Copertina
Autore Silvia Avallone
Titolo Acciaio
EdizioneRizzoli, Milano, 2010, La scala , pag. 364, cop.ril., dim. 14,5x22,4x3,3 cm , Isbn 978-88-17-03763-1
LettoreAngela Razzini, 2010
Classe narrativa italiana
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Pagina 9

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Nel cerchio sfocato della lente la figura si muoveva appena, senza testa.

Uno spicchio di pelle zoomata in controluce.

Quel corpo da un anno all'altro era cambiato, piano, sotto i vestiti. E adesso nel binocolo, nell'estate, esplodeva.

L'occhio da lontano brucava i particolari: il laccio del costume, del pezzo di sotto, un filamento di alghe sul fianco. I muscoli tesi sopra il ginocchio, la curva del polpaccio, la caviglia sporca di sabbia. L'occhio ingrandiva e arrossiva a forza di scavare nella lente.

Il corpo adolescente balzò fuori dal campo e si gettò in acqua.

Un istante dopo, riposizionato l'obiettivo, calibrato il fuoco, ricomparve munito di una splendida chioma bionda. E una risata così violenta che anche da quella distanza, anche soltanto guardandola, ti scuoteva. Sembrava di entrarci davvero, tra i denti bianchi. E le fossette sulle guance, e la fossa tra le scapole, e quella dell'ombelico, e tutto il resto.

Lei giocava come una della sua età, non sospettava di essere osservata. Spalancava la bocca. Cosa starà dicendo? E a chi? Si iniettava dentro un'onda, riemergeva dall'acqua con il triangolo del reggiseno in disordine. Una puntura di zanzara sulla spalla. La pupilla dell'uomo si restringeva, si dilatava come sotto l'effetto di stupefacenti.

Enrico guardava sua figlia, era più forte di lui. Spiava Francesca dal balcone, dopo pranzo, quando non era di turno alla Lucchini. La seguiva, se la studiava attraverso le lenti del binocolo da pesca. Francesca sgambettava sul bagnasciuga con la sua amica Anna, si rincorrevano, si toccavano, si tiravano i capelli, e lui lassù, fisso con il sigaro in mano, sudava. Lui gigantesco, con la canotta fradicia, l'occhio sbarrato, impegnato nella calura pazzesca.

La controllava, così almeno diceva, da quando aveva cominciato ad andare al mare con certi ragazzi più grandi, certi elementi che gli ispiravano nessuna fiducia. Che fumavano, che di sicuro si facevano anche le canne. E quando lo diceva alla moglie, di quegli sbandati che frequentava sua figlia, gridava come un ossesso. Si fanno le canne, si fanno di coca, spacciano le pasticche, quelli là si vogliono scopare mia figlia! Quest'ultima cosa non la diceva esplicitamente. Tirava un pugno sul tavolo o nel muro.

Ma forse aveva preso l'abitudine di spiare Francesca da prima: da quando il corpo della sua bambina si era come desquamato e aveva assunto gradualmente una pelle e un odore preciso, nuovo, forse, primitivo. Aveva, la piccola Francesca, cacciato fuori un culo e un paio di tette irriverenti. Le ossa del bacino si erano arcuate, formando uno scivolo tra il busto e l'addome. E lui era il padre.

In quel momento osservava sua figlia dimenarsi dentro il binocolo, slanciarsi con tutta se stessa in avanti per acchiappare una palla. I capelli zuppi aderivano alla schiena e ai fianchi, alla distesa della pelle intarsiata di sale.

Gli adolescenti giocavano a pallavolo in cerchio, intorno a lei. Francesca slanciata e in movimento, in un unico clamore di grida e schizzi dove l'acqua era bassa. Ma Enrico non si occupava del gioco. Enrico stava pensando al costume di sua figlia: Cristo, si vede tutto. Costumi del genere andrebbero proibiti. E se solo uno di quei bastardi fottuti si azzarda a toccarla, scendo in spiaggia con un randello.

«Ma cosa fai?»

Enrico si voltò verso la moglie che lo stava osservando in piedi, al centro della cucina, con un'espressione avvilita. Perché Rosa avviliva, rinsecchiva, a vedere suo marito alle tre del pomeriggio con il binocolo in mano.

«Controllo mia figlia, se permetti.»

Sostenere gli occhi di quella donna a volte non era facile neppure per lui. C'era un'accusa costante, conficcata dentro le pupille di sua moglie.

Enrico increspò la fronte, deglutì: «Mi sembra il minimo...».

«Sei ridicolo» sibilò lei.

Lui guardò Rosa come si guarda una cosa fastidiosa, che fa imbestialire e basta.

«Ti sembra ridicolo tenere d'occhio mia figlia, coi tempi che corrono? Non lo vedi con che gente va al mare? Chi sono quei tipi là, eh?»

A quell'uomo, quando dava in escandescenze — e succedeva molto spesso — gli si congestionava la faccia, si gonfiavano le vene del collo in un modo che faceva paura.

