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| << | < | > | >> |IndicePARTE PRIMA. INVASIONI 7 Il partigiano Johnny 26 L'indimostrabile Torquey 42 Mondo Due 47 I contemporanei 70 P.K.D. non ha mai abitato qui 83 Chi ci complicherà la vita 91 L'universo a fianco 106 L'uomo che fu H.A. 112 L'uomo che fu P.K.D. 119 Cina-B 127 La porta sul Niente PARTE SECONDA. SIMULAZIONI 133 Montecristo cyberpunk 177 Visioni di Engelbart 190 Secondo Occidente. Istruzioni per l'uso 208 Supervita 230 Come sparire completamente PARTE TERZA. CITAZIONI 241 Il Nuovo Ordine Mondiale 247 L'elenco dei libri 256 La verità sul teletrasporto 267 Fanteria Mentale 278 La trasmissione del pensiero 284 Corpo di infiltrazione PARTE QUARTA. INVERSIONI 291 Le variazioni Goldberg 311 La Malinconia degli Aeroporti 324 Gatto vivo gatto morto |
| << | < | > | >> |Pagina 70Il 15 settembre del 2000 entrai nel 15 settembre 1950 alla ricerca dello scrittore Philip Kindred Dick. Uscii dal tunnel di luce curva nella piana di Francisco Street, a ovest di Berkeley mentre passava un Greyhound per Frisco. Erano le 11.45 del mattino. Un cane abbaiò al mio arrivo nel suo universo. Passarono lentamente un furgone dei gelati e una straordinaria Studebacker col muso simile alla coda. Avevo un taglio di capelli adeguato, una giacca a quadretti, una camicia azzurra con una cravatta nera. Gettai in spalla la sacca e i libri legati con la cinghia e cercai una casa in affitto. Trovai una stanza in una villetta non troppo vecchia, appena riverniciata di bianco. La padrona era una specie di clone di Doris Day a inizio carriera, con trent'anni di più. Mi diede le sue leggi. Niente ragazze, niente liquori, niente visite anche maschili dopo le nove di sera. Niente strumenti musicali, la radio e i dischi jazz con moderazione, a basso volume. Avrei avuto un bagno solo mio con una doccia. Per qualche cent mi avrebbe lavato e stirato la biancheria. Tre dollari alla settimana di differenza e avrei avuto anche un pasto, con cinque dollari due pasti. Non avrei osato sdraiarmi sul letto con le scarpe. Avrei avuto le chiavi. Si aspettava che trasgredissi almeno a cinque dei suoi comandamenti. Volle sapere a che corso mi sarei iscritto. Letteratura, dissi, con Vollheim. Avevo controllato i corsi del 1950 e i nomi dei professori da un annuario. Mi ero preparato un curriculum di storie scolastiche: superiori, campeggi, infanzia. Insistette per vedere una foto dei miei genitori. Era ricavata da una pubblicità del Reader's Digest. Mi disse che mi dava la stanza perché l'aveva convinta la cravatta. Mi comunicò l'orario delle funzioni alla chiesa vicina. Aggiunse che mi avrebbe tenuto d'occhio. La prima settimana pagamento anticipato. Calcolai dove nascondere il registratore, e mentre vuotavo la sacca il tempo cambiò. Esibii un vecchio impermeabile militare trovato in un surplus di Oakland, e m'incamminai verso il numero 1126. Periferia. Una casa coloniale ampiamente sverniciata. Immaginai le code dei topi che pendevano dal buco del soffitto come le aveva descritte P.K.D. Niente prato, qualche ciuffo spelacchiato qua e là. Le finestre davano sul marciapiede di sterrato: erano aperte. Colsi il braccio di una ragazza. Ai muri erano appesi dei fogli. Più tardi raggiunsi la zona universitaria. Mi affacciai alle vetrine di Art Music. Non lo vidi. C'era un commesso in camicia, jeans larghi, scarpe da basket. Nella sinistra teneva la copertina di un trentatré giri, con la destra dirigeva un'orchestra immaginaria che dalla strada non potevo sentire. Immaginai che P.K.D. fosse in una cabina d'ascolto con un cliente. Nelle mie fantasie entravo nel negozio, mi facevo consigliare la migliore edizione di un concerto di Haydn e poi estraevo dalla tasca la mia