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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione 9 Autostrade viola. 13 Che non si può neanche leggere di Andrea Bagni Dolce stil novo 17 di Franco Berardi Bifo Mi manca il mare 21 di Maria Isabella Binetti L'evacuazione 23 di Fulvio Bozzetta Ah, che bei tempi! 31 di Pino Cacucci L'autogestione vista da dentro. 35 Diario minimo di un organizzatore di Enrico Camporesi La gara di mitto 41 di Simona Cappiello Ite, missa est 45 di Luisa Catanese Prima nota sul registro 49 di Ruggero Cesana Il tic 55 di Francesca Civerchia I cinesi al liceo 59 di Valerio Evangelisti Il gesto 63 di Maria Gabriella Frabotta Se il cielo è grigio 67 di Daniela Franchini Bambini al pascolo 75 di Manuela Giusti L'ira funesta 79 di Francesco Locane Classe II B, il nostro amore è cominciato lì... 83 di Claudio Lolli Un terzo elemento 89 di Luigi Lollini La signora Corradi 95 di Macaia La gazzella ferita 99 di Remo Marcone Il Club degli Azzoppati Felici Pochi 103 di Alberto Melis Il grande passo 109 di Emanuela Nava La vergogna nelle scarpe 111 di Cristiano Nocente Lo sfogo 115 di Enrico Paselli Lettera dei genitori dell'extraterrestre Lusad alla famiglia italiana che avrebbe dovuto ospitare alla pari la loro creatura 117 di Bianca Pitzorno La giovane maga 121 di Renata Puleo Bambole 123 di Renata Puleo La mia mano sinistra 127 di Simona Robbiati Pluriclasse, anni '70 129 di Silvana Ronco Acilia 131 di Laila Scorcelletti Passaggi 133 di Stefano Tassinari Neanche di fronte all'evidenza 137 di Alessandra Teatini Il signore della qualità 143 di Fabio Tittarelli G. o dell'ora 149 di Gabriella Tull In principio era il limografo 153 di Sergio Viti Gli autori 158 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Questa antologia di racconti nasce in mezzo ai conflitti e alle sofferenze legati alla controriforma della scuola. In un'altra esperienza editoriale abbiamo provato a smascherare i cambiamenti imposti dal ministro Moratti a partire dal lessico della «nuova» scuola e abbiamo scritto un contro-lessico. Il registro linguistico e lo stile di alcuni interventi ci hanno fatto capire che la «gente» di scuola aveva l'esigenza e il desiderio di raccontare; forse perché narrare una storia è un antidoto all'insensatezza e all'indifferenza, ma anche un modo di elaborare in positivo la fatica dell'insegnare e del continuare ad apprendere. Abbiamo pensato che raccontare una storia potesse rendere questa fatica qualcosa di condiviso e di importante, in un momento in cui sentivamo che la scuola stava perdendo la centralità sociale e culturale che per decenni aveva avuto. «Non c'è nessuno di noi che non abbia una esperienza, un ricordo, un vissuto sulla scuola che non lo riconduca verso un'emozione, che non gliela provochi. Qualcosa che, come dice la parola, muove, cammina dentro di noi, si mostra nel sorriso, negli occhi, nella postura, sta nell'animo, ma segna ed è segnato dal corpo, nel corpo». È stato questo il nostro invito a raccontare dalla «scuola elementare [...] il periodo dell'incantamento, del sogno della conoscenza, della magia contenuta negli apprendimenti elementari, fondativi, nelle approssimazioni al sapere e al convivere che lasciano un segno», alla «scuola superiore, quando si è presi dai compagni, dalle compagne, dall'amore, dalla lotta per definire chi siamo, se mai lo si possa davvero fare», anche per mettere in luce «le disarticolazioni potenti dei processi di mercificazione e il riemergere prepotente della dimensione classista», cercandone «le tracce negli episodi quotidiani del presente [...] quasi come antropologi - allo stesso tempo dentro e fuori dalle situazioni – di un contesto culturale in forte mutamento». Alla nostra sollecitazione hanno risposto molti più di quanti ci aspettassimo. Autori «laureati» e non (chi scrive per mestiere, chi solo per diletto o addirittura in segreto) hanno scritto seguendo il filo conduttore, altre volte lavorando ai fianchi, producendo derive: