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| << | < | > | >> |IndicePrologo scuro 3 Dodici angoli 5 L'ombra puntuale 9 Una telefonata 14 Il direttore 18 Acromatopsia 21 Amare 24 Il cono di luce del futuro dell'evento 28 L'uomo sotto i piedi 32 Elogio dell'occhio 39 Assassino 43 Un lampo intermittente 48 Il motore segreto 51 Disordine nel circuito 56 Nell'archivio 60 Una stanza 65 Un numero 68 L'indagine 71 Nel ventre del totem 75 Calligrafie 80 Quessta frase contiene tre errorri 84 I fascicoli scambiati 86 Il catalogo delle «vanités» 91 Il genio della lampada 95 Nastro magnetico 99 Uno scarabeo, una clessidra, uno specchio 102 Cinque elementi 106 Galleria di stampe 110 Fino a uccidere 116 Prima di morire 120 Epilogo rosso 124 Postfazione di Giancarlo De Cataldo 129 |
| << | < | > | >> |Pagina 3Lampi. Due. Tre. Senza rumore. Il silenzio. Il buio intorno, che intuisco. Il cono di luce di un riflettore mi schiaccia a terra con il suo tallone abbagliante. Non riesco a muovermi, non riesco ad aprire gli occhi. Fuori del cerchio di luce la notte mi osserva, aspetta paziente la mia fine. Non ho sentito il rumore degli spari, ma adesso distinguo bene i passi che si allontanano. Ora sono veramente solo, non mi resta che crepare, farmi calcinare dall'incandescenza fredda del riflettore al neon nella posizione in cui i colpi mi hanno paralizzato. Sono immagini della mia mente o riesco a scorgere qualcosa oltre la luce? Riflessi. Di acciai e cristalli. La fabbrica lancia i suoi bagliori nella notte, scultura tecnologica, astronave notturna, fremente. Sta per sollevarsi dal suolo per trascinarmi con sé verso i confini dell'Universo... No. Sono a terra, paralizzato, il viso schiacciato sull'asfalto e la vita mi sta lasciando dolcemente. | << | < | > | >> |Pagina 21Prima di proseguire devo confessare qualcosa, qualcosa che mi riguarda intimamente. Mi aiuterà a farlo la descrizione di un'immagine.
In una galleria d'arte un uomo guarda un quadro. Raffigura una nave nel
porto di una piccola città di mare, forse mediterranea, con le sue torri, alcune
cupole e il dedalo di vicoli e terrazze, le case dai tetti piatti. Su uno di
questi sta seduto un ragazzo che riposa all'ombra. Due piani più sotto una donna
è affacciata a una finestra che si trova proprio sopra una galleria d'arte in
cui un uomo guarda un quadro che raffigura una nave nel porto di una piccola
città di mare, forse mediterranea, con le sue torri, alcune cupole e... già, il
quadro è «dentro sé stesso».
Dentro e fuori, contemplare e agire. Sorvegliare sé stessi, osservare gli altri. Tutti facciamo parte di un quadro, anzi del Grande Quadro, il mondo che ci circonda, che osserviamo nello stesso istante in cui lo animiamo. Questa affermazione è meno vera per me: è da tempo che cerco di partecipare il meno possibile alla vita che ho intorno, di animarla nella misura strettamente necessaria e di limitarmi a osservarla. Credo che all'origine di questo atteggiamento ci sia la mia malattia: sono affetto da acromatopsia, i coni dei miei occhi possiedono un solo pigmento. In pratica significa che non posso distinguere i colori se non in termini di luminosità più o meno intensa. Il mio è un mondo che gli altri definiscono in bianco e nero. I monocromati come me sono fotofobici: i raggi del Sole o anche solo l'illuminazione ordinaria saturano facilmente la mia vista.
Per questo, da sempre, ho evitato le ore del giorno per privilegiare quelle
della notte, e quando finisce la giornata degli altri io mi appresto ad
affrontare quella oscura che mi spetta.
