Copertina
Autore Jean Bacon
Titolo Signori macellai
SottotitoloBreve storia della guerra e di chi la fa
EdizioneEleuthera, Milano, 2006 , pag. 240, cop.fle., dim. 125x190x14 mm , Isbn 978-88-89490-07-5
OriginaleLes Saigneurs de la guerre. Brève histoire de la guerre et de ceux qui la font
EdizionePhébus, Paris, 2003 [1981]
TraduttoreCarlo Milani
LettoreFlo Bertelli, 2006
Classe storia criminale , storia contemporanea , guerra-pace
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Indice

      Nota dell'editore francese      7
      Avvertenza dell'autore          9
      Prologo                        13

   I. Dai muscoli alla legge         19
  II. La spada e la bilancia         31
 III. Corta e buona                  47
  IV. Gli dèi con l'elmo             71
   V. La panacea                     95
  VI. Allegria, alle armi!          113
 VII. Tabula rasa                   139
VIII. La grande selezionatrice      161
  IX. La musa alla battaglia        175
   X. L'eroe e l'infinito           189

      Epilogo                       211
      Appendici                     227


 

 

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Pagina 9

AVVERTENZA DELL' AUTORE



Dal 1981, data di pubblicazione della prima edizione di quest'opera, parecchi avvenimenti hanno sconvolto gli equilibri mondiali. La caduta del Muro di Berlino, il crollo del comunismo nell'Europa dell'Est e, di conseguenza, lo smembramento dell'impero sovietico, la liberazione dei Paesi satelliti, la fine della Guerra Fredda, la scomparsa dell'apartheid in Sudafrica, la ripresa del «processo di pace» israelo-palestinese a partire dal 1992.

Si era addirittura temuto che questi nuovi dati avrebbero potuto produrre un effetto disastroso sulle relazioni internazionali, favorendo l'emergere di una sorta di tacito consenso, cancellando artificialmente le differenze, ponendo un freno ai salutari confronti e mettendo in pericolo il fruttuoso commercio delle armi, uno dei fondamenti delle economie occidentali e fonte di innumerevoli e preziosi posti di lavoro.

Tali timori si sono rilevati infondati. Da vent'anni a questa parte, in ogni continente, sotto ogni latitudine, non si è mai combattuto tanto. E se da una parte si possono rimpiangere le grandi carneficine del passato, i sontuosi conflitti mondiali del 1914-1918 e del 1939-1945, non bisogna per questo sottostimare le piccole guerre tribali, religiose o di vicinato che, a conti fatti, in virtù del loro numero e della loro cadenza regolare, provocano perdite assai apprezzabili (per non parlare degli attacchi terroristici che si possono rilevare molto appaganti).

Qualche esempio. Prendiamo l'Africa... L'Angola è stata teatro di una guerra durata oltre vent'anni tra il governo di Luanda e l'UNITA, cui dobbiamo almeno 100 mila morti e altrettanti handicappati, vittime dei circa 12 milioni di mine di cui è stato farcito l'intero Paese. Si stima che il 90% di queste vittime siano civili, spesso bambini, mutilati per tutta la vita. Notiamo per inciso, e non senza fierezza, che le mine francesi si sono rivelate le più difficili da individuare e quindi le più efficaci. La Liberia, per cinque anni, è stata straziata dalla feroce rivalità di tre signori della guerra e delle estorsioni di una buona dozzina di bande armate che hanno ucciso, violentato e saccheggiato a volontà. Il Sudan è corroso da circa un quarto di secolo dallo scontro fra il Nord, musulmano e arabo, e il Sud, cristiano e nero. Non dimentichiamo i combattimenti in Mozambico, in Somalia, in Eritrea, nel Sahara tra il Marocco e il Fronte Polisario, né i massacri interetnici in Burundi. Il premio dell'orrore va però al Ruanda, con lo sterminio di circa 1 milione di tutsi da parte degli hutu. Ai quali si possono aggiungere, per essere equi, diverse decine di migliaia di hutu recentemente sterminate dai tutsi.

Anche l'India ha pagato il suo tributo con i disordini in Kashmir, gli attentati a Bombay, l'insurrezione dei militanti sikh nel Punjab e le lotte omicide fra cingalesi e tamil, mentre in Pakistan gli estremisti sunniti e sciiti s'innaffiano con raffiche di kalashnikov di quando in quando.

I Khmer Rossi, che avevano fatto passare a miglior vita un buon milione di cambogiani, hanno continuato a manifestarsi qua e là per non perdere la mano; gli indonesiani invece sono riusciti a «pacificare» la piccola isola di Timor lasciando oltre 200 mila morti sul terreno.

In Medio Oriente, la guerra fra Iran e Iraq è proseguita fino al 1988. Le perdite complessive subite da entrambe le parti ammontano a circa 1 milione di individui. Più o meno nello stesso periodo, l'Iraq ha intrapreso qualche spedizione in Kurdistan: un centinaio di villaggi sono stati rasi al suolo dai bulldozer e le popolazioni sono state bombardate con armi chimiche. La Turchia, che non vuol essere da meno, ha effettuato in Anatolia diversi interventi brutali contro i curdi di propria competenza. Nel 1990 è scoppiata la prima Guerra del Golfo e stavolta bombe e missili sono piovuti sugli abitanti di Baghdad. Il Libano, da parte sua, è stato straziato per diciassette anni da maroniti, drusi, sunniti, palestinesi e oggi si trova sotto il tallone del potente vicino siriano. Quanto al nostro vicino, l'Algeria, vive da sei anni al ritmo degli attentati e delle stragi.

L'America Latina rimane invece la regione privilegiata per le cospirazioni, dei colpi di Stato e i pronunciamientos. In Perù, dal 1980, oltre 14 mila cadaveri sono da mettere in conto a Sendero Luminoso. In Colombia, la più antica guerriglia del continente prosegue le sue azioni eversive contro il potere costituito, spesso con l'aiuto delle mafie locali. In Nicaragua, i sandinisti hanno avuto la peggio con i contras. In Messico, gli zapatisti si ribellano contro il governo. In Salvador, la guerra civile ha causato la morte di 79 mila persone in nove anni. Nel 1982 è scoppiato il conflitto delle Falkland-Malvinas tra la Gran Bretagna e l'Argentina. Nel 1989, l'operazione militare americana a Panama si è risolto con serie perdite civili e militari.