Quando aveva vent'anni, prima che si lasciasse crescere la barba e mettesse su tutti quei chili, non ce l'aveva la rabbia. Era un bel ragazzo appena assunto alla Lucchini, che fin da bambino si era scolpito i muscoli a forza di zappare la terra. Si era fatto un gigante nei campi di pomodori, e poi spalando carbon coke. Un uomo qualunque, emigrato dalla campagna in città con uno zaino in spalla.

«Non ti rendi conto di quello che combina, alla sua età... E come cazzo va in giro conciata!»

Poi, negli anni, era cambiato. Giorno dopo giorno, senza che nessuno se ne accorgesse. Quel gigante che non aveva mai varcato i confini della Val di Cornia, che non aveva mai visto nessun altro straccio d'Italia, si era come congelato dentro.

«Rispondi! Lo vedi come cazzo va in giro tua figlia?»

Rosa si limitò a stringere più forte lo strofinaccio con cui aveva appena asciugato i piatti. Rosa aveva trentatré anni, le mani piene di calli, e dal giorno del suo matrimonio si era lasciata andare. La sua bellezza di ragazza meridionale era finita in mezzo ai detersivi, nel perimetro di quel pavimento lavato tutti i giorni da dieci anni.

Il suo silenzio era duro. Uno di quei silenzi fermi, d'attacco.

«Chi sono quei ragazzi, eh? Li conosci?»

«Sono dei bravi ragazzi...»

«Ah, allora li conosci! E perché non mi dici niente? Perché in questa casa non mi si dice mai niente, eh? Francesca con te parla, vero? Si, con te sta ore e ore a parlare...»

Rosa gettò lo strofinaccio sul tavolo.

«Chiediti il motivo» soffiò, «perché con te non parla.»

Ma lui non la stava già più a sentire.

«A me non viene detto niente! A me non mi si dice mai niente, maremma cane!»

Rosa si chinò sulla bacinella con l'acqua sporca. Alcune sue coetanee, d'estate, andavano ancora in discoteca. Lei non ci era mai stata.

«E cosa sono, io? Scemo? Ti sembro scemo? Che va in giro come una puttana! E tu come la cresci, eh? Brava! Ma io un giorno o l'altro...»

Sollevò la bacinella e la vuotò nell'acquaio del balcone, gli occhi fissi sui grumi neri nel vortice dello scarico. Avrebbe voluto vederlo morire, stramazzare al suolo agonizzante.

«Vi mando in culo io, a te e a lei! Lavoro per cosa? Per te? Per quella puttana?»

E passargli sopra con l'auto, triturarlo sull'asfalto, ridurlo a una poltiglia, al verme che era.

Anche Francesca avrebbe capito. Ammazzarlo. Se non lo avessi amato, se mi fossi cercata un lavoro, se dieci anni fa fossi uscita di qui.

Enrico le voltò le spalle e protese il corpo gigantesco dalla balaustra, nel sole che alle tre del pomeriggio pesa come l'acciaio e calpesta tutto. La spiaggia, dall'altra parte della strada, si affollava di ombrelloni e di grida. Un carnaio, pensò. E riaccese il mozzicone di toscano che teneva fra le dita. Dita tozze, rosse e callose. Le dita di un operaio che non usa i guanti, neppure quando deve misurare la temperatura della ghisa.

Da una parte c'era il mare, invaso di adolescenti in quell'ora bestiale. Dall'altra il muso piatto dei casermoni popolari. E tutte le serrande abbassate lungo la strada deserta. I motorini allineati sui marciapiedi erano parcheggiati di traverso, ciascuno con il suo adesivo, con la sua scritta di Uniposca: "France ti amo".

Il mare e i muri di quei casermoni, sotto il sole rovente del mese di giugno, sembravano la vita e la morte che si urlano contro. Non c'era niente da fare: via Stalingrado, per chi non ci viveva, vista da fuori, era desolante. Di più: era la miseria.

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Padre e figlia, immobili, continuavano a guardarsi la punta delle scarpe.

«Per forza. Le italiane vogliono esse' portate a cena, al cinema, ma poi in casa non ti ci vengono mica, non te li lavano mica i calzini.»

«C'è da dire che le russe bevono, bevono parecchio...»

«Ma c'hanno i culi sodi!»

«E non rompono i coglioni.»

«E ti fanno pure il bisse, e il trisse... Le ucraine.»

Enrico non ascoltava. Stava ripassando maniacalmente le tre frasi da dire al dottore, le stava architettando, limando, riprovando fino all'ossessione. Francesca, invece, ascoltava. Fissava un punto in mezzo al niente con gli occhi sbarrati, ma ci sentiva bene. E provava un senso di vomito, fisico, lancinante, all'idea che uno di quei vecchi lì, con le camicie sudicie e gli aloni sotto le ascelle, potesse montare una ragazzina immigrata da chissà quale miseria.

