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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione 1 1. STORIA DELLA LEPRE E DELLA TARTARUGA SULLA RIVA DELLA VASCA DEL RE 9 2. STORIA DEI COLOFANI 15 3. STORIA DELLA LEPRE, DELL'ELEFANTE E DELLA BALENA 19 4. STORIA DI GIOVANNINO CODA-DI-BUE 21 5. STORIA DI FLANKER 25 6. STORIA DI UN UCCELLO CHE FACEVA LE UOVA D'ORO 29 7. STORIA DI UN FURBACCHIONE 33 8. STORIA DI GIOVANNI E GIOVANNA 37 9. STORIA DI NAMKUTIKUTI 45 10. STORIA DELL'ELEFANTE COMPARE DELLA LEPRE 51 11. STORIA DI PELLE D'ASINO 53 12. STORIA DI SABUR 57 13. STORIA DI GIOVANNINO 63 14. STORIA DI UN LUPO CHE VOLEVA BRUCIARE SUA MOGLIE 67 15. STORIA DELL'UOVO, DELLA SCOPA E DELLA LANCIA 71 16. STORIA DELLE QUATTRO CAMPANE 77 17. STORIA DEI SETTE CUGINI E DELLE SETTE CUGINE 83 18. STORIA DI GIUSEPPE-MARIA 91 19. STORIA DELLA DONNA E DEI LADRI 95 20. STORIA DI TRANQUILLO E BRIGANTE 97 21. STORIA DELLA SCIMMIA E DELLA TARTARUGA 109 22. LA SCIMMIA E LA RONDINE 111 23. STORIA DI ZOVA E DEL COCCODRILLO 115 24. STORIA DI PAOLINO E PAOLINA 119 25. STORIA DELLA LEPRE, DEL RE E DELLA SCIMMIA 133 26. STORIA DELLA LEPRE E DEL RE ELEFANTE 135 27. STORIA DELLA LEPRE E DELLA LUMACA 139 28. STORIA DI CORPOSENZ'ANIMA E DI COLLA-DEI-CUORI 143 |
| << | < | > | >> |Pagina 1Pubblicando più di cento anni fa (1887) come 27° volume della collana Les littératures populaires de toutes les nations il suo libro Le folk-lore de l'Ile Maurice (che – oltre alle favole che qui ripubblichiamo – comprende una raccolta di indovinelli e canzoni), il folklorista e linguista mauriziano Charles Baissac (1831-1892) faceva notare come questi saggi della letteratura orale della sua isola fossero da considerare il prodotto di una società ormai in dissoluzione, o comunque in via di rapida trasformazione, determinata dalla scomparsa della schiavitù e dal massiccio apporto di nuove e diverse componenti economiche, linguistiche e culturali. Con la scomparsa - da lui dichiarata, o forse solo supposta, imminente e definitiva – di questi testi e dell'abitudine di raccontarli, si concludeva ai suoi occhi un ciclo iniziato meno di centocinquant'anni prima. La storia della popolazione mauriziana di origine africana, e quindi del suo folklore, è relativamente recente. Non rimangono, a quanto sembra, tracce dei navigatori indiani e poi arabi che toccarono l'isola durante il Medioevo, e neppure di quelli portoghesi che la «scoprirono» intorno al 1510. Nel 1598 essa fu colonizzata dagli Olandesi, che le diedero il nome attuale in onore del principe Maurizio di Nassau. Sembra che la popolazione dell'isola nel periodo della dominazione olandese non abbia mai superato le trecento persone, tra coloni e schiavi: essa tuttavia causò notevoli modificazioni nell'ecologia di Mauritius, per esempio sterminando il dodo – uno strano uccello incapace di volare che esisteva solo nell'isola – e probabilmente anche altre specie di uccelli, e per converso introducendo la coltura della canna da zucchero – ancora oggi di enorme importanza nell'economia locale – e alcune specie di animali come il cervo, importato da Giava, e il maiale, che, rinselvatichito (coçon marron: «marron» era anche la denominazione degli schiavi che evadevano dalle piantagioni e si rifugiavano nelle foreste) è tuttora oggetto di caccia. La vera colonizzazione dell'isola inizia però (insieme a quella di Bourbon) ad opera dei Francesi che, sostituitisi agli Olandesi nel 1715, la ribattezzarono Ile de France. A partire dal 1735, in pochi anni vi si trasferirono circa duemilacinquecento coloni, provenienti soprattutto dalla Lorena, dalla Normandia, dalla Bretagna, dal Périgord: iniziò allora l'importazione sistematica di schiavi, provenienti soprattutto dal Madagascar (e portatori quindi di una lingua e di una cultura di origine indonesiana) e dal Mozambico (gli schiavi mozambicani, di lingua bantu, erano considerati «più docili» e come tali più apprezzati dai coloni). Verso la fine del '700 la popolazione di Mauritius aveva ormai raggiunto le cinquantamila unità, di cui solo cinquemila erano coloni di origine francese. Era presente anche un gruppo di circa tremila indiani – artigiani e operai qualificati – detti malabar, giuridicamente liberi; il resto erano schiavi.