Come la mia vita, anche il mio lavoro si è sempre svolto di notte, nonostante abbia cercato di tenere nascosta la malattia pensando così di non limitare le opportunità che si potevano presentare. Non è stato difficile approfittare della superficialità della visita medica per la patente o della confusione che circonda quella per il servizio militare. Ma ammetto di averla inizialmente dissimulata per quella forma mistificata di debolezza che è l'orgoglio. Infatti, ho presto abbandonato università e prospettive per fare il cameriere nei locali notturni, il portiere di notte in alberghi di second'ordine, per un periodo ho lavorato nel forno di un panettiere. Erano lavori destinati a persone con un'origine e una formazione diversa dalla mia, e spesso le mie richieste di impiego venivano valutate con diffidenza e a volte sono state rifiutate, solo perché il mio aspetto contrastava troppo con le mansioni che chiedevo di svolgere. Era la mia forma di ribellione, o di paradossale vendetta, verso il mondo, la malattia, quello che ero... Le mie scelte, naturalmente, erano determinate anche dall'intolleranza alla luce, non sono molti i lavori che si svolgono di notte, e mentre credevo di soddisfare la mia rivolta assecondavo la malattia.
In realtà coltivavo la mia natura segreta, la mia vocazione alla solitudine.
Con il tempo questa mia particolare condizione ha creato una distanza tra me e gli altri, punti di vista diversi sul mondo cui tutti apparteniamo, e a mitigare questa estraneità non è bastato il breve dominio serale della luce elettrica, la zona di confine tra il mio tempo e il loro. Così, a poco a poco, la parte che mi sono assegnato è stata quella dell'osservatore. Io guardo gli altri, ma da lontano, facendo in modo che le loro azioni e la mia si incrocino il meno possibile. L'isolamento, quindi, prima come effetto della malattia, poi come condizione di esistenza. Infine come causa della mia rovina. Questo equilibrio marginale, infatti, raggiunto faticosamente dopo anni passati a far finta di essere come gli altri, è irrimediabilmente perso. Io che avevo scelto di essere solo uno spettatore mi sono ritrovato protagonista di una storia che mi ha travolto. Come qualcuno che sta facendo la fila alla cassa di un grande magazzino e intanto osserva il monitor dell'impianto televisivo a circuito chiuso contro i taccheggiatori. Guarda sul monitor la folla che si accalca e si accorge che la persona sulla destra dello schermo, quella con la giacca scura, viene borseggiata dall'individuo che gli sta alle spalle. Stupefatto porta la mano alla bocca e nota che anche la mano della vittima si solleva nello stesso modo e troppo tardi si rende conto che la persona che stanno borseggiando è lui. | << | < | > | >> |Pagina 40Devo confessare che raramente provo interesse per qualcuno, un interesse personale voglio dire.Da sempre penso che la gente sia monotona: il mondo sembra pieno di uomini e donne con le stesse facce, le stesse espressioni, che usano gli stessi luoghi comuni, che affrontano, nella stessa maniera, gli stessi problemi. Nell'amore, poi, è ancora più evidente: niente come le storie tra uomini e donne mi appaiono più uguali a sé stesse, tutto è prevedibile... almeno tutto mi pareva così, prima di entrare a far parte dei progetti di lei. Ma ho realmente cambiato opinione?
L'isolamento coatto che devo alla sensibilità patologica dei miei
occhi ha contribuito a formare le mie convinzioni e forse qualcuno con un
carattere diverso dal mio non sarebbe arrivato a queste considerazioni. Ma penso
di non essere un osservatore superficiale e di non sbagliare quando vedo che
quasi tutti fanno le stesse cose: poche sono le varianti concesse a qualcuno
scelto dal caso.