«Le russe son discrete. A Piombino ce n'è a sfare.»

Quando era entrata, l'avevano squadrata tutti. Poi era entrato suo padre e avevano tutti distolto lo sguardo.

«Ragazzi, qui c'è da metter via i soldi! Che la pensione mica ci basta. E c'hai da pagarla, da farle i gioielli, i vestiti, le scarpe...»

«Per ora, spero tiri avanti la mi' moglie.»

Francesca non era né lì né altrove. Sfogliava distrattamente vecchi numeri di "Novella 2000". Si soffermava sulle foto, quelle che ritraevano le veline a Formentera, ragazze seminude con la messa in piega, in posa nei locali chic di Milano, davanti alle vetrine scintillanti di New York...

Ma lei non ce l'avrebbe mai fatta a fuggire. Gliel'avrebbe impedito lui, l'avrebbe cercata ovunque. A diciott'anni, forse. Sì, a diciott'anni avrebbe potuto partecipare a Miss Italia, essere notata da qualcuno, e andare via. Con Anna. Ma adesso? Non riusciva a sognare, non ne aveva la forza. Anzi, adesso aveva solo un desiderio: la morte di suo padre. La morte dei vecchi schifosi che le stavano davanti, che puzzavano e pretendevano una donna per farsi fare il bidet, una ragazzina ucraina portata via da casa sua.

Era sicura: non si sarebbe mai sposata. Le facevano schifo, gli uomini. Ecco, questo riusciva a pensarlo distintamente: che gli uomini le facevano schifo, che da nessuno si sarebbe lasciata toccare, mai in tutta la sua vita. Sarebbe partita, un giorno, con Anna. Loro due e basta, per sempre.

Enrico adesso aveva smesso di pensare. Aveva imparato le tre frasi a memoria, e si sentiva a posto. Lo sguardo bovino. Lui si incastrava le cose nel cervello come si incastrano le fasi del ciclo di produzione, la temperatura dell'acciaio, i tempi di raffreddamento, il rullo che pialla, la rotaia che esce. Come le fasi della pesca: montare la canna, avvolgere il mulinello, legare l'amo, infilarci il verme.

Il binocolo.

Sua figlia.

Che non deve diventare una puttana. Che oggi pomeriggio ha afferrato un coltello da cucina, di quelli grandi da carne, e si è tranciata un polso davanti ai suoi occhi.

Bisognerà dire che è caduta sul filo di ferro.

Il metallo era pulito: non può farle infezione. Il taglio è profondo, ha perso molto sangue, ma le vene sono illese. Questo è l'importante.

I vecchietti si erano chetati. Uno dopo l'altro erano entrati a farsi prescrivere i medicinali che dovevano assumere ogni giorno. La pastiglia per il cuore, quella per la pressione, quella per tenere la glicemia sotto controllo. Uscendo, ciascuno aveva salutato piano, con un filo di voce, stringendo nella mano malferma la ricetta. Quel corpo, lo sapevano anche loro, non funzionava più bene, faceva acqua da tutte le parti. E non valeva l'illusione di una donna ucraina a rimettere a posto le cose: era già tanto poter camminare senza dolori fino alla farmacia.

Francesca: l'unica cosa bella che aveva fatto nella sua vita. Ne ricordava ogni minuto, da che era nata. La prima volta in cui balbettò "papà". Quando vinse la gara di nuoto della scuola. Il visino impossibile da dire, grande come un pugno di riso, appena affacciato dall'incubatrice. Ma aveva le mani troppo grosse, troppo dure, e non riusciva a maneggiarla con cura.

Quando fu il loro turno, si alzarono in perfetta sincronia ed entrarono insieme, senza indugi. Il medico gli sorrise. Enrico sorrise a sua volta. Francesca non mosse le labbra. Fissò l'uomo con due occhi che dicevano soltanto: cucimi. Poi Enrico cominciò a spiegare, a modo suo, come poteva. Era un rozzo, e aveva timore dei dottori. Ma sapeva come convincere, all'occorrenza, con i gesti delle mani.

Il medico intese, non fece domande. Prese il polso di Francesca, tolse il cotone marcio di sangue, passò l'alcol. Cominciò a suturarle un lembo di pelle con un grosso ago di metallo.

Francesca lo osservava, senza espressione, riunire pelle e pelle. Senza interesse, la sua carne aperta, il sangue che andava tamponato in continuazione. Immobile nel silenzio irreale, si lasciava ricucire, buona buona, nell'ambulatorio del dottor Satta.

«Non è il caso che la visiti, dottore. Non ce n'è bisogno.»

Il medico intese, non fece domande. Non era la prima ragazza con i lividi addosso che gli capitava. Non gli piaceva portare alla luce ematomi. Non voleva confondersi con quella gente. Si sa, sono animali. E lui era solo un medico di base, non un assistente sociale, non un poliziotto. Tanto, non sarebbe cambiato niente lo stesso.