Bernardin de Saint Pierre, l'autore del celebre romanzo
(ambientato a Mauritius)
Paul et Virginie,
ne descrive così le condizioni nel suo
Voyage à l'Île de France
(1773):
«Vengono fatti sbarcare nudi, con uno straccio intorno ai fianchi.
Gli uomini vengono messi da una parte, le donne da un'altra
insieme ai bambini piccoli, che si stringono terrorizzati alle madri.
I coloni li esaminano accuratamente, e ognuno compra quelli che
gli vanno bene. I fratelli, le sorelle, gli amici, gli sposi vengono
separati: si salutano piangendo, e vengono avviati alle piantagioni.
Talvolta sono presi dalla disperazione: sono convinti che i bianchi
li mangeranno, che col loro sangue facciano il vino e con le loro
ossa la polvere da sparo... Alla più piccola mancanza vengono legati mani e
piedi su una scala: il soprastante, armato di una frusta
da carrettiere, li colpisce sulla schiena nuda con cinquanta, cento,
fino a duecento frustate. Ogni colpo strappa una striscia di pelle.
Poi il disgraziato viene rimandato al lavoro. Alla sera, quando
tornano nelle loro capanne, sono costretti a pregare Dio per la
prosperità dei loro padroni.
Queste le condizioni in cui furono elaborate le storie allegre e feroci raccolte in questo libro, insieme alla lingua in cui esse furono composte, il «creolo» mauriziano. La legge sull'abolizione della schiavitù, votata dalla Convenzione nel 1794, fu respinta dai coloni francesi di Mauritius. Ma nel 1810 l'isola fu occupata dagli Inglesi, che peraltro sostanzialmente non interferirono con le attività dei coloni francesi, almeno fino all'abolizione della schiavitù, messa in atto nel 1825, che privò i bianchi di una manodopera gratuita: cosa a cui venne ovviato con l'importazione massiccia di lavoratori a bassissimo costo da varie regioni dell'India, in concomitanza con l'enorme sviluppo della coltivazione della canna da zucchero. Ma torniamo ai nostri racconti. Prodotto di una cultura formata da componenti umane estremamente disparate, le favole mauriziane presentano tematiche altrettanto disparate nella loro provenienza. Quasi paradossalmente, sono molto numerosi gli intrecci di sicura origine europea, anche se è molto difficile immaginare in quale modo sia avvenuta la trasmissione delle storie di questo tipo dai coloni bianchi ai loro schiavi neri. Si tratta sia di novelle a sfondo umoristico (come la Storia di Flanker), sia di racconti basati sulle disavventure di uno sciocco (Storia di un furbacchione), sia di storie accumulative (Storia di Giovannino coda-li-bue), sia di fiabe «magiche» (Paolino e Paolina, Corpo-senz'anima e Colla-dei-cuori, Tranquillo e Brigante e varie altre) largamente documentate nelle varie province francesi, ma talvolta stranamente contaminate fra loro, come una Storia di Pelle d'asino in cui il finale è simile in un certo modo a quello di Cenerentola. Il resto del corpus riunito dal Baissac è costituito invece da racconti di origine africana o malgascia (come la Storia di Zova e del coccodrillo). [...] | << | < | > | >> |Pagina 9Tanto ma tanto tempo fa, nel paese di Mauritius c'era un re che aveva una gran vasca. Là dentro lui faceva il bagno tutte le mattine, per il motivo che il dottore gliel'aveva ordinato. Ecco che un giorno arriva