Autore Gaetano Azzariti
Titolo Contro il revisionismo costituzionale
SottotitoloTornare ai fondamentali
EdizioneLaterza, Roma-Bari, 2016, anticorpi 48 , pag. 260, cop.fle., dim. 14x21x2 cm , Isbn 978-88-581-2231-0
LettoreRiccardo Terzi, 2016
Classe diritto , politica , lavoro , paesi: Italia: 2010












 

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Indice


        Introduzione. Tornare ai fondamentali                                IX


I.      Democrazia. Democrazia è costituzione                                 3

- 1. Premessa, p. 3
- 2. Le diverse concezioni di «democrazia», p. 4
- 3. La democrazia degli antichi: l'isonomia, p. 8
- 4. La libertà degli antichi e l'esclusione sociale, p. 11
- 5. La democrazia rappresentativa dei moderni, p. 15
- 6. La democrazia costituzionale, p. 18
- 7. La formazione della volontà politica negli ordinamenti
     di democrazia costituzionale, p. 22
- 8. Qual è lo stato della nostra democrazia costituzionale?, p. 25


II.     Conflitti. Democrazia è conflitto                                    28

- 1. Che cos'è il diritto e a cosa serve, p. 28
- 2. I conflitti 'irrisolti': Antigone, Socrate, Gesù, p. 30
- 3. La risoluzione dei conflitti: i paradigmi, p. 33
- 4. La «decisione» nello Stato costituzionale, p. 35
- 5. Il decisionismo come pratica di governo, p. 38
- 6. La «procedura»: della neutralizzazione del conflitto, p. 40
- 7. La procedura privata di senso, p. 42
- 8. Il paradigma costituzionale: la legittimazione dei conflitti, p. 44


III.    Eguaglianza. Il diritto è di tutti:
                     la portata rivoluzionaria dell'eguaglianza              47

- 1. Premessa, p. 47
- 2. L'eguaglianza delle origini: tra demos e kratos, p. 48
- 3. L'eguaglianza nei diritti, p. 52
- 4. Il carattere sostanziale dell'eguaglianza, p. 54
- 5. Eguaglianza e dignità, p. 58
- 6. Il futuro dell'eguaglianza, p. 62


IV.     Libertà.  L'ordinamento democratico e i suoi nemici                  65

- 1. Manifestazione del pensiero e tutela dell'ordinamento democratico, p. 65
- 2. Pensiero «eversivo» e difesa dell'ordine pubblico democratico, p. 67
- 3. Ordine pubblico come limite alla manifestazione del pensiero?, p. 70
- 4. Salus republica suprema lex, p. 74
- 5. Difesa dell'ordinamento democratico. Pensiero e azione, p. 84
- 6. Pensiero critico e democrazia pluralista, p. 86


V.      Lavoro. Dalla centralità del lavoro alla teologia economica          89

- 1. Il rovesciamento, p. 89
- 2. Il paradigma costituzionale del lavoro, p. 90
- 3. La teologia economica, p. 91
- 4. Neo-totalitarismo costituzionale:
     il caso del cosiddetto pareggio di bilancio, p. 92
- 5. Come s'è giunti sin qui?, p. 96
- 6. Gli effetti del rovesciamento: il lavoro indegno, p. 100
- 7. La fine della civiltà del lavoro e il futuro
     del costituzionalismo moderno, p. 102


VI.     Cittadinanza. Cittadinanza è ius loci                               105

- 1. Le cittadinanze: le diverse accezioni della nozione, p. 105
- 2. La cittadinanza come appartenenza, p. 107
- 3. La cittadinanza come partecipazione, p. 111
- 4. La cittadinanza nella Costituzione italiana, p. 115
- 5. La cittadinanza europea, p. 121
- 6. La cittadinanza oggi, p. 127
- 7. Ius loci, p. 131


VII.    Diritti. Diritti deboli, soggetti fragili                           135

- 1. I diritti fondamentali nell'era globale, p. 135
- 2. Uso ideologico dei diritti fondamentali e neocolonialismo, p. 138
- 3. Diritti «spaesati», p. 139
- 4. La lotta per i diritti, p. 143
- 5. Fragilità dei soggetti storici, p. 145
- 6. Il confronto con il potere, p. 147


VIII.   Dignità. I diritti dell'homo dignus                                 150

- 1. La retorica dei diritti umani, p. 150
- 2. Il fondamento storico dei diritti umani, p. 152
- 3. Il fondamento teorico dei diritti umani, p. 156
- 4. Il fondamento ideologico dei diritti umani, p. 161
- 5. Quale dignità per i diritti umani?, p. 165
- 6. La dignità smaterializzata della seconda modernità, p. 168


IX.     Rappresentanza. Libero mandato e rappresentanza                     171

- 1. Cronaca politica e interpretazioni storiche, p. 171
- 2. La strutturale ambiguità del divieto di mandato imperativo, p. 173
- 3. Il mandato come dispositivo di sistema, p. 180
- 4. La responsabilità del rappresentante, p. 185
- 5. L'assolutismo sistematico del libero mandato, p. 192
- 6. La critica al libero mandato, p. 195
- 6.1. Segue: la critica leninista e
              il modello sovietico o comunardo, p. 197
- 6.2. Segue: la critica normativista tra divisione del lavoro
              e «Stato dei partiti», p. 200
- 7. Il «mandato imperativo di partito», p. 207
- 8. Il divieto di mandato imperativo nella Costituzione, p. 215
- 9. Rappresentanza pluralistica della società e
     disciplina di partito, p. 220
- 10. La crisi dei soggetti della rappresentanza.
      La scomparsa dell'agire politico, p. 222
- 11. Verticalizzazione del sistema politico.
      Il Governo in Parlamento, p. 229
- 12. Divieto di mandato imperativo e pluralismo politico, p. 238


X.      Riforme. Storia di un lungo regresso: la riforma costituzionale     243

- 1. L'indignazione: un costituzionalismo à la carte, p. 243
- 2. La mistica della governabilità, p. 244
- 3. Contro il revisionismo costituzionale dominante, p. 247
- 4. Invertire la rotta, p. 252

Indice dei nomi                                                             257

 

 

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Pagina IX

Introduzione
TORNARE Al FONDAMENTALI



Viviamo tempi confusi, tempi veloci. Operiamo entro una condizione di precarietà permanente, in continuo sommovimento. Un contesto sociale poco incline a fermarsi per permetterci di riflettere. Nella politica, ma anche nella cultura, la replica irruenta s'impone. Presi d'assalto dall'immediatamente rilevante, rischiamo di essere travolti dal contingente.

D'altronde non si può evitare di rispondere colpo su colpo alle continue emergenze. Emergenze che hanno ormai travolto tutti i confini, sia geografici sia culturali. La politica arranca, la tecnocrazia pretende ubbidienza. Nessuno riesce però a fornire certezze o anche solo prospettive. Θ così che la politica si chiude in se stessa, spesso rompendo ogni legame con la cultura, assumendo il volto dell'arroganza. Θ così che la tecnica abbandona ogni morale, per ridursi a nichilismo al servizio del potere, senza più principi. Si profila all'orizzonte una caduta nell'anomia? La corruzione dilagante, in verità, ne può rappresentare una manifestazione. La perdita di ogni valore condiviso che dia senso alla politica ed essenza alla tecnica rischia di travolgere le nostre società lacerate? L'incapacità di dare risposte alle crisi, quali quelle migratorie o quelle finanziarie, ne costituisce, probabilmente, un terreno di prova. Per non parlare della nuova barbarie che travolge ogni idea di umana convivenza.

A fronte di questa crisi radicale di prospettive, la ricerca di un nuovo modello di sviluppo, la battaglia delle idee, la capacità di critica del reale rischiano di perdere di senso se non sono condotte in base a principi, finendo per ridursi solo alla miope strategia della convenienza. La dialettica politica s'è impoverita, compressa entro un assolutismo ideologico neoliberista, che rende omologhi i diversi e che nessuno è in grado di contrastare con efficacia. Quel che è rimasto è l'indignazione, assai diffusa, molto urlata, poco ponderata. Un sentimento di rivolta che può essere compreso, ma che sconta la rinuncia, l'estraneità, l'esodo: non basta indignarsi per comprendere, né la rabbia da sola è sufficiente per cambiare. Per interpretare il mondo c'è bisogno di ethos, logos e pathos; ma i nostri sono, invece, tempi tristi, senza morale, senza ragione, senza passione. Per cambiarlo, poi, dovremmo riscoprire una nuova grande narrazione o almeno un quadro di principi per cui valga la pena impegnarsi a costruire un altro mondo possibile; ma il nostro tempo ha attraversato ogni disincanto e ha fatto strage di tutte le illusioni.