L'Europa stessa, che si sarebbe potuta credere vaccinata contro le violenze dopo la fine della seconda guerra mondiale, si è allineata. C'era da aspettarselo. Non appena si sono spezzate le catene della dittatura comunista ogni vassallo ha rivendicato immediatamente la propria indipendenza. Hanno le loro buone ragioni: specificità etniche, appartenenze linguistiche, rivendicazioni territoriali, disparità ideologiche, salvaguardia dell'identità. Quanto alla religione, è in gran voga. La si invoca con successo per ammazzare gli ebrei, i cattolici, gli ortodossi, i musulmani, gli atei, gli intellettuali, i giornalisti, gli stranieri.

Nell'ex-Yugoslavia i combattimenti tra serbi, croati e bosniaci hanno provocato, dal 1992, 200 mila morti e altrettanti feriti; la guerra del Kosovo ne ha preso con vigore il testimone – cosa che senz'altro fornirà eccellenti idee, un domani, ai vicini macedoni, albanesi, montenegrini.

La ritirata delle forze sovietiche dall'Afghanistan, nel febbraio 1989, in teoria ha messo fine a una guerra durata dieci anni che avrebbe causato fra 500 mila e 1 milione e 200 mila morti (a seconda delle fonti). In realtà, dal 1992 a oggi, i combattimenti non sono mai cessati – lotte tra fazioni rivali, repressioni dovute allo zelo dei talebani – tanto che si stimano circa 20 mila morti e 100 mila feriti durante questo periodo di «pace»... nell'attesa che una vera guerra, nel 2001, rimettesse a posto le cose. Il fronte meridionale dell'ex-URSS e una zona decisamente sensibile. Armeni cristiani e azerbaigiam musulmani, che si contendono l'Alto Karabakh, hanno lasciato 20 mila morti sul campo in sei anni. Gli altri conflitti dichiarati o latenti fra i russi e i loro vicini georgiani o ceceni hanno già totalizzato carneficine superiori e non sono ancora conclusi. Segnaliamo infine che l'invasione dell'Iraq nel 2003, a opera della coalizione capeggiata dagli Stati Uniti, è già costata la vita a più di 25 mila iracheni e a più di 2 mila soldati americani, oltre a un certo numero di loro alleati.

Si rassicurino dunque i militari e le industrie belliche: la guerra ha ancora tanti bei giorni davanti.

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Pagina 13

PROLOGO



Si sente dire in continuazione: «Come volete che non esista la guerra fra gli esseri umani? Si trova ovunque in natura». È vero. Salta agli occhi. Prendete una selce. Le particelle che la compongono non sono forse in uno stato di perenne e invisibile agitazione? Non è forse questa la prova che si dedicano a una guerra senza quartiere? I corpi, ci dice Newton, mantengono l'equilibrio solo grazie al gioco di due forze opposte, l'attrazione e la repulsione: ancora la guerra. Un filosofo ha scritto senza scherzare che questa «lotta sorda e costante... è una delle forme più significative e più importanti della guerra, e addirittura, in senso metafisico, la guerra per eccellenza». Si dice comunemente che la ruggine attacca il metallo, che il più è l'opposto del meno, il dritto del rovescio, il concavo del convesso, e il poeta dichiara che «il giorno sorge dalla notte come una vittoria». Sempre guerra.

Passiamo ai vegetali. Un cespo d'insalata, un fagiolino, un mazzolino di cerfoglio non hanno, a prima vista, un carattere eminentemente bellicoso. Ma le inesauribili potenzialità della lingua vengono in nostro aiuto. La pratolina e la piantaggine, che stendono sul terreno un collarino protettivo, desiderano proteggersi dai loro vicini per mezzo di fortificazioni adeguate. Le conifere sono delle imperialiste che tollerano nei loro paraggi solamente costellazioni di funghi inoffensivi. L'edera è un agente della quinta colonna che soffoca chi l'ha accolta senza sospetti. Le piante carnivore si lanciano sotto ogni profilo nella guerra offensiva: cattura d'insetti effettuata dalla drosera delle paludi, effetto sorpresa delle folgoranti mascelle della dionea acchiappamosche, ricorso alle neurotossine nel caso della nephenta e della sarracenia. E possiamo, in perfetta buona fede, citare le daghe dell'acacia, le frecce avvelenate dell'orfica, le lance dei cactus, i pugnali delle rose, le baionette dell'aloe e le spade delle foglie d'agave.

Passando al regno animale, raggiungiamo il culmine. La guerra la fa da padrona. Nelle foreste, fra le erbe, nella profondità delle acque, nei cieli, dappertutto vi sono persecuzioni, assalti, uccisioni.

Dobbiamo però annotare due piccoli particolari.

Innanzi tutto, gli animali si uccidono solo fra specie differenti, e principalmente per nutrirsi. È la cosiddetta catena alimentare. D'altra parte, noi partecipiamo volentieri a questo banchetto universale, come testimonia la montagna di maiali, agnelli, montoni, conigli, polli, faraone e altre bestiole a vocazione culinaria con cui ci rimpinziamo nelle ore felici, disposti a essere a nostra volta pasto di quei più-piccoli-di-noi di cui abbiamo spesso bisogno per i compiti più infimi.

La guerra interna alle specie esiste solamente presso alcuni insetti sociali: formiche, api, termiti, ovvero presso esseri viventi che, come l'essere umano, conoscono il lavoro, il risparmio e la proprietà.

Al di fuori di queste categorie molto ristrette, la guerra animale sostanzialmente assume la forma del combattimento individuale per la ricerca delle femmine o la difesa del territorio. Oltretutto, questi duelli sono spesso più spettacolari che cruenti. A parte qualche morso alle orecchie o qualche graffio, si tratta soprattutto di grida, ruggiti, petti gonfiati, sguardi di sfida rivolti in primo luogo alle attente spettatrici che sanno perfettamente che questa messa in scena è destinata a loro.

Se ciò nonostante il proliferare dei combattimenti rischiasse di mettere in pericolo l'esistenza della specie, esistono – è il secondo punto da mettere in risalto – dei meccanismi inibitori, una sorta di «dispositivi di inceppamento, volti a impedire che il consimile subisca danni». Il combattente che si rende conto di non avere alcuna possibilità di vittoria assume a quel punto una postura di sottomissione o di calma: presenta al vincitore le parti più vulnerabili del proprio corpo, ed elimina tutto ciò che potrebbe essere percepito come provocazione. Il lupo che ammette la propria sconfitta offre al rivale la gola gonfia per il combattimento, estremamente vulnerabile, oppure si accuccia sul dorso urinando un poco. Quest'ultimo gesto, che fra gli esseri umani apparirebbe una rara insolenza, placa immediatamente il nemico che cessa le ostilità. Il pesce che domanda grazia, invece di far mostra del proprio vestito di gala che suscita gelosie, lo nasconde, si fa discreto. Il gallo sottrae agli sguardi la sua cresta rossa, e lo stridulo gabbiano maschera il rosso granata del becco e il bruno scuro della maschera lasciando intravvedere solo il bianco del piumaggio.


