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| << | < | > | >> |IndicePrefazione 7 1. Europa, mediazione evanescente 11 Voci d'America 14 Illusioni e contraddizioni 22 Per un'«anti-strategia» dell'Europa 31 Mediatore evanescente 47 2. Politica dell'im-potenza. Discussione con Bertrand Ogilvie 59 Bertrand Ogilvie: domande a Etienne Balibar 59 Etienne Balibar: risposta a Bertrand Ogilvie 64 Replica di Bertrand Ogilvie 71 3. Chiarimenti 81 I. La «Lettera dall'America» dell'Institute for American Values e la questione della «guerra giusta» 81 II. Il declino dell'«Occidente»? Sloterdijk e la voce dell'Europa 86 III. «Potenza» e «debolezza». Robert Kagan e la critica dell'ideologia europea 89 IV. La «Dottrina Monroe» e i suoi risvolti 97 V. Che cosa si può intendere per «ordine pubblico internazionale»? 103 VI. La democrazia conflittuale e il «teorema di Machiavelli» 111 VII. La pretesa di sovranità universale degli Stati Uniti 118 VIII. Lo «scontro di civiltà» e Carl Schmitt: una coincidenza? 124 IX. L'Europa, una frontiera «impensata» della democrazia? 137 4. Il regionale contro il mondiale? Discussione con John Carlos Rowe 165 Lettera di John Rowe 165 Risposta di Etienne Balibar 166 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Le questioni relative alla politica europea, ai suoi obiettivi, ai suoi mezzi e alla sua identità storica, in un momento storico segnato dall'allargamento dell'Unione agli stati del vecchio «campo socialista» (più esattamente a una parte di questi: il «gruppo di Vyhserad» - Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia -, i Paesi Baltici e una piccola parte dell'ex-Jugoslavia, più Malta e Cipro), sono affrontate qui attraverso un dialogo con gli intellettuali liberali americani, cioè guardando verso lidi diversi dai nostri. [...] La via che qui intendo seguire è paradossale. Si tratta di un'«anti-strategia» in cui le esigenze dell'azione prevalgono su quelle dell'omogeneità culturale e della forma costituzionale, in modo da aprire un'alternativa al corso della globalizzazione e delle «nuove guerre» che sembrano doverla accompagnare. Riprendendo l'idea lanciata in particolare da Robert Kagan, che ha interpretato la divergenza degli orientamenti tra la parte americana e quella europea dell'Alleanza atlantica come confronto tra una politica realista della «potenza» e una politica utopica della «debolezza», cercherò di trarre le conclusioni di una storia non limitata allo spazio europeo, ma che in questo ha assunto una particolare importanza: guerre nazionali senza soluzione, mescolanze culturali seguite alla colonizzazione e alla decolonizzazione, istituzionalizzazione degli antagonismi sociali e religiosi nella forma di una democrazia conflittuale, e quindi apertura della politica a una sua propria reinvenzione infinita. Non si tratta di un «programma» per l'Unione Europea, ma di quattro proposte per tentare di aprire un dibattito e di fornirgli i primi oggetti: sicurezza collettiva in un «ordine pubblico internazionale», definito non soltanto giuridicamente, ma anche politicamente; rilancio dell'idea di disarmo progressivo e controllato, abbandonata con la fine della contrapposizione dei «blocchi»; primato delle negoziazioni e delle mediazioni locali sulla «proiezione» strategica e sullo sfruttamento globale dei nuovi conflitti, in modo da responsabilizzare tutti gli attori; infine, costruzione effettiva di un'entità euro-mediterranea come esempio di riduzione delle «fratture» culturali. | << | < | > | >> |Pagina 14VOCI D'AMERICAComincerò da certi appelli che giungono oggi a noi in quanto «europei». Questi appelli sembrano più insistenti dall'11 settembre del 2001 e da quando siamo entrati in una zona di tempeste. Questo fatto ci stimola e ci inquieta. Ci vediamo la prova della nostra esistenza, e temiamo il qui pro quo. Intorno a noi non mancano gli appelli: all'America, all'Europa, agli arabi, alle istituzioni internazionali, ai popoli, alla moltitudine mondiale, alle autorità religiose. Appelli che provengono da queste stesse entità, o dai loro portavoce, e da altri ancora che vogliono essere ascoltati: palestinesi annientati, ceceni martirizzati, africani che muoiono di Aids e che lottano contro questa malattia senza alcun aiuto. Da tutto ciò risulta una combinazione complessa. Loro chiedono sostegno, comprensione, protezione, intervento, più raramente contraddizioni e critiche. Per semplificare il discorso, e anche per scelta, comincerò con gli appelli che ci vengono dagli Stati Uniti, appelli singolari anche se simili ad altre voci. Dirò poco degli appelli che l'attuale amministrazione americana manda all'Europa: direttamente attraverso la voce del Presidente Bush e dei suoi consulenti, indirettamente attraverso discorsi e scritti di