Ciononostante, non siamo alla fine della storia. La nietzschiana «morte di dio», se ha prodotto la perdita di ogni certezza, non per questo ha cancellato la storia, la cultura, la scienza, la politica, la vita. Anzi, in qualche modo ci responsabilizza ulteriormente: solo a noi spetta creare le regole della convivenza, senza che ci si possa più rivolgere ad una teologia politica. E qui si riaffaccia il ruolo del diritto, l'esigenza di tornare a dettare norme che non siano solo pura espressione di forza, bensì manifestazione di principi di fondo. Un diritto non più teologicamente fondato, bensì storicamente determinato, in grado di riflettere sulle trasformazioni delle proprie categorie, senza perciò dover abbandonare l'essenza e i valori che ne legittimano l'esistenza. Per questo diventa necessario tornare a ragionare criticamente sui fondamentali.

Per chi vuole tornare ai fondamentali diventa essenziale non farsi dominare dal presente, non farsi distrarre dal vento effimero del tempo, ma prestare attenzione alle trasformazioni più profonde, al corso della storia, eventualmente ai suoi ricorsi. Guardare in ogni caso ai tempi lunghi.

In verità, alzando lo sguardo per cercare la rotta non si vede granché. Buia è la notte e i nostri lumi sono sempre più flebili. Tuttavia qualcosa sappiamo. Conosciamo quel che stiamo vivendo: una grande trasformazione. Un cambiamento radicale che percepiamo e nel quale siamo immersi, ma che ancora non riusciamo a decifrare. Ci sforziamo di comprendere, ma siamo ancora fermi ai titoli di testa: postmoderno, seconda modernità, globalizzazione, fine della civiltà del lavoro. Tutti sforzi definitori, analisi spesso importanti per comprendere il nuovo, per coglierne un suo aspetto, il tratto ritenuto prevalente, ma rimane inevasa la domanda di senso. Eppure, proprio un nuovo orizzonte di senso è in costruzione. Per ora esso appare avvolto tra le nebbie, nondimeno è nell'aria. Dovremmo affrettarci a riconoscerlo prima che ci trascini a nostra insaputa nel gorgo del tempo. In ogni caso è opportuno reagire. Una ricerca dei fondamentali per dare senso al mondo nuovo.


Questo libro affronta la questione della trasformazione dei concetti, delle categorie, delle credenze che hanno attraversato il movimento storico del costituzionalismo moderno. Un fascio di principi che sono stati posti alla base della costruzione delle nostre società contemporanee e che ancora definiscono degli «universali indiscussi» (ci direbbe Michel Foucault) iscritti negli Stati costituzionali, nonché in tutte le carte dei diritti sovranazionali. Non v'è dubbio, infatti, che le nostre costituzioni, le nostre società occidentali progredite siano tutt'ora fondate sul rispetto di principi fondamentali, tra i quali vengono ricompresi la democrazia, l'eguaglianza, la libertà, il lavoro, i diritti, la dignità, la cittadinanza. Anche la legittimazione dei conflitti o la rappresentanza politica sono assertivamente presupposti quali elementi propri delle nostre democrazie, non a caso qualificate come «pluraliste» e «rappresentative». Sulle riforme, infine, non solo nei testi sono chiaramente definite le modalità del cambiamento, ma in Italia s'è addirittura costruita una retorica di consenso che non ha eguali in nessun altro paese al mondo. D'altronde, questi elencati non sono stati solo principi scritti sulla carta; rappresentano invece degli snodi decisivi che, nel corso della storia e a seguito di lotte rivoluzionarie o faticose conquiste sociali, hanno permesso di fare assumere agli Stati moderni la particolare qualificazione di «democrazia costituzionale». Principi che vengono tutt'ora ritualmente — ma a volte solo tralatiziamente — richiamati, posti alla base della nostra civiltà costituzionale.

Su questi temi, contro il prevalere della velocità futurista e spensierata, vorrei invitare a riflettere. Con l'intento di rispondere ad una semplice domanda: qual è oggi il valore dei principi fondanti il costituzionalismo moderno? Un interrogativo non solo legittimo ma estremamente attuale, se si riflette sulla pluralità di significati che hanno ormai assunto tutti i principi richiamati.


Sintomatico il lavoro. Ben pochi sono coloro che giungono a sostenere che esso non rappresenti più un valore della convivenza; praticamente nessuno giunge ad affermare la scomparsa del principio costituzionale, magari sostituito dal suo opposto: il diritto all'ozio. Eppure, si discute animatamente delle sue trasformazioni, del rapporto di dipendenza che esso intrattiene con il mercato e con l'impresa, della sua perduta centralità. Dovrebbe essere naturale, allora, domandarsi che cosa è rimasto del principio lavorista oggi. L'impressione è che stiamo assistendo ad un «rovesciamento» tra le priorità del lavoro e quelle dell'economia. Un'inversione su cui sembra necessario interrogarsi, se si vuol continuare ad assegnare al lavoro un ruolo costituzionale fondamentale.

Θ anche vero che nessuno oggi parlerebbe contro i diritti, sebbene sia grande la confusione sotto il cielo. Poco ci si confronta con i doveri, molto acuta è la rivendicazione dei propri diritti, spesso pretesi contro quelli degli altri. Il rischio di un uso strumentale, provinciale, non adeguato al tempo dell'universalismo cosmopolitico rende necessaria una riflessione sul modo attuale di declinare i diritti. La loro garanzia — assieme alla divisione dei poteri — rappresenta il primo fondamento del costituzionalismo moderno. Non si ha Costituzione se non è assicurata la garanzia dei diritti, recita il testo fondativo della modernità giuridica (la Dichiarazione dei diritti del 1789). Ma quali diritti? Come assicurarli nell'era globale? Quali soggetti, quali poteri, quali politiche sono oggi in grado di fondare una democrazia che rispetti í diritti fondamentali delle persone, entro ma anche oltre i confini nazionali? Domande assai impegnative, che non è possibile continuare ad eludere.

L' eguaglianza è un'altra frontiera. Una zona di confine che oggi si tende a varcare per raggiungere un diverso territorio, quello del merito. Spesso un merito senza qualità, una competizione selvaggia, sovente «truccata», che riesce solo ad aggravare le diseguaglianze, a rafforzare le corporazioni, a far scordare i doveri di solidarietà, a porre gli uni contro gli altri, a premiare i più disinvolti. Una tendenza a semplificare ha finito per far perdere di vista la complessità dell'eguaglianza, la cui portata rivoluzionaria sembra essere stata dimenticata. Un fondamentale — quello dell'eguaglianza — che ha attraversato l'intera storia dell'umanità, declinato in modi assai diversi, ma che sempre ha rappresentato una leva per il cambiamento sociale e che si pone alla base di ogni progetto di emancipazione collettiva, di ogni strategia di sviluppo della personalità dei singoli. Un orizzonte che dovremmo riscoprire, se vogliamo dare nuova dinamicità al nostro esangue sistema sociale e politico. Cominciamo a rifletterci.

Oltre l'eguaglianza, la libertà. Spesso considerata alla stregua di un assoluto trascendente che tutti vorrebbero, ma solo per sé. Assieme all'eguaglianza, la libertà da sempre ha rappresentato íl motore della storia. Sin dall'origine del concetto, però, è stato chiaro che essa poteva assumere diverse forme e sostanze. Non solo la grande dicotomia tra la libertà degli antichi e quella dei moderni vale a sostenere quest'affermazione di relativismo storico, ma anche la constatazione logica e filosofica che la libertà assoluta (la libertà di tutti su tutto) può essere immaginata solo entro uno stato di natura, prima della costituzione della società civile. Entro la società — ricorda Hans Kelsen — la libertà assoluta si pone contro il valore e l'essenza della democrazia stessa. Dunque essa deve essere regolata, altrimenti si traduce in sopraffazione, finendo inevitabilmente per prevaricare le libertà degli altri. Senonché, la libertà ha una sua naturale propensione a varcare i confini, a rompere gli argini. A delirare, secondo l'etimologia propria del termine: uscire dal solco tracciato.

Se questo è vero per tutte le libertà che un ordinamento costituzionale definisce e regola, ciò assume un significato speciale per la manifestazione del pensiero. Si è sempre ritenuto che questa particolare libertà, negli ordinamenti democratici, dovesse essere garantita al massimo grado possibile (fatti salvi solo il limite costituzionale del buon costume e i reati di offesa alla dignità altrui). Eppure, non solo i reati d'opinione sono diffusi, ma si avverte anche una crescente insofferenza nei confronti dei pensieri più dissonanti. Quasi che la progressiva omologazione dei costumi e un diffuso conformismo culturale si sentissero scoperti di fronte alle sfide della diversità nei modi di pensare delle sempre più estese minoranze critiche. Ma è, in particolare, ai confini della libertà di manifestazione del pensiero che è apparso utile guardare. Non tanto al pensiero genericamente critico, ma ancor più a quello «eversivo». Quel pensiero cioè che, secondo una risalente tradizione dottrinaria e politica, si pone contro l'ordinamento costituito, avverso l'ordine pubblico. Quali limiti possono valere? Entro il nostro ordinamento costituzionale qual è il rapporto tra libertà di manifestazione del pensiero e ordine pubblico democratico? C'è una copiosa e controversa giurisprudenza costituzionale sul punto che ci può orientare. Un buon inizio, mi sembra, per riflettere più estesamente sulla libertà dei contemporanei.