«Tra una settimana togliamo i punti, va bene signorina?»

Francesca annuì, impassibile.

Quando uscirono, una nube di monossido di carbonio venne espulsa dalla ciminiera più alta della fabbrica. Restò così, ferma nel cielo limpido. Poi il vento dall'altra parte del promontorio soffiò forte e ripulì il cielo.

Niente era accaduto.

Dal finestrino dell'auto, scendendo giù dalla panoramica e poi sul lungomare Marconi, Francesca guardava l'isola brillare. Così vicina, eppure irraggiungibile. Basta un traghetto, eppure non ci sono mai andata, non l'ho mai vista. Soltanto quattro chilometri. Con Anna, li possiamo fare a nuoto.

Enrico guidava sereno, rispettando i limiti di velocità e le leggi della strada. Se c'era scritto cinquanta, lui faceva cinquanta, se c'era scritto trenta, lui faceva trenta. E poi aveva questo dono: dimenticare di cosa fossero capaci le sue mani. Non pensare mai alle cose complesse, pensare a una cosa sola, separatamente, senza legarla nel tempo e nello spazio alle altre.

La luce cominciava a reclinare. E i paesini dell'Elba diventavano tanti piccoli presepi che, visti da lontano, non sembravano di questo mondo.

Oggi mi sono ribellata. Oggi, per la prima volta. Come dice Anna: tu ti devi ribellare, glielo devi far capire che non sei un oggetto di sua proprietà, che sei una persona. Anna le sa usare bene le parole. Ribellione. Oggetto di proprietà. Persona. Ma io non le so usare, le parole. Io mi volevo ammazzare. Col cazzo: volevo ammazzare lui. E cosa è successo? Niente. Siamo vivi entrambi. Adesso entriamo in garage, lui parcheggia l'auto, sbattiamo le portiere. Anna, perché non sei qui con me? Perché non andiamo via insieme? Adesso lui chiude a chiave il garage, non ci guardiamo, saliamo le scale in silenzio, salutiamo la mamma e ci sediamo a tavola per la cena.

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L'altro si chetò. Conosceva il suo amico, sapeva che con quel tono di voce non era il caso di insistere. Estrasse dalla tasca una dose, staccò dal vetro lo specchietto retrovisore e cominciò le operazioni rituali del sabato sera in silenzio religioso.

Alessio non lo degnava di uno sguardo. Era affondato nel sedile e aveva preso a fissare il mare artificiale di luci e fuochi viola attraverso il parabrezza. Di notte, vista dall'alto, la fabbrica era un'altra cosa. E lui adesso ci precipitava dentro con lo sguardo, indifferente e muto. Era stanco, e anche incazzato.

Cristiano si chinò sullo specchio con una banconota da dieci arrotolata nel naso. Prima di tirare realizzò che aveva investito tutto il suo stipendio di maggio in cocaina, ma questa volta gli sarebbe andata bene: doveva andargli bene, per forza. Era stato un azzardo, è vero, un grosso azzardo. Ma era talmente buona che almeno seicentomila lire di cresta ce le avrebbe fatte.

Aveva un terribile bisogno di musica adesso, Cristiano, a palla nelle orecchie, nella testa. Ma non osò chiederlo ad Alessio. Quando sollevò la testa e tirò di nuovo su con il naso, vide con la coda dell'occhio il suo amico pietrificato, con gli occhi sbarrati e fissi su un punto astratto. Quel punto, in realtà, era la torre dell'altoforno.

Alessio non si era voltato, non era scattato, famelico, sulla sua striscia di coca. Se ne stava là, assente, senza muovere un muscolo. Di sicuro gli era successo qualcosa. Di sicuro era molto incazzato. Ma sarebbe stato assurdo chiedergli cosa c'è.

Non era il tipo da confidenze.

Cristiano gli passò lo specchietto, lui lo afferrò, ma non si mosse.


È pieno di gatti. A questo pensava Alessio.

Nessuno fuori lo sa, ma sotto, in certi capannoni, specialmente alle mense, ci sono comunità di gatti enormi, centinaia di gatti. Non hanno mai visto la luce del sole, non hanno idea di cosa sia un filo d'erba. Sono delle specie di mutanti, senza coda, con un occhio solo, tutti uguali. È assurdo.

Questa cosa dei gatti lo aveva sempre colpito. Gli sembrava incredibile che nel ferro, nella ghisa, potessero vivere i gatti. Che si ammalavano, poveracci. Ce n'erano certi tutti rognosi, senza il pelo, che facevano quasi spavento. A guardarli nel muso, parevano umani. E c'era qualcuno, Alessio compreso, che gli portava anche da mangiare.

A Cristiano invece non gliene fregava niente: né dei gatti né della Lucchini che vedeva ogni santo giorno. A lui, semplicemente, giravano le palle. La droga cominciava a fare effetto e aveva un solo pensiero in testa: la bionda in perizoma sul cartellone pubblicitario all'entrata di Piombino.