copia arrotolata di Fantasy & Science Fiction. Avrei potuto dire con semplicità: «Signor Dick, mi firma Ruug?», e godermi la sua faccia. Scorretto. L'avrebbe pubblicato tra 13 mesi. E nessuno avrebbe chiesto autografi per molti anni ancora. Limitarsi al primo contatto. Entrai nel negozio. Chiesi l'edizione di Haydn, registrai mentalmente la planimetria del negozio mentre il commesso cercava nelle scansie. Vidi il gigantesco televisore di cui P.K.D. avrebbe parlato negli scritti biografici. Forse non l'aveva ancora comprato. Le versioni discordavano sulla data d'acquisto. Il commesso mi portò la copia di Haydn. Chiese se volevo ascoltarla. Mi guidò nella cabina d'ascolto. «Oggi non c'è Phil Dick?» chiesi mentre armeggiava con la puntina e un panno di velluto. «Chi è Phil Dick?» chiese a sua volta il commesso. Poi posò la puntina e Haydn partì. «Philip Kindred Dick. Non lavora più qui?» «Io non l'ho mai conosciuto...» Ascoltai Haydn per un minuto e feci segno che lo compravo. Ero sconcertato. Il pomeriggio in cui P.K.D. lasciò Art Music aveva avuto il litigio con Hollis evidenziato in tutte le biografie. Dovevo capire se era vero che Hollis era ossessionato dalla disinvoltura di Mini, il commesso che era stato nel Partito Comunista, e si era preso la libertà di parlare fuori dai denti di un certo disco. O se Hollis, il direttore dittatore padre di Art Music era geloso del legame tra Mini e P.K.D. O se P.K.D. avesse avuto l'illuminazione che faceva risalire a uno strizzacervelli/prete: «Lascia il lavoro ad Art Music, torna a casa e scrivi. Non lavorare più, non lavare i piatti, non dare cibo al gatto. Scrivi!» Ma la cronologia non era corretta. Mentre pagavo il disco il commesso alzò la testa e fece un cenno a Hollis, lo riconobbi da una vecchia foto della patente. «Ha mai lavorato qui un certo Phil Dick?» «Non che io ricordi, ragazzo. Perché?» Feci un gesto vago. «Mi devo essere confuso...» «Studente?» chiese il commesso. Dissi di sì. «Prova da Luhrmann. Di lì passano tutti quelli della facoltà.» Lo ringraziai. Il ragazzo era vestito come Dick nelle foto del tempo di Berkeley. Ma aveva capelli stopposi biondi e tratti nordici, di origine tedesca o svedese. Mentre uscivo mi soffermai sul gigantesco televisore. Mi chinai sull'apparecchio. Il commesso si chinò accanto a me e lo accese. «Splendido, vero?! Ne ho appena ordinato uno identico. Decisamente il migliore sul mercato...» Lo fissai. C'era qualcosa che non funzionava in tutto questo. Dedicai il pomeriggio a imprimermi la topografia dell'area e verso sera, dopo un giro del campus, mi avvicinai al bancone affollato del bar Luhrmann. Nessuno tra i ragazzi ai tavoli somigliava a P.K.D. Con l'offerta di una birra conobbi un certo Bix Meincke: in qualche lettera riemersa negli anni Settanta il suo nome appariva tra i preferiti di Kleo Apostolides nel "circolo delle chiacchiere". Non venni invitato subito nel circolo. Mi limitai a controllare che il bar Luhrmann non fosse infestato: dal tetto dell'ufficio postale di fronte gli agenti Scruggs e Smith di tanto in tanto scattavano foto degli studenti. Immaginai che registrassero i discorsi nel bar con microfoni nascosti nei muri o avvitati sotto i tavoli. Dai report dell'Fbi non era chiaro il metodo. Schedavano quasi tutti. Cercavano comunisti, attivisti politici, identificavano chiunque si spingesse oltre il confine messicano. Succedeva, immagino, dai tempi della campagna di Pershing contro Pancho Villa. La settimana successiva accettai un invito di Meincke. «Da Hawthorne e Kleo. Lì ci vanno gli artisti e gli sballati.» «Hawthorne chi?» buttai lì con noncuranza. «Hawthorne Abendsen, quello che lavora ad Art Music.» Ero addestrato a non trasmettere emozioni. Hawthorne Abendsen era