L'essere umano non è così remissivo. Nelle contese sessuali o nelle dispute territoriali, ignora superbamente i meccanismi inibitori e punta direttamente a uccidere. Sembra addirittura che sguazzi con delizia nel sangue dei propri simili, al punto che la guerra è diventata una seconda natura, affermandosi come una delle sue più solide istituzioni. Per convincersene, è sufficiente gettare un rapido colpo d'occhio ai 4.680 anni della sua storia.

Tutto è cominciato molto presto. Quando la terra, se dobbiamo credere alle Scritture, ospitava in tutto quattro persone (e dunque non si possono invocare né la pressione demografica né le rivalità territoriali), la guerra scoppiava fra due di loro, e Caino spezzava il filo dei giorni del suo eccellente e unico fratello Abele. Preso lo slancio, questo andazzo non si fermerà più.

Gli uomini, o chi per loro, si sono infatti massacrati dai tempi della preistoria. In teoria, alla mercé degli elementi e minacciati dagli animali selvaggi come erano, avrebbero dovuto guardarsi reciprocamente le spalle; ma non è andata affatto così. I resti ossei rinvenuti sono a tal proposito eloquenti: mutilati, spezzati, arrostiti, essi rivelano che gli inventori dei primi utensili in pietra se ne sono serviti, senza perdere un minuto, per sventrare i loro simili, e che il fuoco appena domato non è stato utilizzato solamente per grigliare le bistecche di bisonte.

Quando affrontiamo il periodo storico, i documenti sostituiscono le ossa. Ma suonano la stessa musica, ed è una fanfara militare. Drammi, epopee, cronache, memorie raccontano sempre e solo la stessa storia: quella delle guerre degli esseri umani contro altri esseri umani. Sono questi i nostri veri punti di riferimento, «i paletti che segnano le grandi svolte epocali», i cardini attorno ai quali si articolano le fasi della vita di un popolo. Al di fuori di questi non c'è nulla, o quasi. Uno storico ha calcolato che, dal 1496 avanti Cristo al 1861 dell'era cristiana, ovvero in 3.358 anni, ci sono stati 3.130 anni di guerra e 277 anni di pace, ovvero tredici anni di guerra per ogni anno di pace. Lo studio degli ultimi centoquarant'anni non cambia fondamentalmente queste cifre. Il che è senz'altro incoraggiante e ci fa ben sperare per l'avvenire. La guerra, nata con l'uomo, con ogni probabilità morirà con lui. Lasciamo l'ultima parola a Joseph Prudhomme: «Signore, una parola sola per sconcertarvi. Ci si è sempre combattuti, ci si combatterà sempre».

Questo ragionamento è geniale. È stato invocato da tutti coloro che si sono adattati benissimo alle ingiustizie e alle sofferenze, soprattutto quando sono toccate agli altri, da tutti i rassegnati, i fatalisti, i disfattisti, che hanno trovato naturale che la peste devastasse periodicamente le popolazioni, che due terzi dei bambini morisse in tenera età, o che migliaia di esseri umani fossero venduti come bestiame. Monsieur Prudhomme è il loro portavoce. Rappresenta la Francia profonda, quella dei benpensanti e della maggioranza silenziosa. Ha sicuramente ragione. Ha il buon senso dalla sua. La guerra è eterna.

Ecco perché è utile conoscere meglio le cause di un fenomeno tanto fondamentale, studiarne accuratamente le leggi, scoprirne e apprezzarne le molteplici conseguenze: è quello che cercheremo di fare nelle pagine che seguono.

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VI
ALLEGRIA, ALLE ARMI!



Tutti i Paesi cercano la sicurezza. La Francia non fa eccezione, come ha spesso sottolineato nelle sue dichiarazioni la più alta carica della Repubblica: «Nella gerarchia dei nostri attuali bisogni, credo che il bisogno di sicurezza sia una delle maggiori necessità della Francia».

È legittimo questo desiderio?

Alcuni rispondono negativamente. Questa mania di essere sempre al sicuro, sostengono, rivela una psicologia da bambino pauroso, ancora attaccato alle gonne della mamma. È segno di debolezza. I forti non chiedono la protezione di nessuno. Oltretutto la nozione di sicurezza non esiste in natura. Gli animali sono sempre sul chi va là, per scorgere in tempo il nemico pronto a piombare su di loro e divorarli. La loro esistenza è in perenne stato d'allerta. Perché voler fare di meglio?

Di contro, la stragrande maggioranza degli uomini, tra cui un numero preponderante di responsabili politici e militari, sostengono che la sicurezza è un diritto legittimo delle nazioni e degli individui che le compongono. Il loro ragionamento è il seguente: poiché abbiamo reso un diritto il desiderio dei cittadini di sentirsi protetti dalla società, dobbiamo fare altrettanto per la nazione nel suo complesso. È un progetto lodevole.

Si pone qui la questione dei mezzi per garantire la sicurezza dello Stato. Ne vediamo solamente due. Il primo è quello che rimanda agli anelli di una catena. Il Paese che si è messo in testa di preservare a ogni costo la propria sicurezza comincia a reclamare uno Stato-cuscinetto tra sé e il suo eventuale aggressore. Lo ottiene. Ma non è del tutto soddisfatto. Certo, lo Stato-cuscinetto è utile. Ma è vulnerabile. Bisognerebbe isolarlo dal vicino con una striscia di territorio. Gli viene concesso, oppure se lo prende con le armi. Ora è più tranquillo. O meglio, lo sarebbe completamente se questa striscia, a sua volta, fosse protetta da una zona adeguata, la quale a sua volta potrebbe essere circondata da un contrafforte: passo dopo passo arriva così in capo al mondo. L'inquietudine ha spinto quello Stato da una conquista all'altra, ma al termine della sua espansione l'infelice non è riuscito a trovare l'agognata sicurezza, che resta solo un miraggio.

D'altra parte questa soluzione comporta tutta una serie di inconvenienti: essendo i territori acquisiti sempre più vasti e sempre più lontani, risulta sempre più difficile difenderli, le linee di comunicazione si tendono fino a spezzarsi e, soprattutto, gli Stati vicini finiscono per guardar male queste espansioni in serie, specie se realizzate a loro discapito. Non si sentono a loro agio. Sentono la loro sicurezza ogni giorno più minacciata. Vero è che «la sicurezza assoluta cui aspira una potenza si raggiunge solo con l'insicurezza più assoluta di tutte le altre». Non è l'ideale.

