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| << | < | > | >> |IndicePrefazioni 9 1. Verso l'incerta linea dell'orizzonte 13 La partenza 2. Una ricca eredità 37 La Rotta dei Tre Capi 3. Ogni barca ha una voce 49 Dal golfo di Guascogna alle Canarie 4. L'Atlantico a tutta birra 75 Dalle Canarie ai Quaranta Ruggenti 5. Città del Capo 91 Un timone che infrange il sogno 6. Sotto il segno dell'Indiano 101 Perdite d'albero e naufragi nell'oceano Indiano 7. La liturgia dell'Estremo Sud 119 Il passaggio dell'antimeridiano 8. Una solitudine condivisa 131 L'inizio dell'oceano Pacifico 9. La tempesta di una vita 143 In mezzo al Pacifico 1O. Capohornista per la terza volta 161 Il passaggio di capo Horn 11. Quando il mondo risorge 169 Ritorno in Atlantico 12. Eludere le accalmie 177 Sant'Elena 13. Cambio di emisfero, cambio di atmosfera 187 Pot au Noir e alisei 14. Ultimo giorno 199 Il ritorno 15. Un marinaio che torna... al punto di 209 partenza L'arrivo Appendici 217 Sulla sicurezza durante i giri del mondo 219 Ancora su alcuni giri del mondo 227 Classifica del Vendée Globe 1996-1997 239 Glossario 241 La passione, Isabelle 251 La mia barca di Isabelle Autissier 254 Pagine sui giri del mondo 257 Ringraziamenti 259 Referenze fotografiche delle tavole fuori 263 testo |
| << | < | > | >> |Pagina 15«SONO lì sul molo, il collo teso, gli sguardi convergenti, scrutano... cosa cercano? Un'espressione, un aggrottar di sopracciglia, un sorriso, una lacrima... Sono l'attore che entra in scena la sera della prima, il gladiatore quando si apre l'arena, l'extraterrestre che soltanto la commozione lega ancora al mondo degli umani. Già, la differenza ha insediato la solitudine. Sento, palpabili, le loro invidie, i loro desideri che sarà mio compito portare, come un gravoso e magnifico fardello. Oggi nasce questo invisibile legame, la connivenza tra questi curiosi anonimi e la mia storia personale; la connivenza del sogno, perché oggi io parto e loro restano.Queste occhiate mi pesano, anche se le capisco, cerco di immergermi nella routine dei preparativi di un'insignificante uscita in mare: manovelle di winch al loro posto, scotte sbrogliate, sartie controllate, ma questi piccoli gesti sembrano falsi, teatrali. Non vedo l'ora di lasciare il pontile. Faccio il giro delle barche altrui; abbracci, occhiate, battute falsamente allegre e inoffensive, gli occhi hanno un linguaggio che è smentito dal pudore delle parole. Insieme, partiamo per la linea incerta dell'orizzonte. Tra qualche settimana, fra questi volti ci saranno un vincitore e, forse, insopportabili assenze. Questa comune e fondamentale incertezza s'insinua nei saluti, l'angoscia degli altri ci rimanda a noi stessi... Torno a bordo. Ultimi regalini, ultime occhiate insicure, ultimi bisbigli. Lo strappo diventa intollerabile. 'Jean-Charles, Sergio, andiamo...' Sono sempre tra i primi a lasciare il pontile. Ho bisogno del mare, della calma, dell'intimità di coloro con i quali da mesi preparo questa barca. Sul molo, si urla, si applaude... Aspettate, forse tra qualche settimana applaudirete una barca che torna. Fino ad allora, niente è successo e tutto è possibile. I pochi bordi passano in fretta, i nostri commenti sono tecnici. Jean-Charles mi rammenta qualche regolazione dell'attrezzatura, pur sapendo benissimo che la conosco a memoria; rompo l'anima a Sergio perché mi ripeta qual è il posto di questo o quello strumento che per il momento non mi serve affatto; scegliamo insieme le vele per la partenza. Queste quisquilie ci riportano alle centinaia di ore di lavoro e di controlli minuziosi. In questo crocicchio di strade, e nonostante l'incertezza del futuro, siamo tutti e tre felici, semplicemente, di esserci. So che, per loro, cominciano la veglia e l'angoscia, accanto al fax e al telefono. Ancora qualche minuto e d'un tratto, imperiosamente, mi sento matura di solitudine, devono andarsene. 'Be', io vado...' Non occorre altro, anche loro hanno sentito: le tante giornate di lavoro fianco a fianco si cancellano in pochi secondi, Sergio gonfia lo zodiac, gli occhi sorridono. 'Stai attenta, divertiti...' 