il personaggio di un romanzo di Dick. E stava con la moglie di Dick? La stessa che avrebbe sposato Mini negli anni Sessanta? Evidentemente le cronologie erano state alterate. Dissi che sì, era una splendida idea. | << | < | > | >> |Pagina 133Mi ritrovai in un carcere senza porte e finestre. Una cella cieca, perfetta, di gomma grigia, con una luce, senza fonti di luce. Vestito. Ma senza vestiti. Senza caldo, freddo, fame, bisogni. Apparve un'immagine. Questo è IF» disse. «Questo è il direttore di IF.» Da dove era entrato? Abito nero antiquato, camicia bianca, cravatta nera e scarpe nere. I suoi capelli fili neri accuratamente pettinati all'indietro. Il taglio della sua bocca un filo nero. Occhi grigi. Le mani dietro la schiena, mi fissava. «Signore...» mormorai. «Questo è IF. Questo è il luogo della pena. Il soggetto è riconosciuto colpevole. Il soggetto è Edmond Dantès, 6509/6520. La pena è espiazione. La fine della pena coincide con l'estinzione. La pena non ha fine. L'espiaione non ha estinzione.» La sua bocca emetteva suoni ma non si muoveva. L'uomo vibrò appena e l'attraversai come fumo. Ancora al centro mi guardava senza vedermi. «Questo è IF. Questo è il direttore di IF. IF è l'infinita piattezza.» «Chi siete?! Cosa ho fatto? Di cosa mi accusate?» L'immagine allargò le braccia. Gli occhi si strinsero un poco. «Il pentimento è plausibile, auspicabile, non accertabile. Ulteriori approfondimenti saranno acconsentiti, auspicati, raccomandati, verificati. Incontri differenziati. Indagini a norma delle leggi Interforce. I diritti del soggetto sono sospesi. Questo è IF. Infinite Flat. Copyright registrato.»
Mimò un gesto di misericordia. Si alzò nell'aria, con
un movimento ortogonale ruotò e svanì.
Passò del tempo. Mi sentivo più vecchio.
Apparve un'immagine. Al centro del cubo una figura in camice stretto in vita da un nastro bianco, chiuso al collo da bottoni candidi. «Questa è un'immagine. Non tentate di toccarla, non serve. Non è qui.» Mi inginocchiai ridendo.
«Non parlate. Questa è una registrazione informativa.
Questo è IF. IF ha forma di luogo ma è una condizione
della mente. Siete stato riconosciuto colpevole, sedato,
operato, inserito. Il vostro corpo appartiene all'amministrazione di IF che ne
ha disposto il coma criogenico nel
mondo. La vostra mente e solo la vostra mente è in IF.
Essa è supportata da IF. Vi è concessa simulazione sensoriale completa. In caso
di resistenza verrà negata. Vi è concessa simulazione di attività mentale. In
caso di resistenza verrà negata. Vi è concessa simulazione di
bisogni e funzioni. IF provvederà a supportare fame e
soddisfazione della medesima a norme amministrative.
Freddo, caldo, bisogni corporali, dolori, malattie. La
morte cerebrale è prevista solo in caso di grazia. La morte fisica non coinvolge
la morte cerebrale. Se collaborate all'espiazione potete scegliere tre opzioni
di simulazione d'ambiente. Cubo base, cella, cella con simulazione d'arredo.
Seguirà specifico menu che dovete attivare.
Questo è IF. Infinite Flat. Copyright registrato.»
Apparve un'immagine. Un militare in Assetto 9 senza casco, disarmato, al centro della cella con le mani sui fianchi. «Stai avendo giustizia. IF amministra giustizia. IF invita a tacere.» «Voglio sapere le mie colpe!» L'immagine vibrò e la voce subì un lieve cambiamento. «IF concede la confessione. La confessione consente variazioni di Programma. Viene avviata la registrazione. La confessione può cominciare.»
«Sono innocente...» dissi.
Pregavo. Mormoravo nella gomma, sfidavo Dio, chiunque fosse e in qualsiasi forma, a scendere armato nel cubo di gomma a darmi giustizia. Lo avrei strangolato con le mie mani.
Se avessi capito dove stavano le mani...
«Chi sei?» chiese una voce stupefatta.