dalla narrazione vera e propria di un fatto emblematico, alla memoria personale, al guizzo dentro l'attualità della politica scolastica con l'attenzione a quello che di essa fa soffrire o fa continuare a sperare. Il risultato sono storie dagli esiti molto diversi, ma tutte capaci di attrarre il nostro ascolto, di interessare e commuovere. Le abbiamo raccolte sotto il titolo Quando suona la campanella, perché il suono di una campanella di inizio e di fine lezione ha un carattere metaforico ed evocativo. La campanella segna il confine fra ciò che è stato e ciò che verrà, grazie a un percorso di apprendimento o malgrado esso. È dunque un'idea di futuro che comprende quanto di una tradizione e di una eredità avremo saputo mettere a frutto, ma anche quanto avremo dimenticato per far posto all'inconsueto e al rivoluzionario. Il suono della campanella è tensione tra un ricordo e una aspettativa. La scuola, in questo periodo storico, ha bisogno di raccontarsi non solo con i linguaggi e i temi specifici del lavoro che in essa si svolge, ma con narrazioni di più ampio respiro, che ci mettano in contatto con le emozioni, con i sentimenti degli adulti, degli insegnanti di oggi, dei bambini che siamo stati. Se abbiamo alle spalle una memoria da narrare, possiamo avere anche un futuro, basato su una utopia di grande e profondo cambiamento. | << | < | > | >> |Pagina 13Ritorno in pullman da gita di classe. Notte, fari, lucine viola interne che non si può nemmeno leggere. E tutti che dormono, ragazze e ragazzi nelle posizioni più strane. Rimbozzolati, accartocciati, ramificati. Qualcuno sussurra. Parla, mi sembra di capire, di un amore non dichiarato, non dichiarabile: forse si gode un po' il ruolo «sfortunato», che tiene tutto l'amore per sé. Io non dovrei ascoltare, è chiaro. Ma poi con ragazze e ragazzi non è mai del tutto chiaro chi, cosa si ascolta. Quali voci. C'è un mare di echi. Ritorno in pullman da gita di classe. Notte, fari, lucine viola eccetera. Che uno non ci pensa nemmeno a leggere, mica siamo professori. Lei, Milena, dorme sulla tua spalla. È una che fa parte del «gruppo», feste in casa con tredici maschi e due ragazze, lei e un'altra. La conosci da una vita, ti sembra – in realtà da pochi anni di scuola; cioè effettivamente da una vita. Però è un'amica e dunque non può esserci altro. Non ci può essere altro?, boh. Certo i tuoi amici ti direbbero, con la Milena?, e tu non sapresti che dire. Però non ti è chiaro il tutto. E sono molte le cose che non ti sono chiare nei rapporti con le ragazze. Certo quando fanno parte del «gruppo» sembrano entrare in una zona strana, fatta di battute e di scherzi, di una confidenza che toglie un po' di imbarazzi (apparentemente) o li sposta, li moltiplica. Come se fossero senza sesso. Amiche. Ma mica sono senza sesso davvero. E poi lei è così dolce. Adesso appoggia la testa alla tua spalla e ti sembra che puoi prenderle una mano, come se niente fosse – questo di fare le cose come se niente fosse è sempre il punto fondamentale; essere sciolti e disinvolti è segno di successo. Però adesso per te non se ne parla proprio di dormire. Sei in uno strano film e non si dorme. Qual è la scena successiva? Non ne hai la minima idea. Qualcosa però devi fare, questo ce l'hai abbastanza chiaro: forse potresti abbassarti un po' e baciarla. Nei film succede così più o meno – ma essere all'altezza dei ruoli maschili del cinema è un gran casino in realtà. Comunque non è chiaro che cosa deve succedere e come. Chi la fa succedere. Quello che sai bene è che quando ci pensi troppo poi le cose vengono fuori stonate, goffe. Non c'è niente che temi di più. Ma arriva un colpo di scena. Lei ti parla e ti chiede una cosa. Ma nel tuo film, in una scena così, si parlava? Te l'eri immaginata rigorosamente senza parole, con le cose che succedevano lente, possibilmente lievi. Milena dice, mi hai preso la mano ma è perché qui l'atmosfera è tutta particolare, giusta: notte lucine viola strada eccetera. Oppure è per amicizia? Che