Il conflitto non è una semplice libertà (di contrapporsi all'altro da sé). Θ il tratto più specifico di ogni società, rappresenta la ragione stessa dell'esistenza del diritto. Il nomos nasce per la necessità di dare un ordine al conflitto, trovare un modo di risoluzione alle controversie tra gli uomini e le donne che vivono sulla medesima terra. Un vero principio fondativo del diritto, dunque. Nelle nostre società plurali, inoltre, il conflitto si è esteso, sebbene sia diventato più difficile riconoscerlo; spesso negato, riesplode in forme e modi a volte imprevedibili. Crollati i muri politici e ideologici del Novecento, finita la lotta di classe dal basso (iniziata quella dall'alto), dopo la Guerra fredda, qualcuno s'è illuso di vivere in un mondo finalmente pacificato. Doppio inganno. In primo luogo, si è voluto colpevolmente dimenticare che il conflitto è un valore che la nostra storia costituzionale ha elevato a principio di legittimazione del cambiamento, iscrivendolo nei tratti pluralistici della società. Si tratta, dunque, di governare il conflitto — deciderlo, neutralizzarlo o legittimarlo — non invece di escludere che esso possa esprimersi.

Il secondo errore è quello della sottovalutazione della moltiplicazione dei conflitti, che società sempre più aperte e multiculturali innescano. I conflitti, se non trovano forme di risoluzione o di legittimazione, rischiano di degenerare, permanere senza soluzione e definire uno stato d'eccezione permanente. Ed è questo – il protrarsi dello stato d'eccezione – il vero rischio che corrono le nostre società democratiche incapaci di regolare le condotte sociali conflittuali. Riflettere sui conflitti e sulle modalità di risoluzione è un modo per cercare di comprendere l'essenza e lo scopo del diritto, di quello costituzionale in specie.

Se al diritto si assegna il compito di dare un ordine alla comunità e fornire una soluzione ai conflitti che si manifestano entro un dato territorio, fondamentale diventa definire chi siano í soggetti della convivenza. In epoca moderna è attorno all'idea di cittadinanza che si sono precisati i principi della convivenza. A ben vedere l'intera storia del costituzionalismo può essere interpretata tramite lo studio delle trasformazioni del concetto di cittadinanza. Non sembra, però, di poter dire che di tale rilievo si sia ancora coscienti. In realtà, negli ultimi tempi si registra un'utilizzazione disinvolta, contingente, per nulla consapevole del concetto. Della cittadinanza s'è fatto di recente un uso a fisarmonica: ora per estendere ai residenti all'estero diritti politici, ora per negare ai residenti in loco ogni diritto ad essere integrati. Ormai si oscilla tra un'invertebrata cittadinanza cosmopolitica e una escludente cittadinanza identitaria. C'è più di un nodo da sciogliere. Diventa urgente tornare a prendere in considerazione la strutturale ambiguità del concetto, oscillante tra «partecipazione» e «appartenenza», tra una dimensione naturalmente inclusiva e una opposta tendenza che porta a distinguere artificialmente tra le persone. Una cittadinanza per garantire i diritti fondamentali di tutti e di ciascuno o una cittadinanza per separare, distinguere, negare i diritti di alcuni rispetto ai diritti di altri? Θ proprio su questo crinale che si giocano le sorti dei diritti costituzionali dei soggetti (cittadini e non) che operano entro un dato territorio.

Non solo ai cittadini, ma ad ogni essere umano va garantita la dignità. Dopo l'abominio della seconda guerra mondiale, su quest'assunto si sono edificate le società democratiche. Un'antica tradizione filosofica e una risalente costruzione giuridica sono state poste alla base del diritto costituzionale contemporaneo, a fondamento del pactum consociationis. Un giuramento è stato fatto: mai più Auschwitz. E la dignità, intangibile, è stata collegata indissolubilmente ai diritti umani, indicata come il principio costitutivo di ogni comunità. La dignità dei diritti, dunque, è parso il modo per assicurare le società contro la vergogna. Eppure, anche questo meta-valore costituzionale rischia di perdere di consistenza. Un uso disancorato dalla drammaticità della storia che lo aveva posto al centro del sistema giuridico e costituzionale occidentale ha finito per renderlo indeterminato. Quasi che ciascuno possa stabilire qual è la dignità da rispettare. Anzi, qualcuno comincia persino a dubitare che si debba sempre considerare la dignità altrui. Non quella dei terroristi, non quella dei barbari, non quella dei diversi. Kant si rivolterebbe nella tomba. A noi non rimane che tornare ad interrogarci su cosa sia la dignità oggi nel nostro ordinamento costituzionale.


Ognuno di questi fondamentali si intreccia con la questione più comprensiva di tutte: qual è lo stato delle nostre democrazie? Non è facile rispondere ad una domanda così nettamente formulata. Della democrazia, infatti, si sono sempre date tante accezioni quanti sono gli ordinamenti giuridici esistenti e quelli immaginati. Persino le dittature – lo ricordava Carl Schmitt nel 1928 – sembrano poggiare su un fondamento democratico. Allora, se si vuol prendere sul serio la nostra democrazia, appare necessario non limitarsi a esprimere un particolare – e magari ben motivato – punto di vista, diventa essenziale specificarne storia e qualità. Ed è proprio intrecciando storia della democrazia e qualità del nostro ordinamento costituzionale che si può pervenire alla conclusione che la risposta sullo stato della nostra democrazia dipende dal — anzi si identifica con il — rispetto dei principi fondamentali della Costituzione. Ed è proprio a questo punto che la riflessione, anziché terminare, si può riaprire. Se non vogliamo consolarci con una presunta democrazia ideale — quella disegnata nella nostra Costituzione formale — dobbiamo spingerci a verificare lo stato reale dell'attuazione dei principi costituzionali. La crisi della democrazia si identifica per noi con la crisi della Costituzione.

Ma la democrazia e la Costituzione sono in crisi? Se riflettiamo sul carattere più tipico che vale a contrassegnare la democrazia dei moderni — la rappresentanza politica — c'è da preoccuparsi. Il carattere rappresentativo delle democrazie moderne sta vivendo, infatti, un tempo di eclisse: dietro la luna sono scomparsi tanto i rappresentanti quanto i rappresentati, mentre lo strumento che le nostre costituzioni hanno individuato per collegare gli uni agli altri (i partiti) appaiono navicelle sperdute nello spazio galattico. Politica e cultura sono attualmente accecate da un altro sole, quello della governabilità. Confusi dai riflessi di questa luce non vedono che si sta deteriorando il terreno su cui si legittima il loro stesso potere. Senza rappresentanza effettiva i poteri costituiti perdono la legittimazione a governare in nome del popolo. Può darsi che in tal modo si possa raggiungere il massimo di governabilità (sebbene personalmente ne dubiti), ma sembra opportuno riflettere ancora un po' prima di rinunciare a duecento anni di storia che sulla rappresentanza politica hanno costruito il rapporto controverso e asimmetrico tra governati e governanti. C'è un istituto che nel corso della storia ha accompagnato le vicende della rappresentanza: il libero mandato. Appare sintomatico che oggi, in piena crisi della rappresentanza, siano in molti a volersene affrancare, per governare senza ulteriori ostacoli. Porlo di nuovo al centro della nostra riflessione può essere un modo per tornare a riflettere sul fondamento della rappresentanza politica.

Se ci si rivolge a considerare il sistema costituzionale nel suo complesso, infine, un coro unanime inneggerà alla riforma. Ma quale riforma? In pochi sono disposti ad interrogarsi sul merito. Riforme di continuo annunciate, a volte spericolatamente approvate da incerte maggioranze, magari a seguito di deroghe alla Costituzione e a forzature procedurali. Al fondo v'è che della Costituzione e della sua riforma s'è impadronito il «sovrano»: sono le diverse maggioranze politiche che ormai governano il cambiamento costituzionale, venendo così a tradire la natura storica e teorica che il costituzionalismo moderno aveva assegnato al «contratto sociale». Non uno strumento per assicurare i poteri e stabilizzare i governi, bensì, all'opposto, un patto dei governati per dividere i poteri e assicurare i diritti. Per recuperare questa dimensione perduta vale la pena fermarsi a riflettere, prima che sia troppo tardi.