alla riva della vasca: l'acqua è sporca! Non è possibile fare il bagno. Il re chiama il guardiano e gli fa una predica. Il giorno dopo, l'acqua è ancora sporca; il terzo giorno, l'acqua è ancora sporca. Il re prende il guardiano per il collo, lo scrolla, e gli dice: «Ehi tu, figlio di un cane, vuoi che io mi pigli la rogna in quell'acqua lì? Se domani la vasca non è pulita vedrai se non ti gonfio!». Il guardiano ha paura. Venuta sera, prende il fucile e si nasconde tra le foglie ai bordi della vasca; la notte era nera, non c'era la luna. Quando il cannone spara, sente venire qualcuno: tic, tic, tic: era una lepre! Prima che il guardiano abbia il tempo di alzare il fucile, la lepre viene diritto da lui e gli dice: «Buon giorno, buon giorno, guardiano! Come sono contento di trovarti! Era proprio tanto tempo che cercavo di incontrarti, perché ho qualcosa di veramente buono da darti. Assaggia questo miele che mia figlia mi ha mandato da Trois Ilôts! Poi mi dirai se hai già provato del miele come questo, o no». Il guardiano prende la zucca e manda giù una golata: «È proprio vero! Che sapore!». Il guardiano resta attaccato alla zucca, la vuota. Ma non so che specie d'erbe ci avesse mischiato la lepre a quel miele: il guardiano non ha neppure il tempo di allungarsi sul bordo della vasca che il sonno lo prende, e russa. La lepre ride, si toglie i vestiti e salta nella vasca. Quella lepre e la malizia erano la stessa cosa. Quando ne ha abbastanza, esce dalla vasca, rompe un lungo bastone, rimesta il fango e fa diventare la vasca come una tazza di cioccolato. E poi se ne va. Di mattina, prestissimo, arriva il re. Gli basta un'occhiata all'acqua: se non è rabbia quella non so che cosa sia! Il guardiano era ancora addormentato in riva all'acqua. Il re acchiappa quel bastone che la lepre aveva usato per smuovere l'acqua e salta addosso al guardiano, lo pesta, lo gonfia, mamma mia! Il guardiano ci mette poco ad alzarsi, gli spuntano le ali, a momenti vola; si rifugia nel bosco e non si è mai più visto tornare. Il re fa suonare la tromba: «Si richiede un guardiano per sorvegliare una vasca, otto piastre al mese, mezza balla di riso, acquisto viveri allo spaccio. Ma nel caso che quel guardiano lì lasci che qualcuno rimescoli l'acqua della vasca, gli tagliamo il collo». Gli animali sentendo gridare così, hanno tutti paura; nessuno si presenta a far domanda per quel posto. Il gallo ha paura, il cane ha paura, l'oca ha paura. Passarono tre giorni. La lepre va a fare il bagno, e rimescola l'acqua. Il re non riesce a decidere cosa fare: il corpo gli comincia a prudere forte; da sette giorni non ha potuto fare il bagno. Il quarto giorno l'ufficiale del re gli viene a dire che c'è là qualcuno che fa domanda per il posto di guardiano della vasca; il re dice: «Fallo entrare». Era una tartarughetta da niente. Il re la guarda, e comincia ad arrabbiarsi: «Saresti tu quella che impedirà alla gente di sporcarmi l'acqua?». «Sì, mio re. Sono proprio io». «Conosci le condizioni: sé l'acqua è torbida, io ti faccio saltare la testa dal collo». Sì, mio re, conosco le condizioni; e anzi, dato che la carne di tartaruga è buona da mangiare, con me avrai la possibilità di farti un buon curry. Ma non credo mica