La seconda soluzione è molto più realistica: consiste nell'armamento sfrenato di ogni nazione, sia mediante la costruzione di propri arsenali, sia mediante l'acquisto all'estero. La nazione non avrà che l'imbarazzo della scelta, i fornitori fanno la fila: basterà avere una moneta di scambio. Se per disgrazia non l'avesse, se l'economia è allo sbando, se le finanze sono mal gestite e le casse vuote, potrebbe far ricorso a uno stratagemma che riesce nove vulte su dieci: il ricatto della posizione strategica, unito alla minaccia di vendersi al blocco avversario.

Se è forte, lo Stato è rispettato. Nelle conferenze internazionali come nelle trattative diplomatiche si troverà sempre in una posizione di forza, che è il solo modo di evitare i conflitti. Ricordiamo il brindisi di Raymond Poincaré alla cena d'addio a bordo del France, prima della sua partenza per la Russia: «La pace nella forza, nell'onore, nella dignità». Era il 23 luglio 1914. Nove giorni più tardi scoppiava la guerra.

Al contrario, la debolezza è pericolosa, poiché risveglia la cupidigia. È una provocazione. Approfondiamo questo punto di vista: una nazione rosea e ben nutrita, dotata di una moneta solida, di strade ben curate, di banche imponenti con depositi bene in carne, è una pecorella pasciuta, innocente e tentatrice che si pavoneggia sotto il naso del lupo famelico; non vivrà a lungo...

Tuttavia per un Paese non è sufficiente essere forte. Dev'essere il più forte. Di conseguenza, il suo vicino si troverà a essere più debole di lui. Naturalmente si sentirà umiliato, come qualunque persona se un pezzo di marcantonio venisse a far rombare il motore sotto la sua finestra. Per cercare di porre rimedio a questa situazione d'inferiorità, si armerà a sua volta, per raggiungere e poi superare il livello del suo rivale; il quale, per contraccolpo, vedrà ora la propria sicurezza minacciata. Il cerchio si chiude.

Nonostante la sicurezza sia un'illusione, non è vietato invocarla con tutta la propria forza. Anzi, è un'attività tanto più meritoria quanto più è assurda, accompagnandosi spesso alla convinzione che, una volta raggiunta la sicurezza, si comincerà il disarmo. Cosa che, ne converrete, è assolutamente stupida, visto che è impossibile ottenere la sicurezza se non con un armamento costantemente all'avanguardia. Ma i vertici civili e militari non si fanno cogliere in contraddizione. «Sicurezza prima, disarmo poi», gridano con voce stridula i Pétain e i Doumergue al momento della partenza per la linea Maginot. Il che chiaramente significa: «Il disarmo, mai!». La lezione della storia corrobora perfettamente questa affermazione. Il disarmo è la grande panzana dei tempi moderni, il mostro di Lochness di quei buontemponi della politica estera, la gag suprema, al pari dei piani di pace perpetua. Ma come accade spesso nelle esibizioni dei clown, dove le smorfie comiche celano una profonda tristezza, il pietoso elenco delle conferenze sul disarmo lascia in cuore una sorda malinconia.

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Pagina 161

VIII
LA GRANDE SELEZIONATRICE



Le prospettive mondiali sono fantastiche. Alla fine del secolo che si è appena concluso, sono stati 190 mila i nuovi passeggeri che il pianeta Terra ha imbarcato ogni giorno. Ogni ora sono saliti a bordo 8 mila viaggiatori supplementari. E il movimento tarda a rallentare. Ancora per quanto il battello continuerà a navigare prima di affondare? La popolazione del globo era di circa 500 milioni di persone nel 1650. Ci sono voluti duecento anni perché raddoppiasse, raggiungendo 1 miliardo nel 1850. Ottant'anni più tardi raddoppiava di nuovo (2 miliardi nel 1930), e così faceva quarantasette anni e mezzo dopo (4 miliardi nel 1978). Sperando che questa cadenza non si accorci ulteriormente, saremo 8 miliardi nel 2015 e 16 miliardi a metà del XXI secolo. Anche effettuando proiezioni demografiche modulate seguendo le possibili variazioni della fecondità, le Nazioni Unite arriveranno a 13 miliardi e 500 milioni di abitanti nel 2100 con una fecondità media, e a 30 miliardi nel 2150 in caso di fecondità alta. È molto. Già ora una buona metà degli individui che popolano la terra sono sottoalimentati. Sarebbe ragionevole migliorare la loro sorte, ma il compito è irrealizzabile se bisogna correre dietro al continuo aumento della popolazione.

Ci sarebbero tuttavia dei rimedi a questa situazione. Dato che i metodi contraccettivi sono stati a lungo – con grande gioia del signor Debré – mal applicati o proibiti (né d'altronde ci si può attendere granché da questi, come provano i miseri risultati ottenuti dalla pianificazione familiare in India e in Bangladesh), bisogna ora prevedere di porre un freno alla proliferazione umana non più prima del concepimento bensì dopo la nascita, ovvero ingegnarsi ad aumentare deliberatamente la mortalità. D'altronde, aiutando i Paesi sottosviluppati a realizzare un simile progetto non facciamo altro che porre rimedio ai nostri stessi torti, poiché se oggi si trovano alla vigilia di una tale esplosione è proprio a causa dei vaccini, delle regole igieniche e della medicina preventiva con cui, da vere carogne, li abbiamo sommersi.

Sfortunatamente non siamo padroni – almeno non ancora – dei terremoti, delle eruzioni, delle inondazioni e dei cicloni che di quando in quando devastano alcune regioni, e che possono raggiungere risultati assai positivi. Lasceremo quindi da parte i flagelli naturali, accontentandoci di evocarli nelle nostre preghiere. Abbiamo un po' più potere su un eventuale raffreddamento della terra, grazie all'aumento massiccio del numero di aerei che solcano il cielo. Le loro scie, infatti, producono un'accumulazione di cristalli di ghiaccio che rimbalzano nello spazio una parte del calore solare. Ma l'attesa di una prossima era glaciale rischia di essere lunga, e il tempo è contato. A conti fatti, è meglio puntare su un riscaldamento globale provocato dagli scarichi di monossido di carbonio e di altre sostanze che favoriscono il famoso effetto serra: di questo passo i poli rischiano di fondere come cubetti di ghiaccio in un bicchiere e l'oceano di innalzarsi gorgogliante in un nuovo Diluvio. Speriamo!

Più realistica – e più rapida – sarebbe l'organizzazione sistematica di diverse catastrofi che potrebbero facilmente apparire accidentali, come per esempio l'esplosione di una centrale nucleare, l'incendio di una raffineria o di una fabbrica di prodotti chimici pericolosi. Allo stesso modo si potrebbe predisporre un sistema per mandare in tilt i segnali ferroviari e stradali, cosa che moltiplicherebbe gli incidenti. La diffusione accorta e massiccia di droga, alcool e tabacco, l'incitamento alla dissolutezza, porta aperta per ogni contagio (senza contare lo sfinimento fisico e morale che conducono al suicidio), non sono certo da disdegnare.