I capitoli che compongono questo volume ruotano tutti attorno all'idea che le nostre sofferenti democrazie costituzionali debbano essere ricostruite, non invece nichilisticamente abbandonate o allegramente disattese. La consapevolezza delle profonde trasformazioni sociali, politiche e culturali non permette infatti di ancorarsi unicamente alle certezze del passato, limitando lo sforzo analitico alla constatazione della sempre maggiore distanza tra la miseria del presente e i «sacri» principi enunciati nei testi costituzionali. Non deve però neppure indurre alla resa, decretando la fine dell'esperienza storica del costituzionalismo moderno che ha retto la civiltà giuridica negli ultimi duecento anni, magari per abbracciare nuove visioni oggi più alla moda (dalla tecnocrazia funzionalista al neoliberismo totalitario). Ciò di cui abbiamo realmente bisogno è una maggiore capacità di critica dell'esistente che sia anche in grado di definire nuove prospettive. Da troppo tempo, invece, il pensiero critico sembra aver perduto la propria radicalità, schiacciato dal peso del presente. Dovremmo cercare di recuperare un poco lo spirito smarrito, sempre che si voglia cambiare lo stato delle cose, ponendoci all'altezza del tempo futuro, non accontentandoci della gestione del contingente.

Uno dei testi più importanti del Novecento è riuscito nell'intento di criticare l'esistente e, al contempo, proporre nuove prospettive. Mi riferisco al marxiano Per la critica dell'economia politica. Nell'introduzione l'autore richiama la dantesca condanna degli ignavi con parole che faccio mie: «Sulla soglia della scienza, come sulla porta dell'inferno, si deve porre questo ammonimento: Qui si convien lasciare ogni sospetto / Ogni viltà convien che qui sia morta».

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8. QUAL Θ LO STATO DELLA NOSTRA DEMOCRAZIA COSTITUZIONALE?


L'indagine su «qual è lo stato della nostra democrazia costituzionale» può essere svolta da diversi punti di vista. Se si prendono in considerazione le trasformazioni storiche, politiche, sociali e culturali della realtà, per valutare la permanenza o meno dei presupposti materiali che sostengono il disegno costituzionale di democrazia, non possono che svolgersi preoccupate e, per alcuni profili, scoraggianti considerazioni. Basta un rapido ma significativo elenco dei punti di crisi della odierna teoria democratica: la liquefazione dei partiti, la personalizzazione della politica, gli squilibri tra i poteri, la marginalizzazione del Parlamento, la primazia illimitata e invasiva dell'esecutivo, la crisi della dimensione pubblica del potere, l'evidente perdita di un'etica collettiva che si è accompagnata alla progressiva estraneità della politica dalla società, la passività delle masse disorganizzate e abbandonate a sé, la manipolazione dell'ideologia, il ritorno alla dimensione quasi esclusivamente privata della libertà e la sua non lineare evoluzione, l'accentuarsi delle disuguaglianze sociali, politiche e culturali, sempre meno attente alla dimensione partecipativa e politica dei cittadini alla cosa pubblica, lo smarrirsi entro gli orizzonti sconfinati della globalizzazione delle democrazie nazionali, l'assenza di soggetti in grado di rappresentare, il frantumarsi del corpo sociale e la mancanza di soggettività comuni in grado di essere rappresentate, l'esclusione di molti dalla possibilità di partecipare alla res publica. Tutto ciò e altro ancora mostrano con chiara evidenza lo stato di sofferenza della nostra democrazia costituzionale, la distanza, che sembra a volte incolmabile, tra democrazia in senso formale e democrazia in senso materiale. Θ questa la crisi della democrazia oggi, che è immediatamente anche una crisi costituzionale; a riprova della tesi qui sostenuta di una sostanziale identificazione tra ragioni della democrazia e tenuta della Costituzione.

Oltre la crisi, affianco ai fattori che concorrono ad indebolire lo stato delle nostre democrazie costituzionali, si scorgono ancora i conflitti, le tensioni, gli ideali, i soggetti che possono dare nuova «qualità» al sistema. Nella situazione odierna diventa allora urgente tornare a riflettere sulla qualità della nostra democrazia costituzionale, sui presupposti necessari affinché questa non si riduca ad una formulazione esangue.

Il futuro della democrazia costituzionale, dunque, non è scontato. Emerge anzi come un grande terreno di scontro, dove il vento della storia spira con forza, sospingendoci verso un indeterminato progresso. A noi spetta, in queste condizioni, operare per costruire il tempo che verrà. Non è neppure sufficiente avere la consapevolezza che le trasformazioni storiche ripropongono oggi con forza la questione democratica. Se si vuole permanere entro una prospettiva di democrazia strutturata per come si è andata definendo nel corso della storia e nel testo della nostra Costituzione, non ritenendo ci si possa accontentare di più pacificate e neutre visioni formali o meramente procedurali di democrazia, deve essere precisato che un effettivo «governo del popolo» potrà essere assicurato solo da soggetti politici attivi, i quali dovranno garantire le condizioni sostanziali alle quali abbiamo sin qui fatto riferimento (eguaglianza e partecipazione effettiva, libertà del demos, etica pubblica e rispetto del nomos primordiale e della communitas civium). Nella modernità giuridica, poi, è necessario che queste condizioni sostanziali siano forgiate entro gli schemi della rappresentanza politica, presupposto necessario — come s'è detto — di ogni possibile idea di democrazia negli ordinamenti contemporanei.

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II. CONFLITTI. DEMOCRAZIA Θ CONFLITTO


                          Il conflitto è componente integrante della vita umana,
                                         si trova dentro di noi e intorno a noi;
                                       talvolta riusciamo abilmente ad evitarlo,
                               ma altre volte dobbiamo affrontarlo direttamente.

                                  Sun Tzu, L'arte della guerra, VI-V secolo a.C.



1. CHE COS'Θ IL DIRITTO E A COSA SERVE


Viviamo tempi in cui è difficile cogliere le trasformazioni in atto. Qualcuno può accettare di buon grado o persino giustificare questa incapacità di vedere dove andiamo, altri, invece, possono vivere con tormento la fase di odierna confusione. In ogni caso vi è un dato di fondo che dovrebbe preoccupare ogni studioso: la dottrina non riesce più a interpretare i grandi mutamenti della realtà con gli strumenti tradizionali.

Θ questo che mi spinge a pensare che si debba ritornare alle questioni ultime, ripensare criticamente le categorie che si pongono a fondamento ermeneutico delle nostre scienze. Dovremmo mettere in discussione tutti gli 'universali indiscussi' che sostengono le nostre più profonde convinzioni, ovvero tutti i concetti di fondo che in forza della tradizione siamo abituati a dare per assodati.

In questa prospettiva, è evidente che le prime e più radicali domande che può porsi un giurista sono: «che cos'è il diritto?» e «a cosa serve?».

Dal punto di vista statico («che cos'è il diritto?»), può dirsi che al diritto si assegna il compito di regolare le condotte sociali ponendo un ordine alla convivenza. Non tanto dunque definire astratte regole di condotta – «norme», secondo le tante teorie normative – quanto definire un sistema di relazioni concrete che permettano di creare e poi conservare un ordine entro la società – ordo ordinans e ordo ordinatus, secondo le tante teorie ordinamentali. Θ dunque il carattere «sociale» che qualifica il diritto, almeno fin tanto che a esso si vuole attribuire il compito di fondare la società civile. In assenza di un diritto in grado di regolare le condotte sociali si vivrebbe in uno «stato di natura» dove ognuno ha un solo «diritto»: quello assoluto su ogni cosa, espressione di una libertà incondizionata, intesa come assenza di vincoli, ma proprio per questo una libertà dispotica. Una situazione per nulla auspicabile – ci insegnano i contrattualisti – poiché essa ha un costo terribile, quello dell'incombente guerra civile che domina lo stato di natura (Hobbes) o dell'impossibilità di trovare giustizia (Locke). Questa l' essenza del diritto, almeno dal punto di vista statico.

Dal punto di vista dinamico («a cosa serve?») – e in via logicamente consequenziale – può dirsi che compito del diritto sia quello di dare soluzione ai conflitti che operano all'interno della società. Regolando le condotte si definisce, infatti, la trama degli interessi, fornendo una soluzione «giuridica» al loro potenziale – ma anche incombente – scontro. Θ questa la dimensione sostanziale del diritto, come ci ricorda ad esempio Jhering, quando afferma che il diritto è dominato dagli interessi e dal conflitto tra essi. Questo è lo scopo del diritto, almeno dal punto di vista dinamico.

