Copertina
Autore Paul Auster
Titolo Mr Vertigo
EdizioneEinaudi, Torino, 1999 [1995], Tascabili Letteratura 631 , Isbn 978-88-06-14097-7
OriginaleMr Vertigo [1994]
TraduttoreSusanna Basso
LettoreRenato di Stefano, 1999
Classe narrativa statunitense
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Pagina 5 [ inizio libro ]

Avevo dodici anni la prima volta che camminai sulle acque. A insegnarmi il trucco fu l'uomo vestito di nero e non sarebbe da me far finta di aver imparato nel giro di una notte. Maestro Yehudi, che mi aveva trovato quando di anni ne avevo solo nove, ero orfano e vagavo per le strade di Saint Louis mendicando spiccioli, mi aveva addestrato per tre anni di seguito prima di lasciarmi esibire i miei numeri in pubblico. Correva il 1927, l'anno di Baby Ruth e di Charles Lindbergh, proprio l'anno in cui la notte incominciò a calare sul mondo una volta per tutte. Tenni duro fino a pochi giorni prima del crollo d'ottobre, e quel che facevo era piú strabiliante di qualunque fantastica impresa dei due galantuomini appena nominati. Vale a dire, ciò che nessun americano aveva fatto prima e ciò che da allora piú nessuno ha fatto.

Maestro Yehudi scelse me perché ero il piú piccolo, il piú sozzo, l'ultimo dei miserabili. - Sei come una bestia, - disse, - uno scampolo di umana nullità -. Queste furono le prime parole che mi rivolse e sebbene siano passati ormai sessantotto anni da quella notte, mi sembra di sentirle uscire ancora dalla bocca del maestro. - Sei come una bestia. Se resti qui, non arriverai vivo a primavera. Se vieni con me, ti insegnerò a volare.

- Non ce n'è di gente che sa volare, capo, - dissi io. - Quella è roba da uccelli, e io a un uccello manco ci somiglio.

- Che ne sai? - disse Maestro Yehudi. - Tu non sai niente, perché non sei niente. Facciamo cosí, se per il tuo tredicesimo compleanno non sarò riuscito a farti volare, puoi mozzarmi la testa a colpi d'ascia. Te lo metto per scritto, se vuoi. Se non manterrò la promessa, potrai fare di me quel che ti pare.

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Pagina 68

[...] Erano doni generosi, ma ogni volta che aprivo un pacchetto, non mi usciva dalla bocca altro che qualche farfugliamento, dei grazie sommessi e quasi impercettibili. Perché ognuno di essi mi ricordava che si stava avvicinando per me il momento della verità, e mi succhiava perciò un sorso di linfa vitale in piú. Sprofondai nella poltrona e, arrivato a scartare l'ultimo regalo, avevo già deciso di annullare la dimostrazione. Non ero pronto, mi ripetevo, avevo ancora bisogno di parecchio allenamento e, una volta partito con questo genere di argomentazioni, non ebbi difficoltà a convincermi che non era il caso di provarci. Poi, proprio quando avevo stabilito di restare per sempre con il sedere incollato alla sedia, se ne arrivò Esopo bello come un cuore, e io mi sentii il soffitto crollare sulla testa.

- Ora tocca a Walt, - disse in assoluta innocenza, ritenendomi un uomo di parola. - Deve avere un asso nella manica, e non vedo l'ora che ce lo mostri.

- Esatto, - esclamò il maestro, accompagnando le parole con uno di quei suoi sguardi penetranti e sagaci. - Dobbiamo ancora sentire che ha da dirci il buon Mr Rawley.

Ero fottuto. Non avevo altri regali, e se avessi indugiato ancora, mi avrebbero riconosciuto per l'ingrato egoista che ero. Perciò mi alzai dalla sedia, tremando come una foglia e con la vocina querula di un sorcio di sagrestia dissi: - Ecco qua, signore e signori. Se non funzionerà, almeno non si potrà dire che non ci ho provato.

Mi stavano guardando tutti e quattro con tanta curiosità, con un tale rapimento stupefatto, che fui costretto a chiudere gli occhi per non vederli. Tirai un respiro lungo e profondo, espirai, allargai le braccia in quel modo un po' stanco che avevo messo a punto allenandomi per tante ore, e raggiunsi il mio solito stato di trance. Mi sollevai quasi immediatamente, staccandomi dal pavimento poco per volta e senza la minima difficoltà, e quando raggiunsi l'altezza di sei sette pollici, vale a dire il massimo di cui fossi capace in quei primi mesi, aprii gli occhi e osservai il mio pubblico. Per la gran meraviglia, Esopo e le due donne tenevano la bocca spalancata a formare tre piccoli cerchi identici. Il maestro invece sorrideva, magari con le lacrime che gli colavano giù per le guance, e mentre ancora libravo nell'aria accanto a lui, lo vidi portarsi una mano al collo e afferrare il laccio di cuoio che vi era appeso. Quando tornai a terra, lui si era sfilato il ciondolo dal collo e me lo stava porgendo con il braccio teso. Gli andai incontro, attraversando la stanza con lo sguardo fisso nel suo: non riuscivo a rivolgere gli occhi altrove. Arrivato davanti alla sedia di Maestro Yehudi, mi ripresi la mia falange, e caddi in gonocchio, nascondendogli in grembo la faccia. Restai cosí per quasi un nunuto e, quando finalmente trovai il coraggio di rialzarmi, scappai di corsa in cucina e poi fuori nell'aria freddissima, annaspando in cerca di ossigeno e di vita sotto quel cielo immenso di stelle invernali.