'Non preoccuparti.' Non esistono già più, macchiolina arancione ghermita dalla moltitudine delle barche spettatrici. Mi metto al timone, sia per tener d'occhio le orde dei più curiosi sia per sentire la mia barca, per entrare pian piano in solitudine con essa, avviare quel muto dialogo che un giorno ci aiuterà a tornare qui. Timonare mi tranquillizza, in fondo basta mettere un miglio dietro l'altro; non serve a niente, ora, anticipare le paure e l'avvenire. Tutto rientra nell'ordine: scegliere la mia zona di partenza, guardare il trascorrere dei secondi, sorvegliare i concorrenti, bordare un po' le vele e avvicinarmi a quella linea invisibile che fa di me una solitaria intorno al mondo...» | << | < | > | >> |Pagina 39«LA terra sprofonda lentamente all'orizzonte. Quando tornerà, avrò fatto il giro del mondo! Assaporo questa enormità a piccoli sorsi. Mi sento Vasco da Gama, Colombo e Magellano. Sono Chichester, Moitessier e Slocum tutti insieme. Ho l'orgoglio di essere tra coloro che torneranno al punto di partenza senza aver fatto dietrofront. Non c'è dubbio che la storia abbia modificato la percezione e l'uso che i terrestri fanno del mare. Esso non è più il principale mezzo di comunicazione tra i continenti, il campo del commercio e della guerra. In compenso, il mare ha assunto un'importanza senza pari nella nostra civiltà del piacere e nella nostra preoccupazione per l'ambiente. Storia e tecnica hanno modificato l'arte e i modi del navigare, ma, da secoli, il mare non è cambiato. Come la montagna, resta uguale a se stesso: impavido terreno di gioco. Anche i sentimenti dei marinai sono identici: quando i gabbieri delle antiche golette vedevano il cielo rosato di un'aurora o i delfini che giocavano a prua, erano felici, commossi, lo trovavano bello; quando si gelavano le mani sui cavi ghiacciati o sentivano l'approssimarsi del maltempo, difficoltà e angosce li assillavano al pari di noi. Siamo vicini a quei marinai costretti, oggi come ieri, a trovare finanziatori per la nostra comune sete di orizzonti, obbligati, come loro, a capire le astuzie del vento per condurre le nostre barche. Ci sentiamo vicini a quegli uomini di allora e siamo fieri di mettere le nostre prore sulle orme di quei signori. Durante il record New York-San Francisco, avevamo a bordo il rendiconto dell'avanzata giornaliera dei nostri predecessori. Le tracce del c1ipper Flying Cloud e il suo vertiginoso record del 1854 ci hanno incantato per tutto il viaggio. Eravamo, centocinquant'anni dopo, nella loro scia e, di ciò che avevano visto i loro occhi, niente era cambiato. Partendo dall'Europa a vela, oggi, in questo Vendée Globe che segue la Rotta dei Tre Capi, mi sento di nuovo erede delle ricchezze, degli eroismi, delle gioie e dei dolori di quei marinai di una volta che hanno popolato le mie letture.»| << | < | > | >> |Pagina 51«RESTA ancora un mazzo di fresie, i miei fiori preferiti, che profuma discretamente la cabina, giusto un mazzo per ricordarmi che c'è una terra, con uomini sopra che fanno spuntare i fiori, per donarli. Le rose, appese al balcone poppiero alla partenza, si son cotte in poche ore sotto il sale della prima tempesta. Un bel riscaldamento dei muscoli imposto dalla vecchia strega del golfo di Guascogna: 'Ah! si vuol fare il giro del mondo, e sola soletta, per giunta... Aspetta un po', cocca bella, mostrami prima quel che sai fare... Sì, va' a prendere i terzaroli e spaccati un po' quelle mani di signorina che firmava autografi...'In preda a un po' di nausea, mugugno. Manovrare, tuttavia, mi fa bene. Poco ci manca che apprezzi perfino gli spruzzi già gelidi di questo inizio di novembre. Ho voglia di timonare, per far sì che la regata mi s'insinui pian piano in testa, per valutare ciò che è stato fatto e quanto resta ancora da fare... Adesso, a me muovere, sola, per i cento giorni a venire. Timono per alcune ore, ipnotiche. Ascolto la barca che respira in mare e ho la sensazione di accordare il mio fiato con il suo, come musicisti prima dell'ouverture. Caffè, biscotti, un frutto. Non una vera fame, niente sonno. Sistemo i 'futuri regali natalizi' che, all'ultimo momento, hanno invaso la cuccetta. Tra due mesi è Natale. Ritrovo le mie marche, gli odori, il calore della tazza di tè, la stanchezza al fondo delle orbite e, già, l'angoscia della scelta della rotta... Virare subito? Aspettare un cambio più deciso di vento? Cosa fanno gli altri? S'insinua il buio, oscura camera di decompressione tra