Le cause delle grandi pandemie sono normalmente abbastanza misteriose. Facilitarne discretamente la comparsa non sarebbe un delitto né una sfida all'ordine morale, al contrario sarebbe una soluzione assai interessante per l'ampiezza d'applicazione. Si ricordi per esempio l'influenza spagnola che, dopo la guerra del 1914-1918, fece diversi milioni di vittime. Una simile epidemia, considerata l'attuale densità della popolazione e lo sviluppo dei trasporti, avrebbe buone probabilità di propagarsi al mondo intero con rapidità fulminante, e il numero di persone colpite supererebbe in fretta la capacità di produrre sieri e vaccini. Non è dunque inverosimile, come credono alcuni medici, aspettarsi una pandemia simile alla peste nera che, in sette anni, dal 1346 al 1353, fece sparire 25 milioni di individui in Europa e 23 milioni in Asia.

Il fenomeno potrebbe essere ancora più benefico in considerazione del fatto che le popolazioni denutrite del Terzo mondo sono quelle più vulnerabili alle malattie. Vediamo qui abbozzarsi una promettente combinazione tra carestia ed epidemia, con la prima che prepara il terreno alla seconda. Attualmente, se ogni anno muoiono diversi milioni di persone, principalmente bambini, per mancanza di cibo, decine di milioni di altre persone, quantunque indebolite da alcune carenze alimentari (insufficienza di proteine, di grassi, di vitamine), riescono a sopravvivere. Una malattia virale li ucciderebbe per primi. Le nazioni industrializzate possono agevolmente spingere alla carestia queste aree, diminuendo le loro superfici coltivate, riducendo le loro esportazioni, soppiantando i prodotti essenziali con altri prodotti senza valore nutritivo ma più remunerativi, o semplicemente distruggendo il loro surplus quando non può più essere smerciato a un prezzo ragionevole. Basta che una piccola guerra batteriologica si scateni su questo terreno accortamente preparato dagli ingegneri della globalizzazione economica, e il gioco è fatto.

L'infanticidio sistematico può venire in aiuto della naturale mortalità infantile. L'assassinio di neonati è stata una pratica corrente nell'antichità, nell'Arabia preislamica, in alcune civiltà africane. Ancora pochi anni fa in Cina, se un padre di famiglia giudicava inopportuna una nascita, vuoi perché la neonata era una femmina, ovvero uno scarto poco redditizio, vuoi perché la nascita avveniva in un giorno nefasto o era accompagnata da un cattivo presagio, vuoi semplicemente perché il padre in questione temeva di non riuscire a sbarcare il lunario con questa bocca supplementare, non veniva biasimato se faceva sparire il neonato. A volte l'infanticidio era indiretto. Sotto il regno della virtuosa Vittoria, i bambini – quelli poveri, s'intende – erano impiegati a partire dall'età di cinque anni nelle manifatture di cotone e a partire dagli otto anni nelle miniere di carbone. Non duravano a lungo. Nei Paesi del Medio Oriente, dell'Africa Nera, dell'Estremo Oriente, la castrazione, assai diffusa, produceva non solo eunuchi, ma anche un gran numero di decessi.

Quanto al progetto di far emigrare l'umanità in eccesso verso stelle e pianeti, l'idea, benché seducente si è scontrata con enormi difficoltà tecniche, soprattutto per quanto riguarda il volume e il costo del trasporto. Garrett Hardin, dell'università di Santa Barbara in California, ha calcolato che se gli americani accettassero di abbassare il loro livello di vita del 18%, il risparmio così realizzato lungo un'intera vita permetterebbe di esportare nello spazio il surplus demografico di una sola giornata. Del resto, supponendo che i problemi di trasporto vengano risolti, al ritmo di crescita attuale il nostro sistema solare sarebbe sovrappopolato in meno di duecento anni. Il gioco non vale la candela.


Alla fine, la guerra è l'unica soluzione accettabile per l'eliminazione dei surplus demografici, sia per la sua elevata produttività sia per il consenso unanime che essa suscita, soprattutto negli individui dotati di grande rigore morale. Così le stesse persone che fremono d'orrore davanti al massacro dei neonati, al lavoro dei bambini e ai maltrattamenti loro inflitti, ritengono perfettamente naturale che, raggiunti i vent'anni d'età, questi stessi adolescenti vengano radunati in un luogo adatto e ammazzati in serie. Questo fatto colpisce ancora di più se si considera che, dal punto di vista della redditività, è un affare assai migliore uccidere un marmocchio che ha solo nove mesi di gestazione piuttosto che un giovane uomo che si è dovuto nutrire, abbigliare, istruire e colmare di cure vigili per 240 mesi solo per farne un morto presentabile.

Ma le cose vanno così: la guerra gode sempre di un singolare prestigio.

[...]

Il secondo elemento è la produzione di ordigni sempre più precisi e devastanti. A dispetto di quel penoso profeta che nel 1914 scriveva che in base a statistiche irrefutabili «più le armi vengono perfezionate, più il numero dei morti e dei feriti diminuisce» (è anche vero che all'epoca bisognava calmare le inquietudini), le perdite hanno seguito, nel corso della storia e parallelamente allo sviluppo tecnico, una curva ascendente che ci tranquillizza per l'avvenire.

Certo, alcune operazioni militari del passato, pur se condotte con mezzi arcaici, sono riuscite a lasciare sul selciato un buon numero di bravi ragazzi. Cesare ha fatto morire 3 milioni di uomini, proprio come Napoleone: i grandi spiriti si incontrano. I conquistatori tartari e mongoli pare abbiano al loro attivo 25 milioni di cadaveri. La nota spese per le crociate non è trascurabile: a seconda delle stime, oscilla fra i 2 e i 6 milioni, cristiani e infedeli mischiati.

Per contro, il Rinascimento è avaro di sangue. Si racconta che alla battaglia di Anghiari, nella quale 20 mila soldati si combattono per quattro ore, muore solamente un uomo che, per di più, rende l'anima in seguito a una caduta da cavallo!

La guerra di Successione spagnola causa solo 400 mila decessi; ma già la guerra di Crimea 785 mila; la guerra di Secessione americana 800 mila, la guerra del Paraguay 1 milione. Dalla pace di Westfalia al 1856 si contano appena 8 milioni di individui passati per le armi. Tra il 1863 e il 1866, in quattro anni, l'Europa si trova alleggerita di 1 milione e 743 mila creature. E il Secondo Impero mette in fila 1 milione e 500 mila vittime, di cui circa 600 mila per il conflitto del 1870. Passivo del XIX secolo per il nostro piccolo continente: 15 milioni di morti.