Uno sguardo mi è sufficiente per catturare la natura delle cose e delle persone che mi circondano. Quando osservo gli altri lo faccio da lontano, spesso non ho bisogno di ascoltare le loro parole per capire l'argomento o il tono di una conversazione: osservo la mimica, sempre la stessa, che esprime l'ironia su un collega. Quella, sempre identica, per l'apprezzamento su una bella donna che passa. L'altra ancora, uguale ogni volta, per gridare la rabbia tra due automobilisti. Ma anche per sentimenti ed emozioni più complessi sono sempre le stesse espressioni che si ripropongono. Ai funerali o durante i matrimoni, per esempio. Non sono sempre gli stessi i gesti di cordoglio che compiono i conoscenti dello scomparso? Non sono accolti sempre allo stesso modo dai famigliari? E la gazzarra esageratamente euforica che accompagna ogni matrimonio? Le battute degli amici dello sposo? La gioia delle mamme? A volte mi diverto cercando di anticipare scambi di battute o l'alternarsi delle espressioni sul viso delle persone. Credo che molti, ogni tanto, abbiano la consapevolezza di questa ripetizione ossessiva. Come quando qualcuno racconta una barzelletta e tutti capiscono, prima che sia finita, che non rideranno, ma continuano ad ascoltare e alla fine ridono senza averne voglia. Sanno che stanno fingendo, che interpretano la parte di chi ride, e anche l'affabulatore è conscio del suo fiasco, ma nessuno dice niente e si va avanti. Così funziona il mondo.
Per comprendere l'essenza dell'acquario fragoroso in cui siamo immersi mi
è sufficiente guardarlo.
È quasi la fine della giornata e in fabbrica non manca molto alla chiusura quando nella garitta i guardiani del turno di giorno sentono dei colpi sordi. All'inizio non ci fanno caso. Poi, il rumore irregolare ma insistente li obbliga ad alzarsi e guardarsi intorno, ma non c'è niente di anomalo. Anche dai monitor arrivano le solite immagini. Un altro colpo. Questa volta al rumore si è unita una sensazione bizzarra, una scossa che è partita dai piedi ed è risalita su per la schiena... uno dei guardiani abbassa lo sguardo sul pavimento. Un colpo e la lastra di plastica su cui si trova si scuote, l'uomo ondeggia. Si china a terra. Solleva la mattonella e da sotto il pavimento una mano lo afferra per la gola. Il guardiano urla terrorizzato, il direttore con uno spasmo si afferra a lui e lo trascina giù mentre l'altro tenta inutilmente di afferrarlo per le gambe... il guardiano urla, ma è la mia voce che squarcia la fabbrica. Mi sveglio zuppo di sudore. È sera. Devo tornare allo stabilimento. | << | < | > | >> |Pagina 75Sono esausto, la testa mi scoppia. Per svolgere l'indagine non ho dormito al termine del mio turno in fabbrica e la lunga, inusuale esposizione alla luce del giorno mi ha stancato gli occhi, che mi bruciano. Arrivo al Planetario. Una sfera aliena adagiata tra enormi parallelepipedi, i palazzi cresciuti negli anni con la speculazione edilizia, che la soffocano. Quasi vorrei baciarne la parete convessa, come l'adepto devoto di una setta pagana. La città mi è estranea, a poco a poco ho limitato i motivi per andarci ed è con disagio che l'attraverso quando è necessario. Il Planetario, un' oasi di silenzio e oscurità... Periodicamente torno lì, in certi momenti anche più volte in una settimana. Entro e rimango nel ventre nero della cupola, cullato dalla sfera celeste per tutto il pomeriggio. Conosco a memoria il programma, è qui che vengo ad ammirare ciò che la vista non mi permette di vedere nel cielo della notte: costellazioni boreali e australi, eclittica, il grande cerchio della precessione, la corona solare, la Luna e le sue fasi, albe e crepuscoli, la doppia vu di Cassiopea, Andromeda, galassie e comete... si alternano meccanicamente accompagnate dalla voce incisa su nastro di cui conosco ogni più piccola inflessione e pausa e che illustra le meraviglie puntiformi che si succedono sulla volta, sempre nello stesso ordine... ma non mi importa, non ci si stanca di guardare un cielo stellato. L'edificio è cadente, gli stucchi slabbrati, gli infissi decò arrugginiti. Tubature incrostate corrono lungo i corridoi, le poltrone di legno imbottite di gommapiuma sono scomode; riconosco tutti i difetti dei due motori per il moto diurno apparente, so quale dei ventotto proiettori del collare meridionale andrebbe sostituito, ma non mi importa... Sono quasi sempre solo durante le proiezioni. A volte a farmi compagnia è qualche coppietta che viene a baciarsi e palpeggiarsi o una comitiva di ragazzini chiassosi. Il cassiere è vecchio, ma non mi curo della desolazione... Io, sepolto nella cavità oscura del mio totem, viaggio nello spazio, invulnerabile, puro, felice... | << | < | > | >> |Pagina 110È un unico ambiente bianco dal soffitto molto alto, illuminato da grandi finestre ovali. Una passerella di legno sopraelevata si dipana tortuosamente da un quadro all'altro obbligando a un percorso prestabilito i visitatori. Sotto e a fianco della passerella il pavimento è interamente ricoperto di pietre scure, antracite e ardesia. L'allestimento è sponsorizzato da un'industria mineraria straniera, il cui logo ricorre nei manifesti della mostra, sulle brochures, nei cataloghi.