il pre e il post partenza. | << | < | > | >> |Pagina 89«Correre a 25 nodi sotto spi e giropilota cambia la natura delle emozioni. Siamo continuamente sull'orlo di una situazione in cui è indispensabile dominare il proprio equilibrio, lavorare di fino. Quando si naviga a 7 nodi su una barca a vela di dieci metri si hanno ancora i piedi posati sul cemento, anche se ciò non impedisce di provare piacere. Durante la mia prima traversata dell'Atlantico in solitario non ho incontrato grandi difficoltà, a dire il vero: sono partita dalle Antille, sono arrivata alle Azzorre, era bel tempo e avevo proceduto a 4 nodi di media. Non c'era, naturalmente, niente di straordinario e tuttavia per me era già una vittoria perché avevo dovuto imparare a barcamenarmi in una situazione sconosciuta. Quando cresce l'esperienza, diventa possibile portare barche a vela più veloci. Per serbare la stessa qualità delle emozioni - è un po' come una droga - diventa necessario aumentare la dose. Ma bisogna sempre restare lucidi per sapere fin dove ci si può spingere. Non sono una testa matta, non sempre coraggiosa, non sempre pronta ad affrontare qualsiasi situazione. Non sono né pavida né imprudente. Posso correre ma faccio comunque molta attenzione. E su una barca stabile e potente come PRB è ancora più indispensabile serbare delle spie d'allarme attive nella testa. Si tiene una mano di terzaroli nella randa e il fiocco da lavoro e ci si corica mormorando: 'E se gli altri intanto se la filano?' Ma si sa anche che l'essenziale è finire il giro. E per questo bisogna sapere a volte perdere qualche miglio per salvaguardare la barca e salvaguardarsi.»| << | < | > | >> |Pagina 121«LE giornate si susseguono, una più grigia, l'altra più chiara, una carica di vento di burrasca e l'altra di bonaccia. Le notti si susseguono, una fredda e chiara, l'altra buia e accompagnata da montagne di nuvole. C'è luna, poi la luna sparisce e tutto continua in quel capo del mondo, ancora e sempre come una storia infinita. A vivere qui, nel veder passare, immutabili, quelle depressioni che oscurano il cielo una dopo l'altra, come un moto perpetuo, si è colti da una specie di vertigine. Giorno dopo giorno, sull'acqua più verde o più grigia, la barca procede come su un mare sterminato. Questo Sud non ha limiti. Sola, a contrastare questa sensazione di eterno ritorno, la crocetta che si sposta sulla rotta e giorno dopo giorno mi dice che rosicchio longitudine e che, almeno sulla carta, questo universo ha dei confini. Per convincermene m'invento delle feste. Non Natale o Capodanno, ma feste di longitudini: quella di capo Leeuwin, uno dei tre famosi e l'ultimo prima di capo Horn; quella della Nuova Zelanda, ultima terra prima del Sudamerica. La più attesa è quella, mitica, del passaggio dell'antimeridiano, il benedetto 180, est od ovest, a piacere. A partire da lì ogni miglio, ogni ora mi avvicinano a Les Sables-d'Olonne. Finita la ricerca del nessun luogo, la fuga verso le longitudini crescenti, benvenuto il conto alla rovescia impaziente che mi riporterà a casa. Non ch'io stia male qui, ma non è il mio fine in questa corsa. Il mio fine è correre veloce e tornare il più presto possibile. Allora da un giorno all'altro, e da un'ora all'altra se sono impaziente, sorveglio con la coda dell'occhio il GPS che mi dà la posizione. Faccio calcoli inutili: allora, vediamo, ho fatto 9° di longitudine, oggi, dunque capo Horn è tra... Oppure, azzardo sciocche scommesse: to', vuoi vedere che passo i 160° di longitudine prima di mezzogiorno? Un modo come un altro per mettere dei 'paletti', dei punti di riferimento, a questo infinito perché, dopo giorni e settimane di mare, il pensiero dominante è che il mare è infinito, il cielo è infinito e io, piccola umana, navigo nel cuore di queste infinitudini. Eppure, al ritorno, il giorno in cui tutto questo avrà fine, sentirò che la terra è soltanto un pianetino.»