intellettuali come quelli raggruppati, almeno per un periodo, dall' Institute far American Values, per enunciare in una Lettera d'America (febbraio 2002) le ragioni del sostegno necessario alla «guerra giusta» in Afghanistan, a cui hanno partecipato figure molto differenti come Jean Bethke Elshtain, Francis Fukuyama, Samuel Huntington e Michael Walzer. La formulazione di questi appelli varia: da «svegliatevi, il totalitarismo islamico è arrivato!» a «seguiteci» , passando per il famoso «chi non è con noi è contro di noi» (che è più una minaccia velata che un appello). Talvolta fanno riferimento agli interessi degli Stati Uniti, talaltra agli interessi comuni dell'Occidente, più raramente a quelli delle istituzioni e del diritto internazionale. Pongono l'accento sulla legittimità dell'azione o sulla sua efficacia (la diplomazia coinvolge entrambe, visto che è difficile organizzare con efficacia una coalizione contro «il nemico pubblico» senza legittimità). Tuttavia, restano inseparabili dall'affermazione di una leadership della potenza egemonica, e più spesso anche da una missione (in virtù di un manifest destiny) di far regnare la pace, la sicurezza e la civiltà (i «valori democratici») nel mondo. In questo caso, ovviamente, c'è poco spazio per l'autocritica, per l'esame degli obiettivi e dei mezzi necessari per raggiungerli, meno ancora per il sospetto che gli interessi «particolari» della potenza dominante potrebbero all'occasione entrare in conflitto con gli interessi «di tutti» che sostiene di rappresentare. Non sottovalutiamo, tuttavia, quando cerchiamo di spiegare perché un simile punto di vista può essere largamente ammesso nel mondo, e particolarmente in Europa, che questo non rimanda soltanto all'opprimente superiorità materiale degli Stati Uniti, ai mezzi d'intimidazione di cui dispongono, ma anche alla credibilità che il crollo del comunismo e del terzomondismo hanno conferito alla loro ideologia della libera impresa, e di più ancora forse al trauma universale che ha prodotto l'attacco dell'11 settembre contro New York, la città cosmopolita, la «città-mondo» per eccellenza. Gli Stati Uniti si trovano così paradossalmente a beneficiare nello stesso tempo dello status di superpotenza e di vittima, da cui derivano potenti effetti di identificazione. Ma sono le altre voci d'America che prima di tutto mi interessano, quelle degli intellettuali liberali, che, malgrado le loro divergenze, visto che i loro riferimenti politici variano dal socialismo al neo-repubblicanesimo, mettono comunque al primo posto gli stessi principi: il carattere inalienabile dei diritti civili e giudiziari dell'individuo, la responsabilità dei governanti davanti al popolo, la sottomissione delle autorità militari alle autorità civili, la difesa del diritto internazionale. Anche loro si rivolgono all'Europa chiedendole di pesare sulla politica americana, nel suo proprio interesse come in quello dell'America e della democrazia. Ad inviarci questo appello è solo una minoranza critica, intesa almeno come un gruppo eterogeneo che subisce le scelte dei rappresentanti della maggioranza, scelte che potrebbero avere conseguenze drammatiche per tutti. Il loro principio è quello di una visione «multilateralista» della politica, partendo dall'idea che nel cuore di un mondo globalizzato anche la potenza più grande non può preservarsi da sola (meno ancora «salvare» gli altri), invece può benissimo perdersi con tutti gli altri... | << | < | > | >> |Pagina 26Al contrario, l'argomento dell'incapacità europea di risolvere i propri problemi, o quelli che nei paesi vicini interferiscono direttamente con la sua storia, senza l'«aiuto» degli americani, è pertinente. Lo schema è esattamente opposto a quello cui fanno riferimento le voci dei liberali americani. Ci sono, a questo proposito, esempi recenti e drammatici, e la lista è lunga. L'Europa è incapace di risolvere il problema irlandese, in cui sono coinvolte due delle sue vecchie nazioni (problema alimentato dalle rispettive «diaspore»). È stata pure incapace di ostacolare la guerra civile nell'ex-Jugoslavia, che ha dato luogo ai peggiori crimini contro l'umanità dopo il nazismo, né ha offerto alle comunità interessate una prospettiva di sviluppo e di coesistenza nel contesto europeo (al quale ancora appartengono), né è intervenuta militarmente in modo efficace fino al momento in cui la Nato, con una direzione americana, ha provveduto a questo (con forme e risultati più che contestabili). È facile allora per gli americani porre una continuità tra passato e presente, tra il loro sbarco in Europa e la fine della barbarie durante le due guerre mondiali e il loro intervento nel mondo contemporaneo (sebbene tendano a dimenticare il ruolo della resistenza sovietica al nazismo, che non è