C'era qualcuno. Dio aveva accettato il rischio. L'avrei strangolato. Dovevo solo trovare le mani. «Dio, esci, fatti uccidere!» «Ma chi sei?!» ripeté la voce. Sembrava al di là del muro. «Signore Iddio, c'è un altro!» sospirò la voce. «E col cervello in briciole...» «Dio che invoca Dio e parla di follia? Non può essere, è illogico!» Immaginai di ridere. «Ridi?! Allora sei pazzo?! In nome del cielo dimmi qualcosa di umano. Hai un nome? Se non puoi parlare pensalo con forza. Avanti!» «Dantès!» urlai. «Edmond Dantès.» «Dantès...» ripeté la voce. «Direi che sei umano... Ricordi la tua faccia?» Che domanda era? «È importante, davvero... La ricordi?» Non era Dio e non era nemmeno la sua voce. «Ricordo la mia faccia!» «Bene. Anch'io la mia. Il Programma funziona. Sai come funziona il Programma?» Programma? Di che Programma parlava? «Quale Programma?» Il respiro parve interrompersi. «Lascia stare» disse la voce. «Sai dove sei?» In carcere, pensai. «In carcere, bene» disse la voce. «Quale carcere?» Quale carcere? Quale carcere? Non avevo mai saputo quale carcere... Il direttore diceva: «Questo è IF.» «Questo è IF.» «Eccellente...» mormorò la voce. «Non l'avrei creduto possibile.» «Cosa non è possibile?» «Sai cosa è IF?» «No. Ma non andartene...» «Non vado da nessuna parte. Fai con comodo. Rilassati...» «IF è... è... è l'Infinita Piattezza...» «Hai studiato...» ridacchiò. «E sai cos'è l'Infinita Piattezza?» «Un carcere...» «In effetti, non fa una piega... Da quanto sei qui?» Appoggiai il viso al pavimento. Era sotto di me? «Era il 24 febbraio...» dissi al pavimento. «Avevo 23 anni. Quanti anni ho?» Il respiro si fece più lento. «È molto tempo...» «Dove sei?» «Proprio dove sei tu, credo...» «Sotto il pavimento?» «Non direi proprio il pavimento, figliolo, ma in un certo modo sì, visto che tu immagini il pavimento...» «Non capisco, parla più forte... Parla, ti prego, non smettere, non smettere...» «Ho paura che sarà difficile smettere...» «Puoi uscire? Farti vedere? Parla!» Il respiro si fermò. «Dove sei!» «Sono qui, stai calmo... Hai paura?» «Ora no, ma ne ho avuta per un tempo infinito...» «Già. Qui è così. Sai cosa intendo per "qui", Dantès?» «L'Infinita Piattezza.» «Certo...» Aveva un tono sconsolato. «Sei Dio?» chiesi all'improvviso. «Ma neanche per sogno! E sapendo cosa intendi fargli, se lo fossi non te lo direi.» «Hai un nome?» «Certo che ce l'ho. Faria.» | << | < | > | >> |Pagina 230In effetti c'era uno che lo fissava con insistenza. Alzava la testa dal piatto, si voltava, accennava a un sorriso. Anonimo, un impiegato forse, in pausa da uno dei tanti uffici. Pranzava con un ragazzo alto, curvo, con occhiali spessi. Pensò di andarsene. Ma con la coda dell'occhio lo vide camminare tra i tavoli con il tovagliolo in mano. Veniva verso di lui. Sentì una mano sulla spalla, piuttosto pesante. «E allora?!» disse l'uomo. Aveva tra gli incisivi un frammento di insalata. «Ma cosa fai qui?! Perché non mi hai chiamato?» «Mi scusi?!» «Non dirmi che non ti ricordi?!» Mimò la delusione e di nuovo sorrise. «Quattro anni fa! Il convegno sui fondi frammentati! C'era anche il futuro ministro del Tesoro. E quel politico che poi, sì, insomma, con i bambini...» Rise sguaiato. «Mi confonde con un altro...» «Impossibile... Ho una memoria di ferro. Non dimentico un nome o una faccia!» Lo afferrò per un braccio. Lo trascinò al tavolo. «Ti trovo benissimo, molto meglio di allora. Sempre solo, eh?! Furbo. Tutte le donne del mondo. Ingordo!» Lo costrinse a sedere. Il ragazzo