| << | < | > | >> |Pagina 125«La notte finisce, gelida. Il vento del polo, che mi ha fatta rintanare all'interno, stamattina ha cacciato le nuvole. L'aria è più trasparente che mai, l'azzurro del cielo intenso, quasi liquido. Regnano la frescura, la luminosità tipiche del Sud. Il mare, blu-scuro, respira lentamente. Come spesso quando il vento fa il bravo, gli albatri vanno vagando numerosi nella scia netta e pacifica. Ho messo in sordina i valzer di Brahms per accompagnare il loro lento balletto con l'onda.Un 'giorno' non fa primavera: il Sud ritrae gli artigli e la solitudine è dolce. Tenero, resta nonostante tutto possente e presente e dà ancora una grandezza, quasi una teatralità, a questo tempo da signorine. In coperta, approfittando di quel sole crudo, mi gusto la tregua. D'un tratto la sensazione d'isolamento, di lontananza non è più un cruccio ma una gioia. Questo balletto di uccelli, questa luce dolce, questo mare tranquillo sono per me sola. Lusso dei lussi... quest'armonia effimera è forse, oggi, concessa a me soltanto. Resto con le braccia ciondoloni, dimentica della gara, contemplativa. Nel pomeriggio il cielo si riga di cifri netti e scintillanti, il mare si anima, la barca riprende a borbottare sempre più forte, la tregua è finita. Ritrovo, già con piacere, la barca viva, la scia che ricomincia a ribollire e la sensazione di divorare le miglia. Per il momento le onde si limitano a giocare, sono schiette e inoffensive. Mi metto al timone soltanto per il piacere, per cercare di tenere la barca sull'onda nel modo più preciso possibile, per assaporare al massimo queste ore di tregua che stanno per finire.» | << | < | > | >> |Pagina 171IN quel punto del mondo, dopo le Falkland, quando capo Horn è già lontano alle spalle, Bernard Moitessier aveva preso, non ancora trentenne, la decisione di abbandonare il Golden Globe. L'idea di non ritornare alla nostra civiltà - quel «Mostro» tante volte denunciato sulle pagine della Lunga strada -, lo assillava da settimane. Una volta uscito dai mari del Sud, il soffio familiare dell'Atlantico l'aveva costretto a tagliare la testa al toro. Allora Bernard aveva azionato la barra del suo Joshua e, mettendo la prua a levante verso Buona Speranza, era entrato nella leggenda. Il ritorno in Atlantico dopo l'esilio volontario nell'Estremo Sud segna difatti il ritorno al mondo, il nostro...«Ho tanto bisogno della terra e dei suoi esseri umani... non foss'altro che per dare una meta alla mia barca, perché devo dirigerla verso un porto e verso degli uomini. Il mare, la terra, loro si fanno un baffo delle mie voglie e dei miei desideri. Loro non hanno aspettato me per dipanare la loro storia. Cosa saranno mai questi pazzi naviganti che giocano a inseguirsi da un oceano all'altro, e a cosa servono? Non mi sento nella pelle della misantropa inutile. Non mi rifugio, in regata, lontano dalla società. Dalla mia coperta deserta, mi sento legata più che mai al mio mondo, alla sua vita economica, sociale, culturale. I marinai scopritori del XVII secolo facevano sponsorizzare le loro navi da ricchi mercanti in cerca di nuovi sbocchi commerciali; su queste stesse rotte noi portiamo i colori di aziende che convertono la nostra notorietà in sviluppo economico. I marinai di una volta concorrevano alla spartizione del mondo, erano i cantori della civiltà bianca e dei suoi valori; le nostre avventure affascinano anche perché sollecitano un ritorno ai sentimenti di natura, di semplicità, di solidarietà e d'impegno individuale. Così, sola in capo al pianeta, eccomi attrice, come tutti, del mondo quale esso è. Tanto meglio, lo rivendico, spero vivendo così di portare la mia pietruzza colorata in queste società spesso grigie e nere. Da lontano, ascolto il rumore dell'umanità e me ne sento beneficiaria. Un occhio alla bussola, l'altro sull'onda che corre, in questo bel pomeriggio del Pacifico timono ascoltando Radio France International. A parte la rassegna degli avvenimenti che chiedo ogni settimana al mio PC a terra, poche informazioni filtrano sino alla mia tana. Il mare è di un bel blu metallico, la barca scavalca le onde canticchiando e il sole mi scalda piacevolmente le gambe; poco fa ho chiacchierato in Standard C con Christophe, poi con Catherine, come se fossimo nel bar all'angolo. Il mondo è bello e fraterno. La radio mi sussurra sommessamente che 50 abitanti di un villaggio algerino sono stati sgozzati e che si è più o meno rinunciato a occuparsi dei 250.000 hutu che agonizzano in una foresta africana. Il mio mondo di colpo vacilla. Com'è possibile che coesista tutto questo, come possono esserci, da una parte, la dolcezza e l'armonia e, dall'altra, il puro