima opera di Kafka che ancora non avevi letto, una compagnia ideale per il tuo viaggio nell'ignoto. Volevi isolarti il piú possibile, perché avevi cominciato a scrivere un romanzo, e credevi puerilmente (o romanticamente, o erroneamente) che per scrivere i romanzi si dovesse vivere come eremiti. Era il tuo primo tentativo di romanzo, il primo dei molti che avrebbero occupato la tua mente sino alla fine degli anni Sessanta e per buona parte del decennio successivo, ma naturalmente a vent'anni, o a ventuno, o a ventidue, non eri ancora capace di scrivere un romanzo, eri troppo giovane e inesperto, le tue idee erano ancora in evoluzione, dunque in costante mutamento, perciò i tuoi tentativi andarono a vuoto, una, due, cento volte, eppure oggi, quando ripensi a quei fallimenti non li consideri tempo sprecato, perché nelle centinaia di pagine accumulate in quegli anni, forse addirittura mille (tutte scritte a mano su vari taccuini, nella quasi illeggibile calligrafia della tua giovinezza), c'era il germe di tre romanzi che avresti portato a termine piú avanti (Città di vetro, Nel paese delle ultime cose e Moon Palace), e quando, poco piú che trentenne, sei tornato alla narrativa, hai ripreso quei vecchi taccuini e li hai saccheggiati, rubandone frasi e a volte interi paragrafi, che sono poi riaffiorati - anni dopo essere stati scritti - in quei romanzi di nuova produzione. Eccoti dunque nel giugno del 1967, in viaggio verso il Dennys River Inn di Dennysville, Maine, deciso a segregarti in una stanzetta in compagnia di Quinn, l'eroe del tuo libro, e in quella bella casa di legno bianco dove avresti vissuto per le tre settimane successive, la casa trasformata in locanda, non c'era nessuno a parte te e i proprietari, una coppia di pensionati sulla settantina originari di Springfield, Massachusetts, il signore e la signora Godfrey.

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Pagina 201

14 marzo. Penso che tu sopravvaluti il mio idealismo. In sostanza, mi sento come te: le differenze sono in primo luogo un prodotto delle circostanze. Qui a New York, America, è difficile pretendere di avere il mondo dentro di sé quando tutti gridano il loro odio, quando la guerra continua a espandersi a un ritmo folle, quando sul piano individuale le uniche alternative per il futuro sono la prigione o l'esilio. E l'orribile pazzia che mi circonda (una vera insania, te l'assicuro) - e che per forza di cose è anche dentro di me - a farmi disperare. Nonostante tutto, però, non smetto di pensare alla società come a un insieme di individui. Non ho mai smesso e non smetterò mai. Non credo nelle astrazioni. Sono loro a uccidere, a mutilare la mente...

La mia vita un groviglio. Disgusto verso gli studi. Nausea dei libri. Confusione mentale. Bisogno d'aria fresca. Spazio per chiarirmi le idee. Dissolutezza. Troppi alcolici. Qualche notte fa talmente sbronzo che mi sono addormentato a furia di vomitare. Ho mormorato, urlato, versato lacrime per Dio. Perché rifiuta di manifestarsi. Baggianate da beoni. A volte divento molto spiritoso. Ti piacerebbe. La linea di confine tra commedia e tragedia. Nausea mortale. Scrittura a un punto morto. Ancora fiducioso, però. In genere va bene. Nuova gioia nell'esplorare i volti. Vecchiette che si soffiano il naso. Osservo gli anziani. Oggi un cucciolo, un cagnolino, cosí morbido che l'avrei voluto per me. Caffettiere d'acciaio fumante. Scaracchi sui marciapiedi. Il buio delle strade di notte. Il buio dei sogni. Mescolarsi di voci nella folla. Frasi pronunciate da bocche diverse compongono sconnesse assurdità. Facce di studenti in aula. Una parola detta alla radio. La mia scrivania in disordine. Disgusto verso me stesso per aver saltato due settimane intere di lezioni. Il paradosso di essere entrato nella lista degli studenti migliori. Il forte desiderio di non leggere piú. Di smettere di ascoltare e cominciare a parlare... di ricongiungermi al silenzio soltanto da morto.

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