curvo allungò la mano verso di lui. «Mio figlio! Te lo ricordi?! Arrivava appena al tavolo! Irriconoscibile, no?!» «Mi dispiace, non sono quello che lei pensa...» «Non dirlo! Ce l'ho qui, sulla punta della lingua. Lavoravi per Truffard! Truffard & C.! Avevi una giacca cachemire a spina di pesce e occhiali con la montatura diversa. Metallo. Bianco. Come mai così lontano da casa?» «Mi ha proprio confuso con un altro...» «Mi prendi in giro?!» L'uomo guardò il figlio e batté la mano sul tavolo. «Mi prende in giro!» rise. «Lo sanno tutti che non dimentico niente, mai, una faccia, un numero! Ho una memoria da elefante!» «Da elefante...» fece eco il figlio. D'improvviso si era fermato e l'aveva fissato stringendo gli occhi. «Anzi, ora mi viene in mente: qualcuno mi parlò di te, qualche mese dopo, per quella malattia, com'era?, quel nome così complicato...» «Mai avuto malattie dai nomi complicati, e se permette...» «Perché fai così?! Ti vergogni?! Non devi... Ricordo bene che eri malato. Molto malato... Ci scherzavi. Dicevi: "Non festeggio capodanno..."» «Lei sta diventando indiscreto...» Fece l'atto di alzarsi ma l'altro l'afferrò. Anche il figlio l'afferrò. «Aspetta! Ma no... Dio! Non è possibile...» L'uomo sembrava nervoso. Si accarezzava la testa. «Cosa non è possibile? Vuole lasciarmi il braccio?!» «È pazzesco! Pazzesco! Adesso ricordo... Poi ti avevano dato per morto! Ricordo di averne parlato con...» «La smetta, mi lasci andare!» «Incredibile...» Non gli lasciò il braccio. «Anzi, ora ricordo molto bene! Poi tu eri morto...!» «Vuole lasciarmi andare?!» si divincolò. Il ragazzo gli strinse il braccio. «Se papà dice che sei morto, sei morto...» «Come faccio a essere morto, idiota?! Parlo con te!» Un istante di tensione. «Papà! Mi ha detto idiota!» L'uomo si alzò spingendo indietro la sedia. «Quando ti ho conosciuto non usavi quei termini!» «Perché non ha conosciuto me!» L'uomo gettò il tovagliolo. Roteò gli occhi. Gli tremava la voce. «Sei un incarnato...» «Ma cosa sta dicendo?!» «È un incarnato!» gridò isterico. Intorno scese il silenzio. Tutti lo fissavano. «Un incarnato... Uno schifoso incarnato! Un morto ritornato! Ne hanno parlato anche in televisione!» Il figlio fece un passo indietro. «Chiamali!» gridò il padre. Il figlio corse via. L'aria era elettrica di ostilità. Entrarono dei poliziotti. Uno aveva lo storditore elettrico attivato. «I documenti, prego...» Glieli diede. Il poliziotto alzò la testa e lo fissò. «Venite tutti con noi...» «Vi dico che è uno schifoso morto che cammina!» strillò l'uomo. «Parlerà al commissariato...» Il ragazzo tentò di colpirlo. Il poliziotto lo stordì con una scarica. «Questa è aggressione a pubblico ufficiale!» «Maledetti!» gridò il padre. «Proteggono i morti viventi e arrestano i cittadini onesti!»
Rovesciò il tavolo e alzò il pugno contro il poliziotto.
Lo stordirono con una scarica ancora più forte. Estrassero le automatiche e
chiamarono rinforzi. La gente nel bar lo fissava.
«Lei chi è ora?» Glielo disse. Il commissario controllò i documenti. Scosse la testa. «E prima?» «Ero un altro corpo. Distrutto in un incidente..» «Ah... Quanto è stato in Secondo Occidente?» «Tre anni...» «Qui però non può più stare...» «Già...» «È difficile farlo capire alla gente...» «Sì. E difficile...» «Quante città ha cambiato?» «Quattro...» Il commissario sospirò. «Forse con una plastica...» «Una plastica, sì...» «Le cercherò una sistemazione momentanea: a casa non può tornare e non ho personale per proteggerla. Capisce?»
«Sì...»