Io credo che da queste premesse — diciamo di carattere definitorio — discenda qualcosa di importante ed impegnativo sul piano dell'epistemologia. Lo dirò qui nei termini più brevi e assertivi possibili: ritengo che la storia del diritto possa essere interpretata come una storia dei diversi modi di risoluzione dei conflitti. In questa prospettiva, può anche dirsi che la comprensione realistica del diritto finisce per coniugarsi indissolubilmente con una parallela «teoria del conflitto» che si pone alla base del diritto stesso.


2. I CONFLITTI 'IRRISOLTI': ANTIGONE, SOCRATE, GESΩ


Tutto ciò in tesi. Passando all'analisi, mi limiterò a prendere in considerazione solo alcune questioni di carattere più generale.

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III. EGUAGLIANZA. IL DIRITTO E DI TUTTI: LA PORTATA RIVOLUZIONARIA DELL'EGUAGLIANZA


                  Siate sempre capaci di sentire nel più profondo di voi stessi
        ogni ingiustizia commessa contro chiunque in qualsiasi parte del mondo:
                                    è la qualità più bella di un rivoluzionario

                                    Ernesto Che Guevara, Lettera ai figli, 1965



1. PREMESSA


L'aspirazione rivoluzionaria all'eguaglianza ha attraversato l'intera storia dell'umanità. Essa s'è posta a fondamento dei diversi modelli storici di società ed ha rappresentato il valore unificante di ogni ordinamento democratico: dalla nascita dell'idea di democrazia, entro la limitata cerchia della città-Stato, alle prospettive future che si scorgono negli spazi sconfinati della postmodernità. Il «progetto costituzionale» dell'eguaglianza ha costantemente caratterizzato le diverse forme di governo e continuerà a delimitare i contesti teorici entro cui si andranno a sviluppare i rapporti politici e le dinamiche sociali.

Qui mi vorrei soffermare sui quattro tornanti che hanno contrassegnato la storia dell'eguaglianza nella riflessione costituzionalistica con l'esplicito proposito di dimostrare che essa, assieme alla libertà, si pone a fondamento: a) prima della democrazia, b) poi del costituzionalismo democratico moderno, c) per attraversare, in seguito, la fase alta del costituzionalismo democratico sociale del secondo dopoguerra, d) sino a riproporsi oggi come elemento costitutivo di un possibile costituzionalismo in grado di operare in società transnazionali e multiculturali.

Ma andiamo per ordine e volgiamo lo sguardo alle origini.

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5. EGUAGLIANZA E DIGNITΐ


L'eguaglianza nell'antichità – s'è inizialmente rilevato – scontava una natura «elitaria», ma si conformava anche in base ad un collegamento diretto con il sistema politico al fine di indirizzare il governo della polis. Non poteva concepirsi un'eguaglianza senza potere. Per questa ragione essa si poneva a fondamento della democrazia, si manifestava come diritto di partecipazione alla vita associata, si giustificava tramite un'etica sociale. Era quest'intreccio che permetteva di configurare un vero e proprio «progetto costituzionale» dell'eguaglianza.

C'è da chiedersi ora come si sia venuto a conformare nella modernità giuridica il collegamento del principio d'eguaglianza con il potere.

Lo scudo dell'eguaglianza solo formale – anche in questo caso – ha difeso il potere dagli assalti delle moltitudini emarginate, ma la forza rivoluzionaria del principio non s'è potuta tener a lungo fuori dalla cittadella della politica.

Così, nell'Ottocento, si venne a costruire uno Stato sempre più proteso alla tutela degli interessi dei proprietari e dell'oligarchia al potere: lo Stato monoclasse ha dominato per gran parte del XIX secolo. Non può dirsi, peraltro, che non avessero alcun valore le proclamazioni dell'eguaglianza sancite nelle leggi del tempo, in quelle Costituzioni o Statuti che i sovrani furono costretti a concedere dopo i moti del 1848. Si trattava però di garantire un'eguaglianza che si fermava fuori dai cancelli delle istituzioni statali, non in grado di farsi strumento di partecipazione alle decisioni pubbliche, i soggetti rimanendo esclusi dalla formazione del nomos.

L'ideologia egemone del tempo – può ripetersi anche in questo caso – si adoperò per attenuare, sfumare, confondere la portata di un principio che, alla fine, nonostante tutto, sarebbe riuscito a trasformare il volto del potere, riaffermando il suo carattere di strumento di democrazia.

Tre passaggi cambiarono lo stato di cose esistenti ed aprirono le porte serrate dello Stato alle moltitudini, ai diversi, ai non eguali.

Anzitutto la lotta per l'allargamento del suffragio, che permise a sempre più vasti settori della popolazione di «farsi Stato», al demos di entrare nei palazzi del potere, nei luoghi della rappresentanza politica, in Parlamento dove – a quel tempo – il kratos rinveniva il proprio primato.

Sarebbe stata, però, una conquista della democrazia dimidiata se ci si fosse limitati al suffragio, se non si fosse organizzata la partecipazione, se non si fosse provveduto a rendere sostanzialmente eguali tutti gli attori politici, quale che fosse la loro provenienza, condizione culturale o sociale. Questo compito venne assolto dai partiti politici di massa. Fortemente legittimati, strettamente legati ai soggetti i cui interessi rappresentavano, veri «intellettuali collettivi» che assunsero sulle proprie spalle il ruolo di organizzatori del consenso e promotori del cambiamento. Oggi i partiti non rappresentano più quasi nulla, cionondimeno non può negarsi che furono a lungo lo strumento indispensabile per realizzare la partecipazione degli uguali.

Ma ci volle un trauma, spaventoso, disumano per far giungere a maturazione la storia dell'eguaglianza. Per far tornare con i piedi per terra il principio che lo sostanzia, per far abbandonare il cielo dell'astrattezza cui la difesa dell'ordine liberale lo aveva relegato, per fargli riassumere la pienezza del suo significato.

E il trauma fu la guerra. Non tanto un'altra guerra, un'altra tra le tante guerre che hanno funestato la storia, quanto quella dichiarata contro l'umanità intera in nome della superiorità di un popolo che si identificava senza distinzioni nel capo, in base ad un principio identitario che oltrepassava a piè pari ogni idea di eguaglianza tra diversi, assorbendo i tanti nell'uno e condannando il diseguale come «nemico», in una spirale che condusse il più grande teorico della democrazia identitaria a scrivere in modo crudo e disperato che i concetti di amico e nemico «acquistano il loro significato reale dal fatto che si riferiscono in modo specifico alla possibilità reale dell'uccisione fisica». La guerra di distruzione che inevitabilmente ne seguì fece comprendere l'abisso senza morale in cui poteva far precipitare la volontà di essere non più eguali ma unici. Dopo l'ingiustificabile razzismo, la follia del dominio del mondo, l'agghiacciante disumanizzazione di Auschwitz, la strage di tutti gli innocenti e di tutte le illusioni, non si poteva più negare cittadinanza al diritto di essere eguali, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni personali e sociali. Ma divenne anche finalmente evidente che non bastava dichiarare il principio in base al quale tutti devono essere eguali.

Io credo che sia stata la riscoperta della dignità dell'uomo a permettere il passaggio dal formalismo egalitario al sostanzialismo di cui al secondo comma dell'articolo 3. Quell'articolo, che deve essere unitariamente inteso, e che si apre con l'affermazione della «pari dignità sociale» di tutti i cittadini. E se tutti entro la società devono essere considerati parimenti degni è chiaro, o almeno è consequenziale, che non ci si possa più limitare a riconoscere una condizione soggettiva di non discriminazione, ma diventa necessario garantire l'effettività del diritto all'eguaglianza. Attraverso l'intervento attivo dello Stato, ma anche della società: è la «Repubblica» (Stato e società assieme), infatti, che viene impegnata nella ricerca dell'eguaglianza, ma anche della libertà. Ad essa si assegna il compito di «rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica economica e sociale del paese».

Non ci soffermeremo in questa sede ad esaminare la formulazione adottata in Costituzione. Vorrei qui solo evidenziare come in essa vi è l'affermazione limpida del ruolo propulsivo dell'eguaglianza, che, come ci hanno mostrato gli antichi, la collega al cambiamento politico e alla libertà dei singoli. Il «pieno sviluppo della persona umana» da un lato e «l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica economica e sociale del paese» dall'altro, rappresentano le ragioni profonde — «ultime», direi — del progetto costituzionale dell'eguaglianza. Una portata rivoluzionaria, íncomprimibile, che si conforma ormai come un dovere costituzionale, non più una semplice libertà.

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5. DIFESA DELL'ORDINAMENTO DEMOCRATICO. PENSIERO E AZIONE


Forse però — sul piano teorico-sistematico — tanto varrebbe affrontare la questione di fondo — per alcuni l'equivoco — che si pone alla base della ricostruzione della Corte costituzionale e di tanta riflessione sui limiti alla libertà di manifestazione del pensiero per salvaguardare l'ordinamento democratico, che finisce poi — come s'è visto — per confondersi, fino ad identificarsi con la salvaguardia dell'ordine pubblico tout court. Ci si potrebbe cioè chiedere se un pensiero possa mai effettivamente e concretamente attentare all'ordine democratico.