orrore? È il fatto di non essere subissata di notizie futili, sovraccaricata d'informazioni, a rendere così importante il poco che mi arriva? Il mio mondo è pazzo o mi sono semplicemente disabituata alla barbarie? È il fatto di vivere nel bello che rende più acuto l'orrore, seppur quotidiano? Io qui, loro là. Non basta dire che sono fortunata. Certo, commisuro la mia differenza di condizione con la donna afgana che sarei potuta essere; so che, vivendo in una famiglia felice, ho ricevuto le basi di uno sviluppo personale ideale. Sì, mi sento privilegiata in quello che vivo e in quello che sono. Con un'altra origine, non avrei sicuramente potuto accedere a questa condizione di solitaria d'altura. Tante e pochissime cose al tempo stesso mi separano da coloro che muoiono sconosciuti sulla riva. A volte trovo indecente parlare delle sofferenze e delle difficoltà del marinaio solitario quando altri agonizzano in prigioni buie per questioni etniche, di idee o di colore della pelle. Per noi, di qui a poco sotto le luci della ribalta, le difficoltà cesseranno, ci festeggeranno come eroi quando altri moriranno anonimi, assassinati per il solo fatto di aver voluto vivere. Un giorno, il mare, che aveva un po' d'appetito, ha cercato d'inghiottirmi con un'onda rabbiosa. Degli uomini, lontanissimi, sconosciuti, australiani, sono arrivati alla riscossa per togliermi dai pasticci, con quel coraggio naturale di cui è capace un salvatore. Ascoltando quelle notizie terrificanti alla radio, in quella bella giornata, mi sono scoperta ad augurarmi che un decimo della solidarietà della gente di mare possa un giorno estendersi alla nostra buona vecchia terra.» | << | < | > | >> |Pagina 189«LE gioie non vengono mai sole, la sera che scende porta una parvenza di frescura e un miglior orientamento dei venti. Come i nonnetti prendono il fresco nel Sud portandosi fuori la sedia, mi metto in un angolo del pozzetto per guardare il sole che tramonta con la rapidità tipica dei tropici. So che devo addormentarmi presto perché la seconda metà della notte sarà dedicata a sorvegliare i groppi in formazione, a guardar scarrocciare lentamente quelle grandi masse scure, grevi di pioggia, che sprigionano l'odore scipito dell'acqua dolce.Ancora insonnolita, dovrò impegnarmi nel gioco delicato di valutarne la traiettoria, evitare le raffiche improvvise che possono coricare la barca, forse prendere una mano di terzaroli, forse due, ma il più tardi possibile per non rallentare troppo... Gioco delicato in cui si può rischiare di perdere l'albero se il groppo è davvero violento. Per il momento, stasera, guardando il buio che pervade il mare, è l'ora del bilancio quotidiano, in cui si consulta la carta come un trastullo, per scoprire città dai nomi esotici, Caravelas... Ilhéus... Aracaju... di cui s'incrocia la latitudine. Immagino questo stesso tramonto là, vicinissimo, in terra brasiliana, i venditori ambulanti che ripongono gli oggetti, gli stadi di calcio che si illuminano, i bar che si affollano, la vita, lì accanto, che ignora il mio passaggio solitario al largo. Ricordo il carnevale di Salvador de Bahia, la folla, la danza, i trios eléctricos la cui musica assordante fa vibrare la pelle, la cachaça... sei giorni e sei notti, e la follia che s'impossessa di tutti... Esiste davvero tutto questo? Come crederei, qui, in questo grande deserto d'acqua di cui non si vede la fine? Il tramonto porta una parvenza di frescura perché, naturalmente, la temperatura è cresciuta terribilmente con la latitudine, al punto che adesso mi nascondo dal sole, cerco i punti freschi nel mio covo asfittico per rifugiarmi infine stesa contro lo scafo. Lì, il fresco relativo dell'acqua - che comunque è a 29° - è piacevole e io sento di far corpo con la barca, di cui avverto le minime tensioni, i sussulti, i colpi delle onde direttamente. L'orecchio contro il carbonio, la qualità dello squittio dell'acqua m'informa con precisione sulla velocità. Dopo tutto, dal momento che le tempeste del Sud mi hanno privata di tutti i mezzi sofisticati di navigazione, e che sono ridotta a una fettuccia nelle sartie per stabilire la direzione del vento, tanto vale inventarsi altri punti di riferimento, quelli forniti dall'occhio, dall'orecchio, dalla sensibilità... i buoni vecchi metodi, insomma.