che mi potrai assaggiare per questa volta; sarà meglio che tu dica al cuoco di spiumare una bella gallina». «Va be', comare, domani mattina vedremo. Prendi servizio stasera». La tartaruga esce. Va da una sua amica e si fa impiastrare dappertutto il guscio col catrame. Quando il sole tramonta essa arriva ai bordi della vasca e si nasconde sul sentiero dove dovrà passare la lepre, e aspetta. Tic, tic, tic, la lepre viene. La lepre trova qualcosa di nero in mezzo al sentiero, si ferma e guarda. La tartaruga aveva ritirato la testa sotto il guscio: niente si muove. Tic, tic, tic, la lepre si avvicina piano piano: niente si muove. La lepre pensa; gira rigira lì intorno, guarda e riguarda: per un bel po' resta tranquilla tranquilla; la tartaruga è come un sasso. Questa volta il cuore della lepre smette di battere forte; non ha più paura e dice: «Allora questo è proprio un sasso! Adesso lo vedo. Ehi voi! questo re è proprio un brav'uomo. Di sicuro questo è un panchetto che lui ha ordinato al suo servitore di portare in riva alla vasca perché io possa sedermi nel levarmi i calzoni per andare a fare il bagno nella sua acqua». La lepre ride e si siede sul sasso. Il sasso, chiamiamolo così, si muove un pochetto, la lepre se ne accorge e dice: «Ecco in che modo lavorano i servitori nel paese di Mauritius! Si sono dimenticati di fissare la mia poltrona». E subito vorrebbe scendere per mettere un fermo al suo panchetto: ma non c'è mezzo di muoversi. È rimasta attaccata al catrame. La tartaruga mette allora fuori la testa dal guscio: «Cosa ti credi, compare? Io per me credo che tu questa volta sia rimasto preso». La lepre ci resta secca. Ma deve pur cercare di salvarsi la pelle, e dice alla tartaruga: «Ehi tu comare, vuoi scherzare con me, eh? Guarda, te lo dico in bel modo: lasciami andare, lasciami andare ti dico; non farmi arrabbiare». La tartaruga aveva già cominciato a muoversi per portare la lepre dal re, e dice soltanto: «Se ti fa piacere, parla pure, se questo ti da sollievo». «Una volta, due volte! Non vuoi lasciarmi andare?». Bam! La lepre le allunga un colpo con la zampa di dietro: la zampa si incolla. Bam! Anche l'altra zampa resta attaccata. La tartaruga non se ne preoccupa, continua a camminare e segue la sua strada. La lepre le dice: «Ehi, tu! Io con le zampe davanti sono più forte, sai? Stammi a sentire: lasciami andare di buona voglia». La tartaruga cammina e non risponde. Bum! Un colpo della zampa sinistra. Bum! Un colpo della zampa destra. Incollata, Incollata! Ecco le lepre con le quattro zampe appiccicate come un maiale che i cinesi portano al mercato. Ma il povero disgraziato deve provarci ancora. Fa lo sbruffone con la tartaruga e le dice: «Sentimi bene: parlo per l'ultima volta. Tutta la mia forza è nella testa, è come un martello di ferro. Se io ti dò un colpo sopra, ti schiaccio come una papaia matura. Lasciami andare, lasciami andare, ti dico!». La tartaruga cammina, e non dice parola. La lepre alza la testa più che può, raccoglie tutta la sua forza e picchia un colpo. Bum! La testa s'incolla. Eccoli arrivati dal re. La tartaruga ride, la lepre piange. Quando il re vede la lepre così incollata sopra la tartaruga, rabbia o non rabbia è obbligato a ridere. La