Voleva andare al Gilda stasera. Aveva voglia di concludere subito, all'istante, con la bionda mozzafiato a pagamento, e non sbattersi dietro a una ragazzina viziata sulla pista del Tartana. Non te la danno, quelle stronze. Se la stratirano, non si lasciano neanche baciare. Aveva voglia di toccare un paio di tette enormi. Pagando di più, nel privé, sarebbe andato fino in fondo. E quest'altro qua, 'sto pazzo, chissà a cosa cazzo pensa.

In realtà Alessio stava lottando per non pensare. Ma quella scena maledetta gli ritornava nella testa come un messaggio registrato, riavviato all'infinito.

Quel pomeriggio, verso le quattro, uno di quei gatti del cazzo, uno piccolo, gli era finito sotto il treno siluro, e lui non aveva potuto farci niente. Lo aveva spiaccicato in un grumo di sangue e pelo. Era sceso e aveva cominciato a prendere tutto a calci. Sono scemo, pensava adesso, sono un deficiente. Perché poi, giustamente, il caporeparto lo aveva ripreso. Era corso verso di lui, urlandogli: «Che cazzo fai? Testa di cazzo!». E lui, d'istinto, al caporeparto gli aveva ficcato un pugno in piena faccia.

Sono un cretino, continuava a dirsi. Ho perso la testa per un gatto. Ma quel gatto gli ricordava troppo un suo amico, schiacciato sotto un rullo due anni prima. Lui, l'amico sfracellato sotto i suoi occhi, non se lo voleva ricordare. Non voleva ricordare la faccia dell'uomo che era sul treno e non aveva potuto fermarlo.

Adesso il gattino, il suo amico, la faccia sconvolta dell'uomo sul vagone, erano una cosa sola dentro la sua testa.

Cristiano era sceso a pisciare tra i rovi. E lui ancora non si decideva a tirare. Fissava il cuore: la torre illuminata dove fondono la ghisa e l'acciaio, sperava che non lo licenziassero mai, che non gli capitasse mai, guidando un treno, di radere al suolo una persona.

Quello che realmente, da fuori, uno non potrà mai immaginare è l'interno. Uno lo sa, lo dà per scontato, che dentro la Lucchini, nelle viscere, si muove la carne di gambe, braccia, teste umane. Lo sa, eppure non riuscirà mai a misurare questa mastodontica fatica. Uno da fuori non può capire cosa significa trasformare tonnellate e tonnellate di materia. La materia più dura che esiste. E non potrà immaginare nemmeno la quantità spropositata di calendari sexy e poster di donne nude appesi da tutte le parti.

Avevano appiccicato una tettona anche sulla motopala.

Di colpo si chinò sulla striscia di coca e l'aspirò a piene narici. Cristiano rientrò in macchina e lo guardò come dire: allora, che te ne pare?

«Cri» fece Alessio, «tu l'hai mai vista la volpe in cokeria?»

Cristiano inarcò le sopracciglia. Lui lavorava per una ditta esterna, ai margini, con l'escavatore. Portava via l'inerte da riciclare.

«No. Perché? C'è pure una volpe?» Rise.

«Renditi conto...» Rise anche Alessio. «Una volpe nella fossa! L'ho vista spesso, ma esce solo alle sei del mattino.»

L'hanno sempre chiamata così la cokeria: la fossa. Rende parecchio l'idea. E questo nome è una delle poche cose che si è tramandata di generazione in generazione.

«Ti sei ripreso?» azzardò Cristiano.

«Oggi ho fatto a botte col capo.»

«Ah, però!»

C'era anche un tabellone con una lavagna e un grafico degli infortuni, ma non era mai aggiornato. La gente ci scarabocchiava sopra, ci faceva le scritte a scazzo: tipo che qualcuno era morto, e invece non lo era. Ci scrivevano: sono morto, i rulli mi hanno triturato le palle. E ci ridevano un sacco tutti.

«Vista da qui è quasi bella.»

«Cosa?»

Alessio indicò l'oceano di luci.

«Un bijou!» fece Cristiano.

Alle cinque sarebbe uscito dalla discoteca, e alle sei sarebbe rientrato direttamente in Lucchini.

«Allora Tartana? Niente Gilda, sei sicuro?»

«Che palle, Cri, ti ho detto di no!»

Una luce rossastra invase il cielo nero per qualche minuto, come un'apocalisse. Era la colata.

«Secondo te ha senso?»

«Cosa?» Cristiano smise di giocherellare con il display del cellulare e guardò l'amico.

«Lavorare tutta la vita là dentro.»

«Se ci pagassero cinque, sei milioni al mese, sì. Ne avrebbe un sacco di senso!»

Cristiano ormai era su di giri. Scalpitava, voleva muoversi, andare incontro al suo sabato sera, al suo momento di gloria.