domanda è? Non hai mezz'ora per rispondere, qualcosa te lo dice, però lo capisci subito che non va bene come domanda. Quella cosa dell'atmosfera languida non ti fa impazzire per niente, almeno non detta così, per quanto sia anche un po' vera; ma non si può dire così e non sentirsi irrimediabilmente superficiali e stupidi, lì a sfruttare l'atmosfera di una sera, ma va'. Alla fine ti sembra un po' più serio, più profondo e meno banale fare riferimento all'amicizia. Almeno è un sentimento, qualcosa di vero che senti – anche se la realtà adesso è più complicata e l'amicizia non corrisponde gran che a come ti senti, al desiderio di baciarla ad esempio. Tu comunque rispondi, per amicizia e lei tranquilla dice, allora posso continuare a dormire. Come uno zot nel diario di B.C. (fumetto, filosofia della vita). Come il serpente spalmato al suolo dalla grassona. Rimani incenerito, senza parole, azzerato – anzi annichilito (da nihil, latino, che dev'essere peggio). Hai sbagliato risposta. Decisamente. E il discorso è definitivamente chiuso che più chiuso non si potrebbe, non puoi mica chiedere la domanda di riserva come al rischiatutto. Però le risposte erano sbagliate tutt'e due e tu non hai capito che dovevi spostarti, non giocare quel gioco, proporne un altro. Oppure chiedere, prendere tempo. Ma vattelappesca che dovevi dire. Invece non avrai mai più il coraggio di domandare, di avvicinarti, di prendere mani (almeno non le sue): buio nero da lì in poi. Non andrai oltre la famosa amicizia, maledettissima amicizia. Milena è un'amica, un'amica, un'amica. E tu un po' un imbecille. [...] | << | < | > | >> |Pagina 31«Dio non ha creato nulla di inutile. Ma con le mosche e i professori c'è andato molto vicino». La scritta campeggiava su un grande foglio che avevo tratteggiato a china e appeso alla parete della classe durante le lezioni di disegno, un'accozzaglia di scopiazzature dai fumetti di Magnus – Bob Rock, Superciuk e soci – e del resto anche la frase incriminata non era farina del mio sacco ma presa dal Gruppo TNT, capolavoro della coppia Magnus & Bunker. I prof furono così saggi da ignorarmi. Eppure avrei dovuto essere più accorto, con le mosche. Perché già in prima media proprio a causa di tali insetti – che abbondavano su banchi e zazzere, ronzavano distraendoci subdolamente, scacazzavano i vetri oltre i quali non dovevamo comunque guardare per seguire attenti le lezioni – mi ero beccato una sospensione. I fatti nudi e crudi: durante l'ora di scienze – e quale, se no? scienze naturali applicate, le mie – con il compagno di banco ci industriavamo ad acchiappare mosche vive, affinando un colpo di polso da far invidia ai campioni di tennis, poi le infilavamo nel cannello vuoto di una bic, e ognuno incitava la sua con vari metodi, via via sempre più rumorosi. Vinceva la mosca che spingeva fuori l'altra dalla parte opposta. Il tifo si estese ai banchi adiacenti. A un certo punto facemmo un tale casino – la mia stava ormai trionfando, in diversi avevano scommesso la merenda proprio su quella – che l'esasperata prof abbandonò le scienze per precipitarsi su noi due e schiaffarci dal preside. Il preside, che assomigliava incredibilmente a un personaggio di Magnus, più Superciuk che Bob Rock, ascoltata la filippica della prof in crisi isterica, emise il verdetto di sospensione con giudizio sommario ed esecuzione della pena entro le successive ventiquattr'ore. Pero la sospensione era soggetta a una formuletta infingarda: con obbligo di presenza. Ma che sospensione era, se poi dovevamo comunque andare a scuola? Nella pratica, io e il mio sventurato compagno di banco trascorremmo una mattinata da zombie, cioè eravamo lì ma i prof dovevano fare come se non ci fossimo, e da parte nostra, guai ad aprire bocca o a muovere un muscolo: ufficialmente sospesi, cioè in una sorta di limbo, persi nel vuoto siderale della surreale formuletta «presenti-da-ignorare- ma-costretti-a-obbedir-tacendo», e in quanto alle mosche, quel giorno parvero intuire