tartaruga gli dice: «Eccolo qua, mio re. Non sarà tartaruga che mangerai per pranzo, ma mangerai lepre. Se la fai cuocere col vino, è molto buona». Il re tira fuori la sciabola, fa saltar via la testa della lepre e la manda in cucina. Poi chiama il suo servitore: «Ehi, tu! Io vado a fare il bagno. Vieni a fregarmi la schiena nell'acqua. Sono tutto sporco, sì!» | << | < | > | >> |Pagina 25C'era una volta un ometto che si chiamava Flanker. Questo Flanker aveva una vacca. A forza di essere magra, un giorno la vacca muore. Flanker la scuoia, le leva la pelle, la mette a seccare. Quando la pelle è secca, l'ometto prende la pelle, se la mette sulla testa e va a venderla. L'ometto entra nella casa della gente, entra in tutti i negozi; nessuno voleva comprare quella pelle. Cammina, cammina, Flanker arriva in una foresta. Le sue gambe sono stanche a forza di pestare la strada, si siede sotto il tronco di un albero. Mentre si riposava là, sente fare: papacic! papaciac! Era una banda di quaranta ladri che stava arrivando a cavallo. L'ometto ha paura che quelli lo trovino, e sale sul tronco dell'albero con la sua pelle di vacca. I ladri arrivano, fermano i cavalli, si siedono proprio sotto quel tronco dove Flanker era salito. Tutti tirano fuori dalle tasche il denaro che avevano rubato, e lo mettono in mucchio per fare la divisione. Come Flanker vede quel mucchio di soldi, gli occhi gli si confondono, le mani tremano, lascia andare la pelle di vacca. La pelle è secca: badabam, bam! La pelle cade in mezzo ai ladri. I ladri non capiscono cosa sia; mollano i soldi, saltano sui cavalli, e li spronano in men che non si dica. Flanker scende, fa man bassa dei soldi e li porta a casa sua. Flanker si compra un bellissimo calesse con due cavalli. Va al mercato, si compra un soldo di verdura e dà cinque piastre. Quando quello gli vuole dare il resto non lo vuole prendere. Il servitore del re se ne accorge, torna a casa dal suo padrone e gli dice: «Ho trovato Flanker, quell'ometto, al mercato. Ha comprato un soldo di verdura, ha dato cinque piastre; come l'ortolano gli voleva dare la moneta di resto, non l'ha voluta prendere». Il re è stupefatto: «Vai a cercare Flanker e portamelo qui». Quando Flanker arriva, il re gli domanda così: «Ma allora, dove hai preso tutti quei soldi?». Flanker gli dice: «Io avevo una vacca; la vacca è morta. Io l'ho scuoiata, ho messo la pelle a seccare. Quando la pelle è stata ben secca, l'ho venduta, e in questo modo ho guadagnato un bel po' di soldi». Il re non può fare a meno di fare le bave. Pensa fra sé: «Ma io, che ho delle mandrie enormi di buoi, se le ammazzo per vendere le pelli guadagnerò molti ma molti più soldi di Flanker». Il re fa ammazzare tutti i suoi buoi, fa levare la pelle a tutti quanti, mette le pelli a seccare. Poi fa caricare le pelli secche su un carretto e le manda a vendere. Nessuno le vuole comprare. Il carretto tanto gira e rigira che le pelli marciscono, e sono obbligati a buttarle via tanto puzzano. Il re arrabbiato corre a casa di Flanker. Quando Flanker da lontano vede venire il re, mette di corsa una pignatta di minestra su un gran fuoco. Quando la pignatta bolle ben bene, la leva dal fuoco e la mette in mezzo alla strada. La marmitta