Se si dovesse sciogliere negativamente l'equivoco, rimarrebbe aperto il problema, cui s'è già accennato in precedenza: come può (deve) difendersi un ordinamento democratico dai suoi nemici?

E la risposta potrebbe essere banale: non impedendo pensieri (pur quando ritenuti, in forza di un'opzione necessariamente ideologica, sovversivi o comunque antisistema), ma vietando azioni, qualora esse siano illecite. Tra le azioni illecite rientrerebbero certamente anche certi reati (dall'omicidio alla violenza su cose o persone) che possono ritenersi compiuti (anche) al fine di contrastare l'ordinamento democratico. Ma sarebbe l' azione in quanto illecita ad essere perseguita, non il pensiero per quanto sovversivo.

Si potrebbe sempre giustamente osservare che può esservi un collegamento stretto tra il pensiero e l'azione, anzi in alcuni casi non sono separabili l'uno dall'altro (si pensi all'incitamento alla rivolta, che contestualmente si traduca in azione rivoltosa). Ma ciò non muterebbe i termini della questione, almeno per i profili che qui interessano. Sarebbe pur sempre l'azione ad essere perseguitata anche se determinata dal pensiero. In questi casi, il pensiero finirebbe per costituire la motivazione dell'azione rilevando dunque anche sul piano ricostruttivo della fattispecie penale: rappresentando l'elemento psicologico, potendo incidere nell'ambito processuale ed ai fini della commisurazione della pena. La motivazione dell'azione potrebbe farsi valere come aggravante, ovvero – perché no – come attenuante, ove le motivazioni ideologiche che hanno generato l'azione illecita dovessero rivelarsi meritevoli di apprezzamento (si pensi al caso di un blocco stradale o di uno sciopero politico attuato al fine di tutelare beni costituzionalmente protetti ovvero a difesa dell'ordinamento democratico e dei suoi principi costituzionali). In ogni caso, troverebbe conferma il punto essenziale: ad essere perseguita sarebbe l'azione non il pensiero, quest'ultimo non può essere limitato fintanto che non si trasforma in azione; quando poi si traduce in azione perde il carattere di pensiero. Una banalità: «la banalità del bene».

Meno scontate, a volere essere conseguenti, appaiono le logiche conclusioni. Diventerebbe infatti necessario revocare in dubbio la legittimità di tutti i reati di opinione latamente intesi, compresi quelli che si ritengono posti in essere in contrapposizione all'ordinamento democratico.

Una conclusione che può apparire inattuale in tempi come i nostri, di debolezza e crisi dei sistemi democratici, in cui si avverte un crescente timore nei confronti delle opinioni radicalmente critiche, ovvero dei pensieri espressione di diversità se non addirittura di estraneità rispetto all'ordinamento dato; a questi si tende a rispondere con una volontà di difesa delle proprie certezze, considerando eversive le idee a prescindere da ogni valutazione dell'azione e dalla responsabilità individuale che solo l'agire può rendere attuale, effettiva e concreta.




6. PENSIERO CRITICO E DEMOCRAZIA PLURALISTA


Proprio quest'ultima considerazione mi porta ad occuparmi del secondo approccio possibile alla tematica che ci interessa, così come inizialmente rilevato.

Una differente prospettiva che, anziché andare alla ricerca dei limiti da porre alla libertà di manifestare il pensiero per difendere l'ordinamento democratico, si propone di assumere detta libertà al fine di strutturare ed arricchire l'ordinamento e la democrazia. Appare questo un punto di vista più aderente alla sensibilità del costituente, espressa in una limpida scelta sul tipo di democrazia iscritta nel nostro sistema costituzionale. Θ chiaramente individuabile in Costituzione, in effetti, un'opzione a favore della democrazia aperta e pluralista, contro altri tipi di democrazie di carattere chiuso o presidiato. Basta pensare al sistema delle libertà, appunto, ma anche al ruolo dei partiti, delle associazioni, delle formazioni sociali, allo stesso articolo 2, ai diritti della persona, alle garanzie politiche e a quelle assicurate alle minoranze: è, insomma, l'insieme del sistema e dei principi posti a fondamento legittimante il nostro ordinamento che sostanziano e descrivono il tipo di democrazia costituzionale prescelto.

Questa scelta di sistema indurrebbe a ritenere che la libertà di manifestazione del pensiero debba essere intesa in funzione espansiva, non tanto dunque da limitare, quanto da favorire nella sua possibilità di espressione. Compito della Repubblica sarebbe allora quello di garantire il pluralismo, in generale, e di non ostacolare la critica e il dissenso in particolare, anche il dissenso radicale, protetto in qualche modo (fin tanto che non si traduce in azione criminale, s'intende) da un favor costituzionale. Anzi proprio la necessità di dare voce a chi è minoranza o a chi non ha gli strumenti per farsi ascoltare, dovrebbe portare a prospettare un intervento attivo, di carattere regolatívo e di sostegno da parte della Repubblica, a garanzia della pari dignità delle opinioni e al fine di rimuovere gli ostacoli che limitano di fatto la libertà e l'eguaglianza.

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V. LAVORO. DALLA CENTRALITΐ DEL LAVORO ALLA TEOLOGIA ECONOMICA


                                 Il capitalismo è una pura religione culturale,
                                forse la più estrema che si sia mai data. [...]
    Il capitalismo è la celebrazione di un culto sans rκve et sans merci. [...]
                   Il capitalismo è, presumibilmente, il primo caso di un culto
                                 che non toglie il peccato, ma genera la colpa.

                           Walter Benjamin, Il capitalismo come religione, 1921

1. IL ROVESCIAMENTO


«La Costituzione – scrive Gustavo Zagrebelsky – pone il lavoro a fondamento, come principio di ciò che segue e ne dipende: dal lavoro, le politiche economiche; dalle politiche economiche, l'economia. Oggi, assistiamo a un mondo che, rispetto a questa sequenza, è rovesciato: dall'economia dipendono le politiche economiche; da queste i diritti e i doveri del lavoro». Vorrei qui brevemente riflettere sulle ragioni del «rovesciamento» delle priorità tra lavoro ed economia.

Non si tratta solo di riconoscere un'evoluzione storica (che ha trasformato il mondo del lavoro rendendolo più debole e marginale), né ci si può limitare a costatare il diverso bilanciamento che si va affermando rispetto al passato tra differenti valori costituzionali (premiando oggi l'economia, così come ieri il lavoro). Θ un passaggio d'epoca che bisogna considerare: la fine della «civiltà» del lavoro e l'avvento della società mercatoria. Θ il «paradigma costituzionale» il vero oggetto della riflessione'.




2. IL PARADIGMA COSTITUZIONALE DEL LAVORO


L'aver posto in Costituzione il lavoro a fondamento della Repubblica democratica italiana («L'Italia è una Repubblica democratica, fondata sul lavoro»), infatti, non comporta solo l'attribuzione di un ruolo centrale al principio lavoristico in sé e per sé considerato, ma — ben di più — assegna a questo principio il compito di modellare per intero il sistema complessivo dei valori costituzionali. Θ così che dal lavoro — secondo Costituzione — dipendono le determinazioni economiche e la realizzazione delle politiche sociali. La promozione della piena occupazione, la tutela dei diritti fondamentali, l'intero sistema di welfare trovano nelle garanzie collegate con il diritto al lavoro il proprio fondamento materiale. La stessa libertà e la dignità delle persone sono collegate alla dimensione del lavoro (esplicitamente all'articolo 36, implicitamente nel sistema costituzionale complessivo, in particolare all'articolo 2). Un lavoro tutelato in tutte le sue forme ed applicazioni (art. 35). Così anche la partecipazione effettiva di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese è una condizione per il conseguimento della eguaglianza sostanziale (articolo 3, comma 2). Non una Repubblica dei lavoratori, come pure fu proposto in Assemblea costituente dalla sinistra, bensì il lavoro inteso come «attività» o «funzione» che, da un lato, possa concorrere «al progresso materiale e spirituale della società» (articolo 4), dall'altro, permetta tramite la cura della Repubblica, «la formazione e l'elevazione professionale» dei singoli (articolo 35). In sostanza, l'intero ordine economico e sociale ruota attorno al principio-valore del lavoro. Θ la forma di Stato, l'essenza del «patto costituzionale», che tramite il lavoro si esprime. Se è vero che il Novecento è stato il secolo della civiltà del lavoro, la Costituzione l'ha rappresentato pienamente e consapevolmente.