la situazione di forzata impotenza, perché ci provocarono beffardamente posandosi persino sulle bic. Trauma ben peggiore lo avrei dovuto affrontare in seconda media, quando il prof di italiano – noto esponente di partito di governo dell'epoca che alternava la carica di sindaco di paesino limitrofo al passatempo scolastico, facendo entrambe le cose distrattamente – ci diede il tema La Grande Guerra nei racconti del nonno. La mia generazione aveva nonni che si erano visti sbattere nel fango delle trincee e qualcuno il nonno non ce l'aveva più perché dalla trincea non era tornato. Comunque, a differenza di altri i cui nonni erano imboscati o ufficiali o defunti, io potevo vantare un nonno materno che non solo faceva parte della schiera di contadini trasformati dall'oggi al domani in fantaccini, ma ero orgoglioso del fatto che mi raccontasse spesso i suoi ricordi, certo inficiati dalla sua particolare visione dell'esistente, essendo un comunista sfegatato, ma pur sempre ricordi di vita – e morte – narrati con pudica commozione per i compagni persi e vibrante indignazione per l'operato degli ufficiali. Racconti di soldati semplici fucilati sul posto perché si rifiutavano di andare all'assalto, racconti di nottate a parlare con gli austriaci dall'altra parte della trincea scambiandosi tozzi di pane secco e patate mezze marce e tentando di mettersi d'accordo per non scannarsi l'indomani, racconti di un generale che sparava in testa a un alpino perché gli aveva «mancato di rispetto». Storie che il libro di Storia ignorava e aborriva. Ingenuamente, li trascrissi nel tema, quei ricordi del nonno. Apriti cielo. Il sindaco-professore-difensore della Patria mi additò al pubblico ludibrio della classe, dandomi del bugiardo, e aggiungendo, bontà sua, che la fantasia va bene per scrivere «romanzetti» ma non può essere usata per infangare l'eroica guerra di indipendenza dal giogo austroungarico dove il fulgido esempio di un Enrico Toti che pur senza una gamba eccetera eccetera. Un comizio. Forse si preparava alle prossime elezioni, chissà. Eppure, chiuso nel mio muto sdegno, sapevo che mio nonno non era un bugiardo... Con gli anni, avrei appurato che ben di peggio avvenne, in quelle trincee dell'ignominia, in quelle offensive dell'abominio, in quella carneficina tra poveracci dall'una e dall'altra parte. E oggi mi sono addirittura convinto che Enrico Toti non sia mai esistito, perché nessuno è tanto folle da tornare in trincea dopo che gli hanno amputato una gamba e nessun esercito accetta di farsi carico di un mutilato affetto da gravi turbe e per giunta in vena di smargiassate. Insomma, con la scuola ho sempre avuto un rapporto conflittual-stimolante-sospeso, nel senso che c'ero ma non c'ero e nel frattempo mi incazzavo e facevo incazzare gli insegnati ma tutto sommato trovavo stimoli per evitare di andare a lavorare anziché studiare, il che era un grande risultato viste le convinzioni di un altro prof, che a mia madre ripeteva: «I figli degli operai devono fare gli operai, perché in questo paese qualcuno deve pur lavorare, no? O vogliono fare tutti gli intellettuali? E a zappare la terra chi ci va? E se ho bisogno di un idraulico chi chiamo, uno dei tanti ingegneri che sono a spasso?» Temo che almeno uno dei tanti colpi che gli mandò mia madre – diciamo uno per ogni operaio in cassa integrazione, poi destinati a diventare «esuberanti», ma non nel senso di disinibiti e disinvolti – dev'essere arrivato a segno, perché l'anno dopo anticipò la pensione per «esaurimento nervoso». Però ho chiuso in bellezza. Cioè è sempre l'ultimo ricordo quello che prevale, e grazie al fato benigno, l'ultimo anno delle superiori ebbi un prof di italiano così appassionato alla delicata missione che si era scelto, da stravolgermi e coinvolgermi, da inocularmi giorno dopo giorno il piacere della lettura malgrado I Promessi Sposi imposti dal programma, e credo sia anche grazie a lui, se da lì in avanti cominciai a torturare parenti e amici con racconti illeggibili