bolle. Flanker prende la frusta e picchia la pignatta. La pignatta bolle. Arriva il re, guarda e riguarda, e dice a Flanker: «Ma cosa stai facendo, insomma?». Flanker gli dice: «Mio re, mi sto facendo bollire la minestra». «E sarebbe questa la tua maniera di far bollire la minestra?». «Eh sì, mio re. Guardi un po' con i suoi occhi se non è vero che l'acqua salta nella pignatta!». Il re torna a casa sua e chiama il suo cuoco: «Portami una pignatta e mettici dentro tutto quanto occorre per fare una minestra». Il cuoco torna. «Adesso metti la pignatta in mezzo alla strada, prendi una frusta e picchia la pignatta, così la minestra bollirà». Il cuoco picchia la pignatta; la pignatta non bolle. «Ma dài, più forte! Pesta, pesta proprio!». Il cuoco si raddrizza, la frusta fischia, la pignatta si rovescia, tutta la minestra va per terra. Il re si arrabbia. Manda quattro guardie di polizia ad acchiappare Flanker, lo ficcano in un sacco di iuta e lo portano via. Quel sacco era ben pesante, eh sì! Come quelli passano davanti ad una bottega, si sentono stanchi. Quei tipi lì della polizia sono molli come budella, ve lo dico io! Ad un certo momento quello che è il cane peggiore di tutti gli altri dice ai suoi camerati: «Ehi voi, andiamo a bere un bicchiere: quel sacco è pesante, eh sì!». Quelli posano il sacco al bordo della strada, entrano nella bottega, e ciascuno paga un giro. Flanker nel suo sacco ascolta e ascolta. Ecco che sente arrivare qualcuno: era un pastore con trecento pecore. Come il pastore gli arriva vicino, Flanker comincia a lamentarsi dentro al suo sacco. «Ah buon Dio, cosa farò? Chi mi darà sollievo? Il re mi vuole far sposare sua figlia, mi ha acchiappato, mi ha messo in questo sacco. Ma io sono un uomo vecchio, la figlia del re è giovane giovane. È quando bolle l'acqua che si mettono i cavoli, dice il proverbio; ma la mia acqua è tanto tempo che è diventata fredda! Chi mi darà sollievo? Chi prenderà il mio posto?». Il pastore delle pecore sente questo e dice a Flanker: «Ehi, brav'uomo, se vuoi prendo io il tuo posto». «Grazie, grazie, negro mio! Il buon Dio ti darà sollievo. Mo' slega il sacco». Quello slega il sacco, Flanker esce. Mette il guardiano delle pecore al suo posto, lega il sacco, prende il gregge di pecore e se ne va. Ecco che le guardie di polizia escono dal negozio e prendono su il sacco. «Ehi, voi! Sembra che il sacco sia meno pesante, eh sì!». «Sono i bicchieri che abbiamo bevuto che ci danno tutta questa forza!». A un certo punto arrivano a casa del re, e il re dice: «Legate un gran sasso a questo sacco e buttatelo nel laghetto». Passano due o tre giorni. Ecco Flanker che passa davanti alla porta del re con le sue trecento pecore. Il servitore del re lo vede e galoppa a dire al re: «Mio re, mio re! È appena passato Flanker! Guardalo con il suo gregge di pecore!». Il re fa arrestare Flanker; gli chiede come ha avuto tutte quelle pecore. «Nel laghetto, mio re. Tante grazie di avermi buttato là dentro. Quando avrò finito di vendere queste trecento, andrò giù a cercarne delle altre». «Ma davvero! Eh be', metti me nel sacco e buttami nel laghetto!». Flanker mette il re nel sacco e lo butta nel laghetto. L'acqua si apre, fa dei gran cerchi, il sacco affonda.