È solo a partire dall'inizio del XX secolo che le cose migliorano. La prima guerra mondiale è generalmente valutata intorno agli 8 milioni e 700 mila morti, a volte intorno agli 11 milioni o addirittura ai 12 milioni. A questi conviene aggiungere, secondo alcune statistiche, un ugual numero di vittime indirette (le terribili epidemie del 1918-1919), cosa che porterebbe il bilancio a oltre 20 milioni di morti. Quanto al secondo conflitto mondiale, si stima che sia costato 38 milioni di vite umane (in base a un'ipotesi «cauta»), ma numerosi storici ritengono questa cifra troppo modesta e parlano di 60 milioni, se non addirittura di 100 milioni di morti. Bisogna però diffidare di simili avide valutazioni. Arrotondiamo dunque a 10 milioni per la guerra del 1914, a 50 milioni per quella del 1939, e non parliamone più.

Vacher de Lapouge sostiene che, su tutta la terra, si può contare su una media di 40 milioni di ammazzati per secolo, ovvero 2 miliardi e 500 mila uomini uccisi nei cinquemila anni della nostra civiltà e 5 miliardi dall'inizio dell'avventura umana. Si è inoltre divertito a calcolare che i defunti di un secolo di guerre, seppelliti a trenta centimetri d'intervallo, coprirebbero la circonferenza terrestre e che il loro sangue riempirebbe circa 3 milioni di barili.

Ci siano permesse qui due interessanti considerazioni. La prima è che la percentuale dei civili uccisi non smette di crescere: era del 13% nel 1914-1918, del 70% nel 1939-1945, dell'84% durante la guerra di Corea. La seconda è che la curva statistica delle perdite mostra un'impennata che non lascia dubbi circa la tipologia del prossimo conflitto mondiale: sarà nucleare, poiché non è possibile raggiungere simili cifre (circa 300 milioni di morti) con le armi classiche.

Le considerevoli perdite provocate dalle guerre, e singolarmente dalle guerre moderne, ricollocano nella sua corretta prospettiva la vita umana. Abituati come siamo, al giorno d'oggi, a contabilizzare i nostri morti in milioni di unità, non possiamo non riconoscere quanto sia ridicolo piangere per il trapasso di un individuo o di un gruppo familiare. Al contrario, con sangue freddo, dobbiamo renderci conto che lembi interi di popolazione possono essere soppressi in determinate circostanze. È l'opinione di molti capi di Stato che non esitano a parlare con grande calma di centinaia di migliaia, anzi di milioni di brave persone spedite all'altro mondo per il trionfo di una o dell'altra causa. Quando il benessere della nazione lo comanda, bisogna saper sacrificare tutti gli individui, fino all'ultimo. Il problema trova così la propria soluzione, dal momento che la nazione, che è sempre stata la somma degli individui che la compongono, scompare.

[...]

Non v'è il minimo dubbio: le riflessioni più intime di Darwin vanno nella stessa direzione; la grandiosa evoluzione del regno animale, dalla più umile creatura fino all'uomo, è il prodotto del gioco della selezione naturale, che risulta a sua volta dall'eterna lotta per l'esistenza, the struggle for life. L'unica lieve sfumatura fra l'opinione di Darwin e quella di von Bernhardi è che agli occhi del filosofo inglese non si tratta affatto di un combattimento che implica lo sterminio di un gruppo da parte di un altro, né della sopravvivenza del più forte, bensì del più adatto al proprio ambiente, del più adatto a procurarsi tutto ciò che è necessario alla vita: cibo, aria e acqua, luce e ombra, spazio, terreno di gioco. Se fosse stato altrimenti non ci sarebbe più una sola mosca o una sola formica sulla terra da lungo tempo. D'altra parte, secondo Émile Boutroux, il senso principale di struggle non è guerra, ma sforzo. Ascoltiamo Darwin: «Devo sottolineare che utilizzo il termine 'lotta per la vita' in senso generale e metaforico... Non si può dire che una pianta sul limitare del deserto lotta per la vita contro la siccità, poiché sarebbe più esatto dire che la sua esistenza dipende dall'umidità». Aggiunge poi l'autore de L'origine delle specie: «Gli uomini più coraggiosi, i più ardenti nell'esporsi sul fronte della battaglia, quelli che rischiano di buon grado la vita per i propri simili, soccomberanno in media più degli altri». Infine, evocando il sistema di reclutamento militare, Darwin aggrava la propria situazione: «I giovani di costituzione migliore vengono arruolati dalla leva. Vengono così esposti a una morte prematura... Gli uomini più deboli e di piccola statura, di cattiva costituzione, hanno molte più possibilità di sposarsi e di propagare la specie». Darwin ammette quindi la funzione di selezione della guerra. Si tratta però di una selezione differente da quella che intendeva il generale von Bernhardi. Invece di distruggere i più deboli, fa strage dei forti.

Esaminiamo più attentamente i diversi aspetti di questa affermazione. Nel caso delle popolazioni primitive, è difficile negare che coloro che hanno maggiori possibilità di tornare con una freccia nell'occhio o con un colpo di lancia nel fianco sono proprio gli uomini più forti e ardimentosi, quelli che si gettano contro il nemico prorompendo in grida di guerra. Ma quando arriviamo all'epoca moderna la questione si fa più complessa e dobbiamo fare una distinzione fra militari e civili.

Che si tratti di un esercito di professionisti o di un esercito di leva, le forze di un Paese in guerra sono costituite da individui sottoposti a una seria scrematura: non si prende chiunque. La grande mangiatrice di uomini ha il palato fino. Vuole giovani prestanti, dal colorito fresco, dalle spalle larghe e in pieno possesso di tutte le facoltà mentali.

Le necessità del conflitto isoleranno questo fior fiore della nazione, questa élite, dal resto della popolazione, impedendole in tal modo di avere, proprio nell'età più propizia alla procreazione, quei figli sani e vigorosi che il Paese reclama. Verrà poi inviata al fronte per farsi massacrare. Non si potrebbe sperare in una selezione più accurata: sono davvero i migliori a morire prima. Per contro, i pigri e i furbi aspettano la fine della battaglia, escono dai loro nascondigli, finiscono qualche ferito, depredano qualche morto, e saranno sicuramente considerati dei gloriosi sopravvissuti.