3. LA TEOLOGIA ECONOMICA


Oggi l'inversione è evidente: è dall'economia (non solo quella reale — collegata alla produzione di merci e dunque in fondo ancora al lavoro vivo — ma anche e soprattutto quella finanziaria — espressione di ricchezza immateriale, se non proprio di rendite parassitarie) che derivano le politiche economiche, i diritti del lavoro, la vita delle persone, la dignità e la libertà dei singoli. L'intera società, l'ordine sociale costituito, le prospettive individuali e collettive vengono a dipendere dalle logiche imposte dalle controverse politiche economiche e dagli instabili equilibri finanziari. Ci si può allora legittimamente chiedere se non si vada affermando — in via di fatto — una Repubblica fondata sull'economia e sulla finanza.

Non può neppure dirsi che si stia assistendo ad un'improvvisa metamorfosi del sistema costituzionale. La tensione tra lavoro e mercato, tra diritti ed economia ha attraversato l'intera storia moderna, definendo un campo classico del conflitto sociale.

Una forte tensione che già da tempo – da oltre trent'anni – ha visto le ragioni del lavoro cedere progressivamente il passo a quelle dell'economia. Vero è però che questo lento rovesciamento ha avuto nel periodo più recente una brusca e insolita impennata. Proprio nel momento in cui appaiono evidenti i limiti delle politiche neoliberiste che sono alla base della grande crisi che stiamo attraversando.

Ci si sarebbe attesi, in effetti, una riflessione critica, la rimessa in discussione della filosofia della scuola di Chicago, delle politiche thatcheriane e reaganiane che hanno dominato sin dagli anni Ottanta e che hanno condotto alla più grave recessione della storia del capitalismo.

E invece la ripresa delle politiche neoliberiste ha assunto ormai forme teologiche, di incontrastata verità cui tutto sacrificare, il lavoro in primo luogo. L'Europa – ben più che nelle altre parti del mondo – si è posta al centro di questa riscoperta della fede. Una religione che delega al dio mercato e alla finanza la salvezza delle nostre anime (ma solo delle anime, non certo dei nostri poveri corpi, sempre più martoriati ed esangui).




4. NEO-TOTALITARISMO COSTITUZIONALE: IL CASO DEL COSIDDETTO PAREGGIO DI BILANCIO


Guardiamo all'Italia. Una serie di eventi hanno imposto non tanto generiche «politiche di rigore», quanto una rottura degli equilibri costituzionali complessivi. La modifica costituzionale che ha coinvolto gli articoli 81, 97 e 119 (cosiddetto pareggio di bilancio3) appare bene esprimere – anche sul piano simbolico – il nuovo corso.

Può dirsi, in breve, che l'introduzione di una normativa costituzionale indirizzata ad elevare una specifica razionalità economica, avversa al deficit spending, si ponga in discontinuità con lo spirito pattizio della nostra Costituzione. Una Costituzione «di compromesso» che ha realizzato e persegue una sintesi delle diverse culture, rifiutando – in ogni sua parte, in materia economica in particolare – l'assolutismo di un'unica visione politica e ideologica. La scelta di un'economia mista (né completamente liberale né esclusivamente statualista), l'indicazione di un equilibrio dei conti pubblici rimesso però alle decisioni del Parlamento che deve trovare le coperture necessarie, senza per questo imporre una specifica politica di sviluppo, hanno contrassegnato l'intera storia della Repubblica e la stessa interpretazione delle disposizioni di cui all'articolo 81.

Ora, invece, una sola ideologia si impone in Costituzione. Non si tratta qui di discutere se le prospettive neoliberali siano condivisibili (del che si può ovviamente dubitare), quanto di rilevare il passaggio da un «tipo» di Costituzione pluralista (votata alla ricerca del «compromesso delle possibilità») ad un progetto rigidamente determinato e «chiuso» entro un'unica possibilità di sviluppo.

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6. GLI EFFETTI DEL ROVESCIAMENTO: IL LAVORO INDEGNO


Il collegamento tra dignità e lavoro rende non compatibile con l'impianto della nostra Costituzione il lavoro «indegno». Non ogni lavoro è ammissibile, non quello degradante, svilente, oppressivo, alienante. In Costituzione il lavoro è inteso come strumento di libertà, collegato – si ripete ancora – con un più generale progetto di emancipazione dal bisogno.

Il lavoro determina il riconoscimento sociale e il diritto ad un'esistenza libera e dignitosa.

Ma il lavoro – si sa – non è il regno della libertà. Tanto meno può esserlo il lavoro degli ultimi, dei subordinati, dei non proprietari, cui particolarmente si rivolge il fondamento costituzionale del lavoro. E infatti – s'è detto – il lavoro costituisce uno strumento di libertà, non è la «libertà».

Come si risolve questo conflitto tra il regno della libertà e la Repubblica fondata sul lavoro?

Attraverso le garanzie che al lavoro danno dignità.

Se così è, il vero problema cui ci troviamo oggi di fronte è rappresentato dall'indebolirsi delle tutele. O, per meglio dire, quel «tipo» di indebolimento che finisce per sottrarre al lavoro la sua dignità. Al lavoro in ogni sua forma, sia esso stabile, precario o immateriale.

Θ qui che si rinviene il più profondo distacco tra il progetto costituzionale e la visione mercantile oggi prevalente.

Non è solo questione di tutele, dell'evidente indebolimento delle garanzie fornite ai lavoratori. La devastazione del diritto del lavoro compiuta negli anni Novanta del secolo scorso, l'attuale decomposizione delle relazioni sindacali a me sembrano espressione di un più profondo cambiamento d'ordine antropologico. Non è solo la richiesta di sempre maggiore flessibilità o l'abbandono del modello contrattuale nazionale a favore degli accordi di prossimità ormai in grado di derogare i contratti collettivi nazionali e, persino, le disposizioni di legge. Il vero punto di caduta è nella riduzione del lavoro a merce.

Una mutazione antropologica in senso proprio, che pone al centro dell'universo del diritto non più l' homo faber, bensì l' homo flessibile. E l'uomo flessibile è una persona disposta a piegarsi – pur di non spezzarsi – a secondo di come spira il vento, ripiegato su se stesso, lasciato solo di fronte alle avversità del vivere, privato di una comunità di riferimento, alla perenne ricerca dei mezzi necessari per sopravvivere. L' homo flessibile potrà anche arricchirsi — perché no — ma solo se sarà in grado di porsi al servizio del dio mercato e seguire, senza opporsi, il sospiro del vento. Il costo, quel che certamente deve abbandonare, è ogni pretesa di limitare il sovrano, di far valere un proprio progetto di emancipazione sociale al di là del mercato. Sarà tutelato se e nei limiti in cui l'economia globale lo consentirà. Se questo è un uomo, questo è un uomo senza dignità.

Un vero e proprio ribaltamento rispetto alla prospettiva che il movimento politico del costituzionalismo moderno ha promosso e poi conquistato nel corso del secolo scorso.

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7. LA FINE DELLA CIVILTΐ DEL LAVORO E IL FUTURO DEL COSTITUZIONALISMO MODERNO


Θ possibile riaffermare le ragioni del diritto del lavoro in questo mutato quadro culturale?

Θ questa l'ultima questione che vorrei affrontare. Anche qui, per ragioni di sintesi, non potrò che essere schematico.

Un dato storico si pone all'origine del cambiamento culturale cui s'è ora accennato. Un passaggio che qui do per scontato, sebbene richiederebbe una lunga spiegazione.

La fine della civiltà del lavoro, ovvero la sua radicale trasformazione. Cosa ciò voglia dire è assai complesso e la tendenza a semplificare domina il dibattito pubblico.

Senza allora affrontare di petto la questione, possiamo limitarci ad affermare — convenzionalmente — che la trasformazione del lavoro viene qui assunta come superamento del sistema prima fordista e poi tayloristico di produzione, con l'erompere del lavoro immateriale e l'emarginazione del sistema industriale classico. Da qui bisogna partire per recuperare dignità al lavoro.

D'altronde, immaginare che si possa uscire dalla crisi radicale che stiamo attraversando (economica, finanziaria, culturale) rimettendo le cose al loro posto, riaffermando puramente e semplicemente i valori della civiltà del lavoro che il Novecento ha espresso, a me pare ingenuo. Questa crisi — se ha un senso profondo — pone in discussione anzitutto il modello di sviluppo. Non so se le teorie della decrescita felice o della critica all'industrialismo (ma anche al consumismo, al feticismo delle merci, all'alienazione che esse producono) possano avere un futuro e siano in grado di prospettare un altro mondo possibile. Quel che a me pare certo, però, è che puntare ad un ritorno al passato non sia la migliore strategia per riaffermare ciò che realmente conta: il diritto al lavoro come strumento per affermare la dignità sociale dell'uomo e della donna, per favorire lo sviluppo della personalità di ciascuno entro un progetto di emancipazione collettiva. Preservando, dunque, i valori storici, politici e materiali del costituzionalismo moderno che al paradigma del lavoro hanno dato vita e senso.