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Pagina 172

Il passaggio piú difficile era quello del salto dalla scala, e penso mi sia costato in allenamenti lo stesso tempo di tutti gli altri esercizi messi insieme. Il numero rispolverava trucchi con i quali mi sentivo ormai a mio agio. Gli scenari invisibili, le corse verticali, le acrobazie aeree, tutte cose che a quel punto non mi spaventavano piú. Ma il salto della scala era cosa nuova e venne a rappresentare il cardine stesso dello spettacolo. Potrà sembrare anche una sciocchezza paragonata a quelle trovate teatrali, come restare sospeso a soli tre pollici da terra per una frazione di secondo, ma la vera difficoltà consisteva nel cambiamento, in quel movimento fulmineo che doveva portarmi da una condizione all'altra. Da un continuo ruzzolare e sbandare sul palcoscenico, mi toccava passare d'un colpo al sollevamento, e il tutto doveva avvenire senza soluzione di continuità, il che significava inciamparsi, afferrare il piolo, e levitare al tempo stesso. Soltanto sei mesi prima, non ci avrei nenuneno provato, ma avevo fatto progressi nella riduzione dei tempi delle mie trance pre-levitazionali. Dai sei sette secondi degli inizi della carriera, mi ero portato a meno di uno, una fusione pressoché totale tra pensiero e atto. Restava però sempre da considerare che l'ascesa iniziava dalla posizione eretta. L'avevo fatto sempre cosí; era uno dei principi base della mia arte, e il solo fatto di concepire un mutamento tanto radicale, significava ripensare l'intero processo dall'inizio alla fine. Eppure lo feci. Sí, per Dio, ce l'ho fatta, e di tutte le mie imprese in veste di levitatore, è proprio di questa che vado piú fiero. Maestro Yehudi la battezzò il Salto Ubiquo, ed è pressappoco cosí che mi faceva sentire: la sensazione era quella di essere in piú di un posto contemporaneamente. Cadevo in avanti, puntavo i piedi a terra per un istante e battevo le ciglia. Il battito di ciglia era cruciale. Mi riportava alla mente il ricordo del mio stato di trance, e bastava l'allusione appena a quel vuoto eccitante a produrre in me la mutazione necessaria. Battevo le ciglia, alzavo un braccio, afferrando con la mano il piolo invisibile e incominciavo a salire. Non sarebbe stato possibile sostenere un numero cosí complesso per un tempo considerevole. Non poteva superare i tre quarti di secondo, ma non mi occorreva di piú e, una volta acquisita la tecnica, quello divenne il punto di svolta dell'intero spettacolo, l'asse intorno al quale tutto ruotava.

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Pagina 280 [ fine libro ]

Eppure, se ripenso alla mia atroce iniziazione a Cibola, non posso non domandarmi se i metodi del maestro non fossero troppo duri. La prima volta che mi sollevai da terra, non fu solo grazie a quello che lui mi aveva insegnato. Lo feci da solo sul pavimento freddo della cucina, e accadde dopo un lunghissimo accesso di pianto e disperazione, allorché l'anima incominciò a uscirmi dal corpo e io cessai di avere coscienza di me stesso. Forse la sola cosa che veramente contò fu proprio la disperazione. Se questo fosse vero, i tormenti corporali che lui mi inflisse erano solo una finta, un espediente per portarmi a capire che avevo una meta, mentre in effetti non avevo mai capito dov'ero fino al momento in cui mi trovai faccia a terra sul pavimento di quella cucina. E se non fosse questione di scalini? Se si dovesse scoprire che ci si arriva d'un colpo, con un solo balzo, la folgorazione di un istante che trasforma tutto? Maestro Yehudi era stato addestrato all'antica, e fu un mago nel farmi credere alle sue parole piene di abracadabra e di stravaganze. Ma se il suo non fosse poi l'unico modo? Se ci fosse una via piú diretta, piú semplice, un approccio che parta da dentro e scavalchi a piè pari lo stadio fisico? Come la metteremmo, allora?

In fondo, non credo che occorra un talento particolare per sollevarsi da terra e librarsi a mezz'aria. E' qualcosa che tutti abbiamo dentro, uomini, donne, bambini, e se uno ha voglia di metterci tanto lavoro e concentrazione, non c'è essere umano che non potrebbe ripetere le gesta che io ho compiuto nei panni di Walt il Bambino Prodigio. Basta smettere di essere se stessi. E' da lí che si comincia; tutto il resto viene di conseguenza. Bisogna lasciarsi svaporare. Eliminate ogni tensione muscolare, concentratevi sul respiro fino a sentire l'anima che esce dal corpo, e infine chiudete gli occhi. E' cosí che si fa. Il vuoto che vi si crea dentro il corpo si fa piú leggero dell'aria che vi circonda. A poco a poco, pesate meno di nulla. Chiudete gli occhi; allargate le braccia e lasciatevi svaporare. A quel punto, poco per volta, vi solleverete da terra.

Ecco, cosí.

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