Per giunta devo percorrere ancora 4000 miglia.
Sono tante, 4000 miglia, ma ne ho già fatte 17.000. Adesso comincio a tenere il
conto in giorni e non più in settimane, mi resta da varcare soltanto la barriera
simbolica dell'Equatore... e dopo... Les Sables... e dopo... poco importa, per
il momento. Devo finire, ma senza perdere la concentrazione: non si è forse
visto, nel precedente Vendée Globe, Philippe Poupon disalberare tre giorni prima
dell'arrivo, V.D.H. arrivare con la barca che si delaminava e tonnellate d'acqua
nella cala delle vele? È nel momento in cui la stanchezza si fa sentire, in cui
si accumulano le brutte nottate, in cui anche la barca fa fatica e lo dice
attraverso mille piccoli sintomi non gravi ma che sono altrettanti campanelli
d'allarme, è in questo momento, sì, che l'impazienza è maggiore, che si vorrebbe
essere già a domani... e più in fretta... tentazione di togliere i terzaroli...
di aumentare un po' la velatura... di lanciare la barca contro il mare per
guadagnare leggermente controvento... è allora che bisogna tener duro. Non
lasciarsi vincere dalla voglia incontenibile di andare più veloci, è allora che
non bisogna pensare troppo a coloro che, sul molo di Les Sables, ci apriranno le
braccia. No, bisogna vivere nell'attimo, nella routine quotidiana: qui sta il
fascino, ciò che fa di questa gara qualcosa di unico nel suo genere... Una
competizione sportiva di 100 giorni... 2400 ore... 144.000 minuti...
8.640.000 secondi.»
L'Equatore che PRB si accinge a varcare ha un posto a sé nelle linee
invisibili che reticolano il pianeta. L'ossessione degli scopritori europei di
cadere nel vuoto una volta raggiunti gli antipodi è finita da un pezzo nello
scaffale delle chimere: la terra è rotonda ma non ha né dritto né rovescio.
Quantunque... Difficile per un «nordista» che torna dall'emisfero meridionale e
rivede l'acqua versarsi nel senso delle lancette dell'orologio non pensare
istintivamente che il suo mondo gira di nuovo nel senso giusto... Lo stesso è
per il marinaio che ritrova nell'avvicendarsi dei fenomeni meteorologici,
depressioni o anticicloni, un senso più abituale. Varcare «la linea», ripassare
dal sud al nord è dunque un po' come cambiare mondo e punti di riferimento.
Quando sullo schermo del GPS lampeggia, accanto al grado di latitudine, la
lettera N anziché la S, il momento non è soltanto simbolico ed emozionante ma
anche concreto. Tutte cose che fanno del passaggio dell'Equatore, al di là dei
riti tradizionali, un momento importante nella vita di un marinaio. Come
all'andatà, Isabelle non mancherà, del resto, di festeggiare l'avvenimento.
Stavolta, però, niente champagne per Nettuno o fiori per Yemanja. L'opulenza dei
primi giorni di gara è lontana: gli dèi si accontenteranno di dividere con la
solitaria un po' di sciroppo di menta. Peccato, l'oca in scatola tenuta in serbo
per l'occasione avrebbe meritato uno di quei Borgogna numerati e datati che
Isabelle predilige. Cosa importa, il conto alla rovescia è cominciato. Fra venti
giorni Isabelle non dovrà più privarsi di niente.
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