e aborti di romanzi. Però, con il tempo... Perché l'artigiano impara strada facendo, e se ha fortuna incontra buoni maestri. Magari non subito, ma l'essenziale è non arrendersi alle prime impressioni. E non farsi distrarre dalle mosche. | << | < | > | >> |Pagina 109Tommaso non capiva come mai a suo fratello maggiore fosse stato consentito e a lui invece proibito. Eppure la mamma lo aveva detto tante volte che solo così si diventa grandi. E anche la maestra Costanza Biscuola, che aveva un bel nome da romanzo, lo aveva ripetuto molte volte in classe. – In Africa alla stessa età si va nella foresta ad affrontare leoni e leopardi. Anche voi a undici anni dovrete dimostrare che siete pronti per il grande passo. Il grande passo era lasciare gli amici e avventurarsi nel mondo da soli. Ma Tommaso sapeva che Fabio e Ezio quel giorno non lo avrebbero abbandonato. – Se dobbiamo combattere contro le belve feroci, facciamolo almeno insieme – diceva ai compagni. Il giorno venne, ma qualcosa era cambiato. Tommaso non capiva, chiese spiegazioni. In classe c'era un'eccitazione scontenta. Per cinque anni si erano preparati tutti, maschi e femmine, a superare la prova. La maestra Biscuola aveva annunciato che quello sarebbe stato un giorno molto speciale, dove persino i desideri più matti, se uno avesse avuto il coraggio di scriverli o di rivelarli a voce alta, da grandi si sarebbero potuti avverare. Tommaso da grande voleva fare il Viaggiatore. Lesse mappe, consultò cartine, imparò nomi bellissimi a memoria: Timbuctù, Chiapas, Castagneto Carducci, Cochin, Libreville. Era pronto per il tema e per l'interrogazione di geografia. Era pronto anche per attraversare la savana e affrontare una iena se fosse stato necessario. Ma Costanza Biscuola una mattina annunciò a testa bassa che l'esame di quinta elementare era stato abolito, che sarebbero andati in prima media senza sostenere nessuna prova. – Senza prove? Ma allora quando diventeremo grandi? - chiese qualcuno. – A quattordici anni – rispose la maestra. – Alla fine della terza media. Tommaso tornò a casa e a chi si complimentò con lui perché l'aveva scampata bella disse che quella era stata proprio una disgustosa ingiustizia. Suo fratello era diventato grande a undici anni, mentre lui per diventare grande avrebbe dovuto aspettare un'età spaventosa. Un'età in cui in certi paesi forse si è già papà. | << | < | > | >> |Pagina 117Gentile famiglia Brichetti, siamo i genitori di Lusad, che dovrebbe venire per qualche anno come ospite alla pari in casa vostra, secondo gli accordi presi tramite l'Associazione di amicizia Terra-Deneb. La nostra creatura era entusiasta all'idea di fare questa esperienza, nonostante la nostra pediatra, Mo, che è stata ospite della famiglia Olivieri nel lontano 1979, le abbia raccontato quanto sia stato difficile per lei adattarsi alle usanze terrestri, in particolare per quanto riguarda la diversa educazione che ricevevano allora sul vostro pianeta i maschi e le femmine. L'esperienza era stata così sgradevole, che Mo era dovuta tornare a Deneb prima del tempo, e una sua amica italiana aveva poi raccontato le sue disavventure nel romanzo Extraterrestre alla pari. Lusad ha obiettato che da allora è passato tanto tempo, e che le cose saranno di certo cambiate. L'uguaglianza fra i bambini e le bambine è ormai un dato acquisito in tutti i pianeti della Galassia. Abbiamo cercato su Internet alla voce «Educazione sulla Terra» e, sul primo sito che abbiamo incontrato, abbiamo letto delle parole che ci hanno messo in allarme. Si raccontava di un abate francese che aveva insegnato a una sua giovane compatriota l'italiano, il tedesco, la musica, il latino, il greco e le scienze naturali. E che in tal modo le aveva comunicato «il suo ardito spirito critico e la sua libertà di giudizio, senza pensare che queste qualità tanto necessarie a un uomo diventano difetti in una donna destinata alle umili occupazioni di una madre di famiglia». Il narratore concludeva dicendo che, «come tutte