È in corso un'esposizione di stampe.
In un angolo, appesa a una parete, mi trovo improvvisamente di fronte la gigantografia del logo della galleria. Potrei entrare nel dedalo della casbah, aprire la finestra di una delle case, scavalcare la balaustra di quel balcone, scoprire dove è andato a poggiarsi lo sguardo dell'anziana signora che osserva indolente il mare. Tali sono le dimensioni dell'immagine che ho quasi la sensazione di accompagnare l'uomo nella sua visita alla galleria d'arte, lui che guarda l'immagine del porto, io chino sulla strana composizione di sfere del quadro più in basso. Poco più in là c'è un tavolo con i cataloghi, le cartoline, i manifesti. Un ragazzo con gli occhiali tondi ascolta musica dalle cuffie sfogliando una rivista. Tiro fuori di tasca il libro, quello del seminario universitario, per rileggere il nome dell'autrice. Faccio quel nome al ragazzo, il nome di lei. Sì, perché quello è il suo nome. Lei è l'autrice del libro che ho portato con me alla galleria d'arte. Io odio i nomi, sono così vistosi o assordanti o banali, mai giusti. Il suo non è bello, nessun nome sarebbe abbastanza bello per lei. Non mi piace chiamarla o anche solo pensarla per nome... - Lavora qui alcuni pomeriggi a settimana, ma da qualche giorno non s'è più vista... pare che sia andata via. Il ragazzo con gli occhiali mi prende il libro dalle mani. - Lo conosco bene, ci ho dato l'esame e lei mi ha aiutato un casino, era soltanto una delle assistenti ma è stata molto gentile... pure il professore, all'esame m'ha dato un 27. M'è dispiaciuto che è morto. Veniva spesso qui, era appassionato d'arte. Deve annoiarsi a rimanere tutto il giorno nel silenzio ovattato della galleria di stampe o è solo un chiacchierone. Lo lascio fare, non devo sforzarmi di alimentare la conversazione per ottenere notizie. - Ho una mezza idea di fare la tesi sulla fabbrica, quella un casino moderna, sull'autostrada... hai presente, no? Conosco di vista il direttore, anche lui frequenta la galleria... lui però è uno di quelli che i quadri se li compra. Immagino un vernissage alla galleria. Il direttore e lo psicologo che parlano affabilmente, lo psicologo che presenta al direttore la sua assistente... lui che la guarda, come un lupo. Sono convinto che abbia offerto il lavoro in fabbrica al professore solo per avere lei... - ... Forse è l'aggancio giusto per svoltare alla grande - conclude il ragazzo. Ho trovato l'anello di congiunzione: lei, assistente volontaria del professore, ha incontrato nella galleria il direttore. La conoscenza casuale si è trasformata in una relazione, forse in seguito al lavoro che svolgeva alla fabbrica insieme con lo psicologo. Vorrei parlare ancora con il ragazzo, sapere di più, anche solo farmi dire come si muoveva, come rispondeva al telefono, cosa mangiava. Non ne ho il tempo: devo tornare alla fabbrica, in fretta, il mio turno sta per cominciare e mi trovo dall'altra parte della città.
Non saprò mai com'è veramente, di lei mi rimane l'essenza minacciosa e
seducente che ha attraversato le mie notti nello stabilimento.
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