Alessio se ne accorse e mise in moto. Cominciava a fare effetto anche a lui la coca. Accese lo stereo. Ricacciò l'immagine del grumo di sangue, di pelo, l'immagine del suo amico spiaccicato, e il viso incredulo dell'uomo che lo aveva ucciso e che era suo zio.

Si scaraventò giù dalla Tolla. No, non lo avrebbero licenziato mai. Giù verso l'Aurelia, insieme a migliaia di altre auto in corsa nel sabato sera, verso il Tartana preso d'assalto dalle tedesche, verso il seno caldo e bianco di una ragazza, di una ragazza qualsiasi, dove appoggiarsi e terminare la corsa.

Alessio guidava come un pazzo, e Cristiano muoveva la testa a ritmo di tunz.

Sorpassava le auto, pensava alle ragazze. Quelle che venivano a trovare i mariti al lavoro, con i bambini piccoli in braccio. Restavano al di là della rete, indicavano ai figli i loro papà sporchi neri di ghisa. Quei bambini andavano pazzi per gli escavatori e le motopale. Battevano le mani come al circo.

Anche lui avrebbe applaudito, se avesse avuto un padre su quelle motopale, ne sarebbe stato orgoglioso. E le ragazze con i bambini in braccio, magari non erano belle come quelle in discoteca, però avevano un sorriso, un viso struccato, pallido, un qualcosa che era come un incantesimo. Elena, se non lo avesse lasciato, se non fosse andata all'università, sarebbe andata anche lei a trovarlo, di là dalla rete, e lui avrebbe fatto vedere al loro bambino com'è cattivo un escavatore.

Stringeva forte nel pugno il volante. Quel pugno che gli veniva più facile di qualsiasi parola.

Un seno bianco dove appoggiare la testa. Questo sì, aveva un senso.

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22



Il meteo stava annunciando temperature superiori alla media di quattro o cinque gradi, quando si sentì il campanello suonare.

Era domenica mattina, l'ultima domenica d'estate.

Interruppero la colazione, rimasero con il biscotto in mano e si guardarono interrogativi. La voce del colonnello annunciava sole su tutta la penisola italiana. Un presentimento comune. Sandra si alzò e andò ad aprire.

Rumore di suole gommate sul pavimento. Passi energici e regolari.

Arturo entrò, fasciato da un memorabile gessato nero che odorava di tintoria. I pasticcini avvolti nella carta, un soprabito grigio perla sotto il braccio.

«Buongiorno» disse.

Erano rimasti, i suoi figli, impietriti sulle sedie. La moglie emerse in vestaglia dietro le sue spalle e andò ad appoggiarsi allo stipite della porta.

«Vi vedo bene!» Come se non li avesse piantati, soli e in mezzo alle grane, per quasi un'intera estate. Li vedeva bene: erano muti e incazzati.

Arturo lasciò cadere il soprabito sul divano, si accomodò accavallando le gambe. Un talento mancato al teatro. Era mancata perfino una scusa campata per aria, quel minimo di pudore che ci vuole.

«Avanti, scartate i pasticcini...»

Era emozionato come un pischello che ha appena rubato un motorino, e quasi non ci crede che ci è riuscito, si sente da Dio anche se sa che ha sbagliato.

Dove aveva dormito? Si era fatto l'amante?

Arturo sorrideva da canaglia.

Sandra doveva fare uno sforzo enorme per controllarsi, per nascondere l'imbarazzo, il disagio che provava di fronte ai vestiti nuovi, la piega impeccabile dei pantaloni (chi glieli aveva stirati?) di suo marito che comunque, anche tirato a lucido, restava un disgraziato.

Anna addentò timidamente il suo biscotto.

Non c'era parentela, neanche lontana, tra il tessuto di sartoria che indossava lui e il tessuto del divano, della tovaglia, della sgualcita vestaglia di sua moglie. Il sole entrava alto e chiaro attraverso la tenda bianca, e Sandra si aggiustava i capelli, tentava invano di metterli in ordine e tenere a bada i nervi.

Attaccò la sigla del telegiornale.

«Sono tornato» deglutì, «per restare.»

Ad Alessio era passata la fame.

«Insomma, è ancora casa mia?»

Silenzio tombale.

Allora Arturo infilò la mano nella giacca. Questa volta li avrebbe stupiti davvero. Era il gesto che aspettava da una vita, la scena clou del film che aveva in testa. Estrasse dalla tasca un cofanetto di velluto rosso. Aveva quel sorriso lampante stampato in faccia, un bel colorito sulle guance, che strideva in modo colossale con le labbra sigillate di sua moglie, con la gelida sorpresa di suo figlio. E Anna tratteneva il respiro davanti al cofanetto rosso.

Lo aprì. Ne sfilò il contenuto. Lo mostrò a Sandra.

L'anello che Arturo teneva fra le mani era la cosa più preziosa che lei avesse mai visto.

«Sono tornato per restare» ripeté, «per darvi la vita che meritate.»