Flanker sulla riva del laghetto balla un
sega
e canta:
«Le pecore non sono cefali, Mio re! Le pecore non sono cefali!». Flanker ritorna a casa sua ridendosela. | << | < | > | >> |Pagina 33C'era una volta una vecchietta che aveva un figlio, ma quel povero accidente era scemo, ma proprio scemo! Un giorno la sua mamma lo manda a comprare una scure al mercato. Mentre torna questo figlio non fa altro che giocare con quella scure: batte, taglia. Come sta per entrare in casa, vede l'agnello di sua mamma che stava mangiando l'erba nel cortile, e grida: «Mamma, mamma, guarda che meraviglia di scure ho comprato per te!», e con un colpo solo fa saltar via la testa della pecorina. Sua mamma si arrabbia, lo ingiuria, gli chiede per che motivo non ha messo la scure in un carretto di paglia; quella disgrazia non sarebbe successa. Quel gran stupido piange, piange e chiede perdono alla sua mamma. Un'altra volta la vecchietta lo manda a comprare degli aghi, e gli dice: «Ricordati la storia della scure! Non devi perdere questi aghi, eh?». Lui va e torna. La vecchietta gli chiede: «Beh, dove sono gli aghi?». «Niente paura, mamma, non si sono persi; mentre tornavo ho incontrato il carretto del signor Giovanni, e li ho sparsi tutti nella paglia che c'era sopra». La vecchietta gli grida dietro: «Ma perché non li hai piantati nel cappello! Ancora degli altri soldi persi!». Un altro giorno la mamma lo manda a comprare il burro e gli dice: «Ti ricordi la storia degli aghi? Non perdermi anche il burro». Quello va, compra il burro, mette il burro nel cappello. Il sole batte, gli fa fondere il burro. Il burro gli cola sulla faccia, sui vestiti, torna a casa sporco come un maiale. La sua mamma non può fare altro che alzare le mani in aria: «Ma perché il buon Dio ti ha messo al mondo? Va' via, asino!». Passa circa un mese. La sua mamma gli dà due polli perché li vada a vendere. Comprare non è stato capace, forse a vendere sarà capace: «Ma non devi dar via questi polli per il primo prezzo che la gente ti offre, aspetta il secondo». «Ma certo, mamma, aspetterò il secondo prezzo. Cosa credi, che sia scemo?». E va. Trova un cuoco; il cuoco gli chiede quanto li fa quei polli. «Faccia lei un prezzo». Il cuoco prende i polli, li tasta: «Sette lire e dieci soldi, se sei contento». «Questo è il suo primo prezzo: qual è il secondo?». Il cuoco vuole prenderlo in giro, e gli dice sei lire e cinque soldi. «Li prenda per sei lire e cinque soldi: vendo sempre al secondo prezzo». Torna a casa e racconta tutto a sua mamma. La povera donna è furibonda, vuole picchiarlo e lui deve scappare. Quell'altra volta la donnetta gli dà una pecora perché la vada a vendere: «Ma per la mia pecora non fare come hai fatto per i miei polli! Senti bene quello che ti dico. La gente ti farà un prezzo, ma tu lasciali salire, salire finché non possono più, e allora gli darai la pecora. Hai sentito? Non dimenticarti quello che ti ho detto!». Quello va. Incontra un macellaio; il macellaio gli offre otto rupie. «Niente da fare; deve salire». Il figlio di quel macellaio, che conosceva quel poveraccio, tira la manica di suo papà e gli dice: «Papà, non metterti in mezzo, lascia fare a me che so come combinare l'affare con lui». C'era una scala appoggiata al muro vicino a loro; il figlio del macellaio ci sale sopra, e quando è sul primo gradino della scala grida: «Sette rupie»; sale ancora e grida: «Sei rupie»; sale e grida: «Cinque rupie»; quando è proprio in cima e non ci sono altri scalini, grida: «Due rupie! E io non posso salire di più, come vedi». «Eh beh, se non puoi più salire, che cosa possiamo farci? Prenditi la pecora e dammi due rupie».
Quello torna a casa, dà alla mamma le due rupie e le
racconta tutta la storia. La vecchietta prende un manico di
scopa, gli salta addosso, gli prende le misure. Il poveraccio
si piglia un colpo in testa e diventa matto.
Da quel giorno là non l'ho più rivisto al mercato.
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