Se allora la riduzione dell'occupazione nelle fabbriche è un dato strutturale, così come l'estendersi delle forme immateriali di produzione, è consequenziale che non ci si possa limitare alla richiesta di ripristino dell'occupazione tradizionale, ma ci si debba sforzare di riconoscere e garantire le nuove forme di lavoro (si ricordi che la Costituzione tutela il lavoro «in tutte le sue forme ed applicazioni»).

Θ anche giunto il tempo per garantire le politiche inclusive della cittadinanza, pur se esse non producono direttamente un profitto valutabile nei termini brutali e assoluti dell'economia o della finanza. Reddito di cittadinanza, contratti di solidarietà, riqualificazione delle attività produttive, trasformazioni delle funzioni d'uso dei beni privati e pubblici in beni comuni: sono solo alcune delle proposte che possono riaffermare il valore costituzionale del lavoro.

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X. RIFORME. STORIA DI UN LUNGO REGRESSO: LA RIFORMA COSTITUZIONALE


                                Correggere una costituzione non è impresa minore
                                              del costruirla per la prima volta.

                                            Aristotele, Politica, IV secolo a.C.



1. L'INDIGNAZIONE: UN COSTITUZIONALISMO ΐ LA CARTE


Viviamo un tempo infinito. Una transizione costituzionale che non ha mai termine e che, senza soluzione di continuità, passa da una «grande riforma» all'altra. Un fallimento dopo l'altro. Anche quando si trova un accordo in Parlamento e — magari a maggioranza risicata — si riscrive un pezzo di Costituzione, l'insuccesso diventa esplicito subito dopo la riforma (la desolante vicenda del Titolo V è esemplare in tale senso). Eppure, si continua in modo perverso a giocare con la Costituzione. Svuotandola di senso. Θ questo che indigna.

Indigna vedere un'intera classe dirigente che sprofonda, travolta da una radicale crisi di rappresentatività, trascinando ostinatamente con sé, nell'abisso, la Costituzione repubblicana, senza avvedersi che proprio questa rappresenta l'unico strumento che potrebbe riscattare il senso del vivere comune, dando nuova dignità ad una politica perduta. Non c'è da essere granché ottimisti se neppure di fronte all'evidenza dei fatti, ai fallimenti, al ricambio generazionale si arresta il furore distruttivo di una classe dirigente in agonia. Muta il ceto politico, rimane l'ostilità nei confronti di ogni idea di Costituzione, vista sempre come un ostacolo alla capacità di governare, mai come una fonte preziosa di legittimazione dei poteri costituiti. Eppure, basterebbe poco. Sarebbe sufficiente fermarsi un attimo a riflettere criticamente su quel che s'è fatto per poter poi ripartire verso una direzione diversa, magari opposta, allontanandosi così dal precipizio verso il quale ci stanno spingendo a forte velocità.

Un ventennio almeno di revisionismo costituzionale cosa ha prodotto? Non, come sarebbe stato auspicabile, l'innovazione per rendere più rispondente il nostro sistema costituzionale e politico ai processi profondi di trasformazione degli ordinamenti nazionali e globali, bensì la progressiva delegittimazione delle ragioni storiche che hanno sorretto il costituzionalismo democratico moderno. Un costituzionalismo à la carte fatto solo di chiacchiere, convenienze e retorica ha fatto perdere la dimensione reale entro cui s'è sviluppata la lotta storica per la realizzazione dei diritti e per la legittimazione dei poteri che dovrebbe rappresentare il vero focus di ogni riflessione di diritto costituzionale.




2. LA MISTICA DELLA GOVERNABILITΐ


Θ questo un giudizio troppo pessimista, ingeneroso di fronte a tanti sforzi per «migliorare il funzionamento delle istituzioni» (qualunque cosa voglia dire questa espressione tanto generica quanto abusata)? Eppure basta riflettere sulle promesse tradite per rendersi conto dell'insipienza che ha caratterizzato la lunga storia del revisionismo costituzionale italiano.

Se c'è un risultato che è stato perseguito dai nostri revisori costituzionali questo è la «governabilità». Θ sin dalla metà degli anni Settanta — l'inizio del lungo regresso — che si è teso a «sbloccare» il sistema politico italiano, abbandonando le logiche — ritenute perverse — di una democrazia consociativa. Ci si è così mossi contro lo spirito proprio della nostra Costituzione repubblicana, la quale sul compromesso tra diversi ha eretto il proprio edificio. Basta con la paura del tiranno, è ora di semplificare il sistema politico, di garantire ai poteri di governare senza subire veti o essere paralizzati da un multipartitismo estremo e rissoso: questa la nuova filosofia che è venuta progressivamente ad affermarsi. Questo il pensiero unico del neocostituzionalismo imperante. Indicata la strada, conseguenti i comportamenti, gli indirizzi, il succedersi delle proposte: tutti finalizzati a semplificare la democrazia, a ridurre la complessità, a emarginare i diversi. Perché no: anche a violare i diritti, se questi rappresentano un ostacolo alla mistica della governabilità.

A forza di semplificare non è rimasto più nulla. Si è assistito a una progressiva emarginazione del Parlamento, privato di poteri propri, espropriato dal governo nell'esercizio della funzione legislativa, ridotto nella sua capacità di rappresentare il pluralismo sociale. Non si è pensato a ri-qualificare il sistema della rappresentanza politica e istituzionale, sempre più evanescente, perché il rischio era di realizzare quella centralità del Parlamento che la Costituzione prescrive, ma che nessuno veramente auspicava, anzi che in molti temevano. Θ bastato molto meno: modificare i regolamenti parlamentari, adottare un sistema elettorale distorsivo, et voilà. Il Parlamento non c'è più.

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[...] Non si può sfuggire allora alla questione fondamentale. Che non è quale riforma della Costituzione è oggi possibile, bensì, più profondamente, quale è l'idea di Costituzione che sorregge il nostro agire.

Ponendosi entro questa specifica prospettiva si scorge subito il contrasto tra la visione dominante e il costituzionalismo democratico modernamente inteso. Basta riflettere su quanto già detto. Il filo rosso che lega le più diverse proposte di revisione costituzionale e di «ammodernamento» delle istituzioni, da oltre un ventennio, è rappresentato dall'esigenza di semplificare per governare. Θ esattamente all'opposto di quanto ci ha insegnato il costituzionalismo democratico che nasce per dividere il potere e assicurare i diritti («Ogni società nella quale la garanzia dei diritti non è assicurata, né la separazione dei poteri fissata, non ha una Costituzione», sancirà l'articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell'uomo e del cittadino del 1789, l'atto costitutivo il costituzionalismo moderno). Il costituzionalismo democratico moderno non è mai andato alla ricerca della semplificazione o della governabilità come valore in sé. Ha anzi preteso una complessità nell'articolazione dei poteri, abiurando le concezioni della sovranità indivisa e della concentrazione del potere in un unico organo o soggetto. Ha, inoltre, sempre scontato il conflitto all'interno della società, che non ha mai preteso di dominare, bensì di garantire nei diritti. Se si guarda alla storia del costituzionalismo democratico moderno (non dunque ad ogni espressione del costituzionalismo, ma a quella più nobile che ha avuto in Europa il suo apogeo dopo la seconda guerra mondiale, da cui trae origine la nostra Costituzione repubblicana), si scorge con facilità che ha sempre teso a diffondere il potere e allargare i diritti entro un progetto di emancipazione sociale scritto nel testo della Costituzione, nelle sue norme programmatiche, nel suo configurarsi come rivoluzione promessa.

Non può dirsi che sia questa la prospettiva che sostiene il revisionismo costituzionale dominante che opera entro l'orizzonte chiuso della semplificazione, concentrazione dei poteri e dell'indebolimento strutturale dei diritti. La primazia del governo può essere un obiettivo per garantire la governabilità (e, in effetti, il governo del solo premier è l'obiettivo di tutti i totalitarismi), ma essa si pone in netto antagonismo rispetto alla logica che è propria del costituzionalismo democratico moderno della faticosa ricerca di un equilibrio tra poteri divisi, ciascuno titolare di una porzione di sovranità. Diffondere il potere, non accentrarlo. Θ per questo che è sempre più ampia la distanza tra chi vuole cambiare la Costituzione per «governare» e chi vuole realizzare un progetto di costituzionalismo che sappia far convivere entro uno spazio comune le persone tutelando i diritti di ciascuno e di tutti entro un programma di emancipazione dei ceti più disagiati.

In questo momento, in questa situazione, non si può che combattere il revisionismo costituzionale dominante, poiché il rischio è quello del regresso storico, del ritorno ad un medievalismo del diritto. Oggi i revisori della Costituzione sono dei reazionari.

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