Sandra rimase, suo malgrado, folgorata. Non avrebbe voluto cedere, ma stava cedendo. Contro tutte le convinzioni maturate in una vita di partito, di riunioni al sindacato, scarpe rotte e pur bisogna andar, si infilava il diamante al dito. Era ben rasato suo marito, il foulard imbevuto di profumo.

Alessio si alzò da tavola strisciando rumorosamente la sedia. La commedia aveva raggiunto il livello di saturazione.

«Dove vai?» gridò allarmato suo padre.

«Al cesso» rispose suo figlio, disgustato.

Era sempre stato così, diffidente e scontroso. Arturo non lo aveva mai capito. Suo figlio gli aveva sempre tacitamente rimproverato qualcosa. Ma cosa? Non aveva mica la palla di vetro, lui.

«Ascolta. La tua macchina è di sotto» Si affrettò a dire, con la sicurezza di chi ha un asso nella manica e sta per scoprirlo. «Qui ci sono le chiavi.»

Posò con energia un portachiavi con il simbolo enorme della Volkswagen.

«È finita di pagare» sorrise trionfale. «È tua.»

Alessio si voltò a guardarlo. Incredulo, questa volta.

Potere incredibile dei soldi.

«Te l'ho parcheggiata qui sotto, vicino ai cassonetti.»

Alessio aveva cambiato faccia. Lo odiava, eppure aveva cambiato faccia. Suo padre gli sorrideva entusiasta.

Alessio rimase fermo per alcuni istanti, combattuto come poche altre volte. Non voleva dargli soddisfazione, non si fidava. Arturo lo fissava un po' bullo e un po' tenero, di colpo diventava il padre generoso che immaginava di essere.

«Dai, vai almeno a vederla...»

Lo implorava con gli occhi.

E suo figlio non poté fare a meno di andare. Afferrò il mazzo di chiavi, uscì direttamente in pigiama.

Gli stava facendo i conti in tasca, Sandra. Lui scartava i pasticcini disinvolto, faceva un giro per la stanza. E lei gli faceva i calcoli addosso. Sommava cifre ipotetiche a più zeri, la sua testa lavorava come un forno, arrotondava ora per eccesso ora per difetto. Non aveva la più pallida idea di quanto potesse costare un diamante. Ammesso che lo avesse comprato...

Non voleva saperlo. Non le interessava. Nei giorni seguenti Arturo avrebbe tirato fuori dalla tasca della giacca, come un prestigiatore, i soldi per l'affitto, anche gli arretrati, i soldi per saldare il conto della lavastoviglie e dell'autoradio. E lei ogni volta avrebbe guardato le mazzette spuntare e non avrebbe fatto nessuna domanda. Lei, la moglie, avrebbe intascato quei soldi, spuntati come conigli dal cilindro senza formulare, neppure a se stessa, la domanda più ovvia.

«Sei felice?» le chiese, invitandola ad alzarsi e abbracciandole il fianco.

Avrebbe richiamato l'avvocato, avrebbe lasciato cadere la pratica del divorzio, e in tutto questo avrebbe provato una sottile vergogna. Lo faceva per i soldi. Non solo. La volontà di credere in qualcosa a cui non si può credere. Sandra affondava fra le braccia di suo marito. Era un effetto Valium, le campane automatiche della chiesa che segnavano l'ora. La messa finita, la messa a cui non era andato nessuno.

Anna era rimasta in silenzio per tutto il tempo.

«Ma a me» reclamò a un certo punto, «non mi hai regalato niente?»

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Lo stavano operando d'urgenza. Costole e vertebre fratturate. Una mano fracassata. Un ematoma al cervello che stavano cercando con tutte le forze di far riassorbire.

L'uomo era rimasto per troppo tempo disteso sull'asfalto a prendere pioggia e a perdere sangue. Sangue e sensi dispersi nell'acqua dei tombini in mezzo ai clacson.

L'autoambulanza ci aveva messo un'infinità di tempo, e il pronto soccorso di Piombino è quello che è.

Sala operatoria numero 3, terzo piano. Era arrivato come un sacco di carne, Enrico.

Amore mio, diceva la donna seduta in corsia. Era una donna con la faccia gonfia di sonno e di Valium, la cantilena soffocata di chi è poco abituato a reagire. Una donna del Sud, tutta vestita di nero. La gonna sotto il ginocchio, rigorosamente, e i piedi sudati nei mocassini.

Amore mio.

Rosa era invecchiata e ingrassata sotto la luce al neon, mentre le stavano operando il marito. Rosa faceva schifo a sua figlia che le sedeva accanto composta. La madre piccola e nera. La figlia altissima e bionda.

«Dottore» mugugnò la madre.

Si era portata appresso una specie di rosario che teneva fra le dita.

Il medico disse che non c'era niente da dire.