Lo scortarono a un albergo su una macchina senza insegne. Chiamò la sede di Parigi e comunicò il suo codice a una segretaria. «Qual è il problema?» «Il corpo era conosciuto. Era passato di qui. Ho subito un'aggressione...» «Capisco. Non si muova. Provvederemo al trasloco dei suoi effetti, chiuderemo i conti, provvederemo ai documenti anagrafici. Ha relazioni interpersonali in corso? Sta creando una nuova famiglia nucleare?» «No...» «Sarà tutto più veloce.» «Lo so...» sospirò. «Posso prenotarmi per una plastica?» «Non posso darle una risposta immediata...» «Capisco...» «Che lavoro sta facendo?» «Ingegnere chimico.» «Sì... La trasferiremo alla Défense.» «No, la prego, vorrei evitare l'albergo speciale. Mi deprime...» «Un attimo...» «Preferirei... vorrei rientrare in stasi...» Seguì un silenzio piuttosto lungo. «Ne è sicuro?» «Sì...» «Sonno o Programma di supporto?» «Programma di supporto...» «È molto costoso...» «Lo so.» «Ha stipulato un'assicurazione parallela?» Le diede il numero. La ragazza effettuò i controlli. «Sì, è possibile. Passerà un addetto domani mattina. Si faccia trovare pronto alle 9.» «Alle 9, grazie.» | << | < | > | >> |Pagina 2911. Domani Si materializzò alle 9.25 di giovedì 10 al piano terra, arrivi internazionali, nella folla dei passeggeri di almeno tre voli notturni da New York, da Hong Kong e da Tokyo. Indossava la camicia rossa che aveva trovato in saldo la mattina di venerdì 11 ai grandi magazzini. Le piaceva, la faceva sentire sicura di sé. E aveva bisogno di sentirsi sicura di sé. Uscì con disinvoltura, prese un taxi e diede l'indirizzo dello studio. «Da dove arriva?» chiese l'autista. Aveva notato che era senza bagagli. «Dal futuro...» rispose lei con un sorriso nervoso. Lui infilò la testa tra le spalle e riprese a guidare. Nello studio preparò il fax che si era dimenticata di lanciare il giorno 10. Tirò un sospiro di sollievo e decise di concedersi un po' di relax. Tornò ai grandi magazzini. Magari avrebbe trovato qualcosa che l'11 era già sparito... Mentre vagava lentamente cercando di orientarsi tra i saldi, udì un tonfo sordo e un grido soffocato, a cui seguì un istante di silenzio assoluto. Si avvicinò a un gruppo di persone che osservava una donna la cui testa, parte del collo, le mani e un ginocchio sporgevano dal muro. Sembrava un manichino eccentrico a cui avessero colato intorno con cura cemento, o una scultura spettrale. La donna che emergeva dal muro apriva e chiudeva la bocca con affanno. L'espressione era incredula. Qualcuno iniziò a gridare e scoppiò il caos. Commesse con le mani nei capelli, sirene dalla strada, un via vai di paramedici sconvolti e alla fine un pompiere che puntava un martello pneumatico sulla parete. La donna si lamentò debolmente: «Non sento più le gambe.» Il pompiere fece partire il martello pneumatico e il muro si sgretolò piano, quasi con delicatezza. Aprì una breccia, continuò con una leva, alla fine prese a scalzare frammenti a mani nude. Il muro andò a pezzi, liberando il corpo. Ma il corpo non c'era. Caddero in progressione il ginocchio con parte della coscia e un frammento di tibia, la mano destra e la sinistra fino al polso. La donna continuava a lamentarsi: «Non sento più le gambe», il pompiere ansimava, si voltava atterrito, deglutiva. Le gambe non c'erano. Quando toccò i mattoni attorno alla testa; la testa si inclinò e gli cadde in grembo. La donna sospirò, anzi, ma forse era un rantolo, un soffio. Il pompiere si chinò sulla bocca allargata. «Morta...» disse incredulo. Alcune donne erano svenute. Lei sentì arrivare un capogiro. Prese a spingere con forza per uscire dal cerchio di persone che aumentava a ogni istante. Riuscì a raggiungere l'esterno mentre il panico si diffondeva da un piano all'altro. Cercò di non pensare alla donna che sporgeva dal muro, ma era difficile: si vedeva prigioniera di una putrella, fusa nel radiatore di un bus, o peggio, incastonata nel monumento in piazza, tra i caduti. Ora sapeva cosa aveva rischiato quando gli aveva chiesto di mandarla indietro nel tempo. T.A. le aveva detto che era pericoloso, che la macchina non era ancora "puntata" correttamente. Che stavano passando dal lancio di