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Il coraggio provoca un prodigioso superamento di se stessi. Assomiglia a un accesso di collera: il combattente vede rosso, non sa più quello che fa, è in trance, o meglio «è cosciente di essere sollevato, trasportato suo malgrado, animato da un soffio potente al quale non può opporre resistenza». Al pari dello scimpanzé è pronto a gettarsi sul suo rivale, è percorso dal «fremito sacro», con la sola differenza che non è in grado, nonostante tutti i suoi sforzi, di farsi rizzare in maniera minacciosa i quattro peli che si ritrova sul petto.

Terminato lo scontro, a condizione che sia ancora vivo, ritrova il proprio spirito e la propria calma. È il momento pericoloso. Potrebbe mettersi a riflettere. È comprensibile che i responsabili delle operazioni militari facciano ogni cosa per strapparlo a quella tentazione. Ne va del successo delle loro armi. In effetti non è una cosa da nulla inviare milioni di persone a farsi ammazzare senza che si mostrino un po' recalcitranti, ed è necessario che siano terribilmente ben condizionate affinché il sistema funzioni alla perfezione. Ebbene, funziona praticamente senza intoppi; gli ammutinamenti si contano sulle dita di una mano. È quasi un miracolo.

Gli alti comandi persuaderanno dunque la truppa che l'intelligenza, lungi dall'essere utile, le porterà solamente noie e disillusioni; che è appunto «riflettendo che s'incappa nei cattivi pensieri»; che non c'è alcun bisogno di cercare la verità, poiché saranno i capi, che riflettono al suo posto e che vedono chiaro e lontano, a fornirgliela.

Inoltre l'autorità militare la convincerà, nel caso in cui si intestardisse a far uso del proprio cervello, che in ogni caso non capirà nulla della guerra, in quanto si tratta di un fenomeno misterioso, quasi occulto, dotato di vita propria, che di conseguenza sfugge al nostro controllo, e il cui fine si colloca «al di là della sfera della ragione umana».

Il comportamento del soldato deve quindi prendere come modello quello del ratto di fogna: dolce e comprensivo con i membri del suo gruppo, crudele e feroce contro tutti gli individui estranei. Se questo equilibrio si incrina, se si accenna a un'inversione di tendenza, si corre verso la catastrofe. La macchina da guerra, fino a quel momento perfettamente oliata, cigola e minaccia di gripparsi. Una parola che terrorizza i generali viene ripetuta a voce bassa negli stati maggiori: fraternizzazione.

Si tratta di un disturbo mentale molto particolare. Lo sfortunato che ne viene colpito non fa più alcuna differenza tra l'individuo che si trova al suo fianco e quello che si trova di fronte a lui. La confusione del suo spirito è tale che egli improvvisamente vede in loro, come se avessero lasciato cadere a terra le uniformi nemiche, solo degli uomini nudi, simili a lui, solo dei poveri diavoli, dei fratelli di miseria, pronti a tendersi la mano. Essendo questa malattia oltretutto contagiosa, essa rischia di assumere una forma epidemica di cui possiamo facilmente intravvedere le spaventose conseguenze: i combattenti dei due campi gettano le armi e si corrono incontro non per massacrarsi ma per coalizzarsi contro tutti i capi: la gerarchia militare si sgretola, gli ufficiali si danno alla fuga, la guerra si paralizza.

Fortunatamente per noi, il virus della fraternizzazione prolifera solo in ambienti eccezionali. Perché si sviluppi, sono necessari lunghi mesi di battaglie sanguinose che indeboliscono i corpi e le anime, come accadde nel 1917. D'altra parte, i comandi conoscono i metodi per eliminare il male. Il più efficace è la pura e semplice ablazione della parte contaminata.

Quanto ai trattamenti preventivi, questi consistono nel mantenere nel soldato l'immagine tipo del nemico: una creatura schifosa da distruggere senza indugi. Ci si impegnerà quindi a impedire la diffusione di ogni informazione che potrebbe lasciar credere che il combattente avversario abbia dei sentimenti, degli slanci di cuore, delle credenze religiose, della pietà, dei dubbi, che possa soffrire di scoramento come ognuno di noi. Così protetto e immunizzato, il soldato può continuare la lotta. Il suo spirito è libero. La sua testa è vuota. La sua immaginazione è estinta. La sua riflessione è defunta. Non sa e non deve mai sapere che nello stesso momento in cui scrive una lettera a sua madre, a sua moglie o alla sua fidanzata, centinaia d'altri uomini, di ogni razza, sotto tutti i climi, vestiti di tutte le uniformi, tracciano più o meno le stesse parole su pezzi di carta...


MARC A GERMAINE: «Le foto che ho ricevuto in questi ultimi giorni sono la mia migliore compagnia. Le tiro fuori venti volte al giorno dal portafogli, e vi guardo».

FRITZ A BARBARA: «Ancora una volta ho preso la tua foto tra le mani e l'ho contemplata a lungo. Rivedo il momento che abbiamo vissuto insieme in quella bella sera d'estate dell'ultimo anno di pace, quando stavamo andando verso casa attraverso le aiuole fiorite».

KIYOSHI ALLA SUA FAMIGLIA: «Ogni sorta di pensieri mi attraversa. La vita da studente nella mia casa di Tokyo, l'anno scorso, in questa stessa stagione. Il letto caldo, la zuppa fumante, il mio studio inondato di sole, l'odore d'inchiostro fresco di stampa che veniva dai giornali posati sulla poltrona...»

ERNST AI SUOI: «Pace! Tutta la nostalgia che s'impadronisce di noi quando siamo separati tanto a lungo, tutto quello che desideriamo per noi stessi, tutti i sogni per l'avvenire che s'insinuano nei nostri ripari, ogni cosa è racchiusa in quest'unica dolce parola: pace».

MAURICE AI SUOI GENITORI: Ho visto troppe cose disgustose per essere ancora impressionato da certe parole che colpiscono gli ignoranti e gli stupidi. Perché ci battiamo ora, e in questo modo? Per salvare chi? Difendere che cosa? Vincere cosa?».

LUDWIG ALLA SUA FAMIGLIA: «Ci viene ripetuto che noi combattiamo per la Germania, ma qui sono in pochi a credere che questo sacrificio sia utile alla patria».

JOE A SUA MADRE: «Cara mamma, credevo che la guerra fosse una gloriosa avventura: come mi sbagliavo! È l'inferno... In che orribile storia mi sono lasciato trascinare? Dio certo non ha mai voluto che le sue creature regolino così le loro dispute. Viviamo e agiamo da bestie. È spaventoso!... Sono giovane, ma mi sento già vecchio. Sono invecchiato di un secolo in una settimana».