L'odore di disinfettante e varechina. Il colore smorto delle piastrelle. Il muro della corsia senza finestre. Il rumore gracile delle barelle. A Francesca piaceva l'odore del disinfettante, perché sotto una cosa che uccide ce n'è una viva che allarma.

Francesca era muta e ferma. Avrebbe voluto strappare il rosario dalle mani di sua madre e farglielo ingoiare insieme a quindici, venti boccette di Valium. In gola. Tutte, una per una. Rosario, Valium e Prozac. Sei grassa, stava pensando. Fai schifo. La corsia era semivuota e le ore ci passavano attraverso con estrema lentezza.

Rumore di barelle con sopra corpi incapaci di trattenere i liquidi.

Francesca sfolgorava in tutto questo. Se possibile, era più bella del solito: perché c'era una luce nel suo viso, un lucore lattile nel cupo degli occhi. La pupilla tesa e serenamente fissa. La pupilla viva e fiduciosa. La gioia implacabile di chi è forte, sano e meraviglioso.

Un millisecondo in cui la luce veniva a galla. La spia intermittente della parola in circolo fra i suoi neuroni.

Muori muori muori muori muori.

Andò in bagno. Si addossò al muro di piastrelle. Le dava l'orgasmo essere li. Nel cuore del suo compleanno che nessuno si era ricordato. Fammi questo regalo, fammi questo regalo: muori.

Tornò in corsia. Rosa passava le dita attraverso il rosario e cantilenava a voce bassa. Le veniva fuori l'educazione calabrese, in queste circostanze. La vita è fatta di due sentimenti, pensò Francesca, la schiavitù e la libertà. Si ricordò di sua nonna che non conosceva l'italiano, che menava schiaffi a sua madre anche dopo sposata. Si ricordò il tugurio in Calabria da cui venivano, intanto che i medici gettavano uno sguardo penoso su Rosa.

Era una donna che cantilenava inceppandosi perché non ricordava l'Ave Maria. Ma poi cosa vuol dire ave? Una parola senza senso, una parola rituale. L'aveva fatta a diciannove anni. Si era praticamente rovinata la vita per partorire lei. Lo aveva sposato solo perché quel porco l'aveva messa incinta. E adesso guarda come ti sei ridotta. Le portò un bicchiere d'acqua, e un caffè della macchinetta.

Diceva: «Se lavoravo anch'io, aggiustavamo la macchina e lui non prendeva il motorino. Se lavoravo anch'io. Gliel'ho detto, prima di uscire. Non lo prendere il motorino, che piove. Se lavoravo anch'io, avevamo i soldi. I soldi. Ave Maria».

Francesca spiava attraverso le ciglia lo sguardo mobile di due infermieri. Se lo sentiva formicolare dalle caviglie ai polpacci. E non si teneva.

Le aveva detto: «Te a scuola non ci vai più!». Le aveva detto: «Resti a casa e aiuti tua madre a fare le pulizie». Era convinto che non esistesse obbligo scolastico. Era convinto che non esistesse una legge al di fuori della sua. Era vero, non esisteva una legge. E lei non era più andata a scuola.

Ma se adesso muore... Il mondo si spalanca in un ventaglio di possibilità infinite.

Gli stanno ficcando pezzi di ferro nella carne. Bisturi, forbici. Lo stanno cucendo e disossando. Gli stanno pompando ossigeno e iniettando sostanze. La differenza che passa tra la schiavitù e la libertà è una differenza magnifica.

Francesca se lo immaginava come in certi telefilm su Italia 1. Disteso in un lettino della sala operatoria con molte luci rotonde addosso. E si appassionava. Passavano le ore e lei immaginava nei dettagli tutto quel che avrebbe potuto fare se suo padre fosse morto. Concorsi da modella. Roma, Cinecittà, Canale 5. Anna l'avrebbe vista attraverso lo schermo del televisore. E non riusciva più a stare ferma. Non riusciva a stare seduta. Fino a quando Anna avrebbe capito che non potevano vivere separate e avrebbe lasciato il suo fidanzato. Solo io e te, le avrebbe detto.

Bum: non esiste più. In nessun luogo della terra, in nessun momento del tempo. Ti svegli al mattino e sai che lui non esiste. Francesca faceva su e giù per la corsia, tratteneva a stento la luce, la smania, la voglia. Fino a quando il medico uscì e disse: «Gli abbiamo dovuto amputare un dito».


Passarono la notte in ospedale. La calla era rimasta sul pianerottolo. Lo stelo, già provato dal vento e dalla pioggia, si era curvato fino a piegarsi su se stesso. Trascorsero un'altra notte in ospedale senza tornare a casa neppure per prendere le cose essenziali. La calla appassiva rapidamente, appoggiava il petalo concavo sul bordo del vaso, il cono oblungo di polline anneriva. Trascorsero una terza notte in ospedale, senza lavarsi i denti né le ascelle. La calla non reggeva il peso della polvere e delle ore. La mattina dopo, gli addetti delle pulizie la presero e la gettarono nel sacco nero.

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