le giovani uscite dalla via sulla quale devono camminare le donne», quella fanciulla era andata a finire male. A leggere tali assurdità Lusad ha sussultato d'indignazione e ha detto: – Allora ha ragione Mo. Non ci vado a studiare sulla Terra! Ma noi l'abbiamo invitata a finire di leggere il brano, e Lusad ha scoperto che l'autore era un romanziere francese, certo Balzac, vissuto due secoli fa. Un altro sito dell'elenco parlava dell'Eritrea, un poverissimo paese dell'Africa colpito di recente da guerre e carestie. Spiegava che verso il 2002, cioè solo due anni fa, in quel paese erano stati ritirati dalle scuole tutti i manuali e i libri di lettura, e che una speciale commissione li stava riscrivendo con l'obiettivo di eliminarvi ogni accenno alle distinzioni di «gender», per aiutare i bambini a superare l'antico pregiudizio che attribuisce ai maschi e alle femmine un ruolo diverso nella società. C'era anche scritto che nel dicembre 2003 l'Unicef aveva dato un premio speciale alla insegnante eritrea che coordinava tale iniziativa. – Vedi? – abbiamo detto a Lusad – se persino in un paese del Terzo Mondo come l'Eritrea ci si preoccupa che la scuola non insegni che i bambini e le bambine debbano avere un ruolo diverso, figurati come sarà avanzato l'insegnamento nella civilissima Italia, paese in cui vive la famiglia di cui sarai ospite! E, per rassicurare la nostra creatura, siamo andati avanti fino a scovare un sito che parlasse della scuola italiana. Qui abbiamo però trovato una brutta, bruttissima sorpresa. Non solo abbiamo scoperto che la scuola del vostro paese è stata di recente vittima di una riforma sconsiderata, grazie alla quale i figli dei terrestri poveri verranno addestrati a essere da grandi soltanto degli utili robot al servizio dei terrestri ricchi; ma, per quanto riguarda il nostro problema, le cose erano state riportate ai tempi di Mo, o forse addirittura ai tempi dell'abate francese e della sua allieva «traviata». Voi sapete che da noi su Deneb i bambini nascono senza attributi sessuali esterni che li facciano riconoscere come femmine o come maschi, e questo per evitare che nella loro infanzia debbano subire discriminazioni. Solo più avanti, quando saranno sessualmente e psicologicamente maturi per riprodursi, sul loro corpo compariranno gli attributi necessari a tale funzione. Fino a quell'età i nostri figli sono considerati tutti uguali e vengono educati assecondando le qualita individuali di ciascuno. Lusad, per esempio, non sappiamo ancora se è maschio o femmina, ma poiché ha manifestato prestissimo una forte vocazione per la musica e per le scienze esatte, sta ricevendo una formazione orientata a sviluppare queste sue attitudini. Ora, se rispettassimo gli impegni presi con voi e mandassimo Lusad a studiare in Italia, come dovrebbe comportarsi la sua maestra alla quale, nelle Indicazioni Nazionali per i Piani di Studio della Scuola Elementare, alla sezione Educazione alla Affettività, viene raccomandato di «rimarcare le principali differenze psicologiche, comportamentali e di ruolo tra maschi e femmine?» Abbiamo anche scoperto che nella vostra scuola non esiste più la materia Educazione Tecnologica, e che invece alle scolare verrà insegnato a cucire e a ricamare. Potete ben capire quali disturbi provocherebbe nella personalità di Lusad questo salto indietro nell'insegnamento. Davvero la triste esperienza di Mo, la prima creatura denebiana che ha frequentato la vostra scuola, non vi ha insegnato niente? Siamo quindi costretti, con grande rammarico, ad annullare il precedente contratto. Per la nostra creatura desideriamo esperienze meno traumatiche, contatti con culture più sviluppate della vostra. La manderemo alla pari su un altro pianeta, dove la parola «uguaglianza» non sia stata ancora cancellata, e dove tutti gli individui vengano trattati fin da piccoli con uguale rispetto. Vi auguriamo di superare questo brutto momento.
Cordiali saluti da Deneb.
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