KONRAD A SUO PADRE: «Ho cercato Dio in ogni cratere d'obice, in ogni casa distrutta, a ogni angolo di strada, in ogni compagno, quando ero rannicchiato in una buca, e anche in cielo... E Dio non si è mai mostrato, quando tutto il mio cuore gridava per lui... No, padre, Dio non esiste! Oppure, se c'è, esiste solo per voi nei messali e nei canti, nei sermoni devoti di pastori e curati; forse esiste nei rintocchi delle campane e nei fumi dell'incenso, ma non esiste a Stalingrado».

[...]

HEINRICH A UN AMICO: «Cosa c'entro io con tutto ciò? Sì, cosa c'entriamo noi, comparse di questa stupidità vivente? La morte dev'essere sempre eroica, entusiasta; dobbiamo morire sempre convinti e per una grande causa. È questa la verità? Gli uomini muoiono come mosche; nessuno si china su di loro, nessuno si preoccupa di seppellirli. Sono sparsi dappertutto, senza braccia, senza gambe, senza occhi, con la pancia piena di buchi... Si potrebbe girare un film straordinario, qualcosa come: La più bella morte del mondo. È la morte del bue al mattatoio, che più tardi, su un piedistallo di granito, si trasformerà nella 'Morte del guerriero', con la fronte bendata o il braccio fasciato... Si scriveranno romanzi, si intoneranno inni e canti, si celebreranno messe...».


Questo giovane tedesco, ucciso sul fronte russo nel 1943, era lucido malgrado la sua disdicevole amarezza. Non è necessario compiere azioni straordinarie per ricevere il titolo di eroe. La guerra assomiglia a quei giochi di società in cui tutti i giocatori vincono un premio. La nazione distribuisce generosamente il certificato di eroismo a tutti i combattenti, vivi o morti che siano. Naturalmente i secondi hanno la parte migliore: sono eroi completi, a titolo definitivo, hanno diritto al loro nome iscritto su un monumento, a cerimonie in memoria e a Te Deum a manetta. Ma anche i superstiti non sono trattati male. Lo Stato, con poche spese, è prodigo di citazioni e di felicitazioni, li copre di nastri e di medaglie, organizza numerosi raduni nei quali si continua a ravvivare una fiamma che rischia giorno dopo giorno di spegnersi.

Così, a poco a poco, il modesto fante, che era stato gettato nella mischia senza sapere nemmeno da che parte girarsi, finisce per convincersi di essere un personaggio da epopea. La domenica mostra ai suoi figlioletti la baionetta ancora rossa di sangue che conserva come una reliquia sacra; cosa che dimostra alla perfezione come ammazzare chi ci sta di fronte in guerra non sia un omicidio, altrimenti egli getterebbe via l'arma del crimine in fretta e furia. E i mesi che ha passato nell'oscurità, tormentato dalla fifa e dalla repulsione, in fondo a una trincea, nella merda e nel fango, si tramutano in una pagina di leggenda che ripeterà fino al termine della sua vita.

A furia di rimpinzarsi di gloria, giungerà inesorabilmente alla confortante certezza di aver servito una grande causa. Non gli verrà il dubbio che gli allori di cui è insignito, lungi dall'essere destinati alla sua modesta persona, servono in realtà ad alimentare il fuoco del patriottismo. Al contrario, è certo di aver liberato il proprio Paese dal giogo straniero, di aver salvato la libertà umana, di aver contribuito a impedire nuovi conflitti.

In realtà, dal momento che non vede più in là del suo fucile, non si accorge che la libertà umana è messa peggio di prima, che il nemico di ieri, lo stesso che per ben due volte ha cercato di annientare, è diventato l'amico di oggi, che l'alleato di cui magnificava le virtù sarà verosimilmente il nemico di domani, e che la «ultimissima» guerra era solo uno slogan ben azzeccato.

Felice lui! Lasciamolo sognare. Non svegliamolo. Forse è meglio così. Forse è meglio che non abbia nemmeno capito che le sue sofferenze, le sue speranze, i suoi sacrifici sono stati totalmente inutili, e che tutti i suoi compagni sono morti per nulla.

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APPENDICE III



Preghiera al Führer, pubblicata dall'organo delle SS «Das Schwarze Korps» in occasione del cinquantesimo compleanno di Hitler, il 20 aprile 1939:

In questo giorno mi avvicino alla tua immagine. Quest'immagine è di una grandezza sovrannaturale, illimitata, formidabile. È dura, magnifica, sublime. Essa racchiude, in una persona sola, nostro padre, nostra madre, nostro fratello. Tu sei il Führer senza bisogno di ordinarlo. Tu sei vivo e sei là. Tu sei l'amore e la forza. Tu sei la libertà, poiché tu hai donato un senso al dovere che rende ogni lavoro gioioso, grande, essenziale. Tu hai liberato questo popolo dalla maledizione del lavoro abbrutente e faticoso, questo popolo che, in timorato silenzio, ferma i suoi passi e si tiene dietro di te. Così tu sei la basilica dell'amore di milioni di esseri, basilica la cui cupola s'innalza verso il cielo. In questo giorno di festa della tua esistenza, milioni di cuori battono più veloci e più forti, e poiché la tua vita ci è sacra, è un giorno di festa per i tedeschi!

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APPENDICE IV



Il catechismo del balilla, destinato ai bimbi dagli otto ai dodici anni (Piero Del Franco, Stabilimento tipografico Cerere, Chiusi 1924):

1. Io credo in Roma eterna ed intangibile, madre della mia Patria, centro irradiatore e dominatore della civiltà dell'Europa e del Mondo, 2. e nell'Italia, sua primogenita e gloriosissima figlia, 3. la quale nacque, per l'opera meravigliosa di Dio, dal suo seno vergine e fecondo di genio, di sapienza, di scienza e di arte, 4. patì sotto il barbaro invasore, fu crocefissa, squartata e seppellita, 5. discese nelle tombe dei suoi padri antichi a riprenderne l'anima ed il cuore, il sentimento ed il pensiero, e per essi risuscitò nel XIX secolo, 6. risalì al cielo della sua gloria nel 1918 e nel 1922, con il trionfo di Vittorio Veneto e la vittoria liberatrice del Fascismo, 7. siede alla destra della Madre Roma, intangibile ed eterna, 8. e di là giudica i vivi e i morti; 9. credo nel genio restauratore di Mussolini e nello spirito buono, volenteroso, fattivo del popolo italiano, 10. nel Santo Padre Fascismo e nella Comunione dei Martiri dell'alpi, del mare, delle strade e delle piazze, con i suoi seguaci, 11. nel ravvedimento degli italiani traviati e traditori o per volontà propria o per la grazia delle severe leggi, 12. nella resurrezione dell'impero Romano e nella sua vita immortale e gloriosa.

Amen!

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