semplici proiezioni al lancio dei corpi. Ma non le aveva parlato del rischio di fondersi con le cose all'atterraggio. E non le aveva detto di quella, del "manichino". Chi altri poteva averla spedita lì? Fermò un taxi. «Al laboratorio dell'università.» T.A. era in corridoio, a bere un caffè, a fumare, in maniche di camicia, la cravatta slacciata: scherzava con due analiste del settore organico che sudavano nel camice chirurgico e lo guardavano estasiate. «Cosa fai qui?!» chiese. Sembrava seccato. Lei porse il biglietto speciale, autografo, infalsificabile che compilava quando mandava un volontario indietro nel tempo. Perché era difficile credere a qualcuno che diceva «vengo da domani» ed era ancora l'oggi, e non potevi sapere d'averlo mandato indietro perché non l'avevi ancora fatto... «Perché ti ho mandata indietro?» chiese sottovoce, un po' confuso. «Mi ero dimenticata di spedire un fax dallo studio. Rischiavo di far saltare un contratto. Hai accettato di mandarmi indietro a rimediare...» «Io farò questo? Devo essere diventato pazzo! E hai spedito il fax?» «Un'ora fa. Poi sono passata ai grandi magazzini. Sai, ci sono i saldi...» «Veramente interessante!» rise sarcastico. «Spero che non finisca nelle mie biografie l'uso della macchina del tempo per i saldi! Confido nella tua discrezione. Nient'altro?» «C'era una donna nella parete... Credo che sia opera tua...» «Nella parete?! Viva?» «Finché non hanno spaccato il muro. Mancava tutto quello che non sporgeva dal cemento!» «O Cristo!» T.A. si piegò su una sedia, chinò la testa tra le gambe e la scosse disperato. Lei lo osservava. «L'hai mandata tu, vero?» «Come faccio a saperlo?!» strillava. «Non l'ho ancora fatto! E poi uso la mappa magnetica degli aeroporti! Cosa c'entrano i grandi magazzini?!» «Dimmelo tu! Eri tu che sostenevi che alcuni avevano nella vita campi magnetici più forti degli aeroporti... Oppure inizierai proprio domani lanci in aree specifiche. Non lo so. Ma c'è un'altra donna nella tua vita?» chiese con cautela. «Una che lanceresti ai grandi magazzini...?» «Ma no, no, no...» T.A. scuoteva la testa, evitava il suo sguardo. «Dev'essere una volontaria che ha pasticciato con le coordinate... Dovrei controllare le tabelle di lancio... E adesso?!» «Mandami indietro di un altro giorno, al 9. E vengo a dirti di non farlo. Scrivi un biglietto molto chiaro, fammi un lasciapassare urgente, diciamo per ieri alla stessa ora...» T.A. ci pensò un po', sedette al terminale e cominciò la sequenza. Lei si avvicinò al tubo e aspettò... «Entra...» mormorò spazientito. Le porse il biglietto. Lo prese, si sdraiò nella Risonanza Magnetica. T.A. passò dall'altra parte della stanza e attivò gli interruttori. Partirono quei rumori insostenibili e percepì un piccolo dislivello. Atterrò sul piede destro nell'atrio degli arrivi internazionali. Era quasi deserto ma nessuno le fece caso. Controllò sui monitor. Mercoledì 9. Uscì, prese un taxi. Era lo stesso tassista del giorno dopo. «Ma da dove arriva a quest'ora?» «Dal futuro...» rispose acida. Diede l'indirizzo dell'università. Il tassista alzò il volume della radio e scivolò verso la città. Mentre scendeva li vide. T.A. e una donna ridevano mentre uscivano dall'auto. La donna aveva qualcosa di famigliare. La guardò meglio. Agitava la mano, un po' leziosa. Riconobbe la mano: separata dal corpo, era caduta non appena il pompiere aveva fatto leva sul cemento. La donna infilava la mano nella camicia di lui e lo baciava con allegra volgarità. Lui aveva un'espressione più formale: le fece una carezza. Poi girò sui tacchi e con quell'aria da ragazzo invecchiato si avviò verso il laboratorio. La donna si aggiustò con un movimento veloce e si incamminò in direzione opposta. La seguì. E mentre la seguiva piangeva. La donna si dirigeva verso il centro. Quando la vide sedersi al tavolo di un bar la raggiunse. «Scusi?!» «So tutto...» mormorò lei. «Va avanti da molto la vostra storia?» «Ma lei chi è?! » «Sono l'altra. Sono la moglie dell'uomo che ha appena lasciato davanti all'università...» «Oh. Sua moglie... Immagino che voglia parlarne, vero?»
«Lei che ne dice?»
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