sfuggito ai contemporanei, per i quali Omaha Beach non sarebbe esistita senza Stalingrado). La costante, nella storia del XX secolo, e anche del XXI secolo, non è la mediazione europea nei conflitti che coinvolgono l'America, piuttosto l'inverso, ovvero la mediazione americana nei conflitti che dilaniano l'Europa e che mostrano tutta la sua incapacità di tradurre in azione politica quell'identità storica e morale che rivendica.Questo vale anche (e del resto il confine tra queste due problematiche non è così netto) per il modo in cui l'Europa affronta le situazioni conflittuali nelle sue zone di «frontiera», in cui è coinvolta dal punto di vista delle cause remote, degli effetti attuali e delle conseguenze future, e che formano come una lunga serie di abdicazioni collettive: Algeria, Palestina/Israele, Cecenia... Di volta in volta secondo modalità diverse, che rimandano alla storia e alla geografia, l'Europa è, almeno in buona parte, sia per eredità coloniale, sia per le sue divisioni etniche e religiose, all'origine di conflitti «irresolubili» che non possono trovare una via di uscita senza il suo impegno, e il cui aggravarsi minaccia al tempo stesso la sua pace civile e la sua personalità morale. Ora, la storia dimostra che un'entità politica (uno «Stato», se vogliamo assumere l'accezione generale del termine) non può esistere senza un'«idea» che raccolga le sue forze materiali in un progetto universale. Se non vuole ricolonizzare il mondo, poiché la storia non si rifà e il prezzo sarebbe inaccettabile, se non lo vuole rivoluzionare con la creazione messianica di un «uomo nuovo», secondo il modello cristiano o comunista, allora l'Europa non può che cercare di esercitare al suo interno un'influenza civilizzatrice, altrimenti distruggerebbe le condizioni morali della sua stessa costruzione. L'abbandono dei Ceceni alla guerra totale, e all'offensiva della Russia post-sovietica, non è soltanto l'eterna viltà delle nazioni di fronte ai genocidi perpetrati da essa, ma è anche la negazione dell'europeismo della Russia (e della possibilità di distruggere davvero, un giorno, la «cortina di ferro»). Che faccia quello che vuole, tanto non è candidata a entrare nell'Unione Europea... Ponendosi al rimorchio dell'alleanza americano-israeliana nel Medio oriente, oltre a produrre periodicamente dichiarazioni sul rispetto delle risoluzioni dell'Onu e a mantenere alcuni progetti umanitari che non bastano né a proteggere i palestinesi dalla colonizzazione e dalla repressione, né ad allontanarli totalmente dal terrorismo, non può che favorire l'antisemitismo moderno (giudeofobia e arabofobia contemporaneamente) sul suo suolo e nel mondo. Combinando la compiacenza per la dittatura militare algerina e per gli altri regimi polizieschi dell'Africa del Nord con la discriminazione razziale e religiosa nei confronti delle sue popolazioni immigrate di origine maghrebina, condanna «l'Euromediterraneo» a un disastroso aborto. Questo aspetto sarà approfondito più avanti. | << | < | > | >> |Pagina 39Chi disarma chi?Una simile politica resta priva di significato se non viene rimessa all'ordine del giorno la questione che è all'origine della creazione degli organismi internazionali di sicurezza collettiva, che non riguarda soltanto le regole negoziate dei conflitti, ma il processo di disarmo generale e controllato. Sta lì, in realtà, il fondamento del «multilateralismo», e non è possibile sfuggirvi nel momento in cui ci si chiede ufficialmente come e perché «disarmare» uno o più Stati il cui livello e tipo degli armamenti siano presentati come un pericolo per tutta l'umanità. Ciò, per definizione, vale per tutto il mondo, poiché ci sono popoli che subiscono i costi delle operazioni di «punizione» o di «ripristino della democrazia» dirette contro particolari fautori di guerra - spesso vecchi «clienti» delle superpotenze che si sono rivoltati contro di loro -, e poiché è abbondantemente provato che la fonte di quelle armi di distruzione di massa e la loro proliferazione, più generalmente l'incessante innalzamento del livello degli armamenti nel mondo, è da ricercare in chi le produce, cioè per la maggior parte le stesse grandi potenze (i Talebani sono stati armati dagli Usa, direttamente o indirettamente attraverso il Pakistan, analogamente il programma d'armamenti di Saddam Hussein - compresa, sembra, la capacità di produrre gas per uso bellico - è stato all'origine sostenuto dagli Usa durante la guerra contro l'Iran). Un multilateralismo del disarmo è irto di difficoltà, ma pensabile. Di conseguenza, e contrariamente a quello che sostengono molti begli spiriti che agitano lo spettro di Monaco, è necessario, inoltre, che l'Europa rifiuti la proposta che le viene fatta (in particolare nel quadro della Nato) di entrare in un nuovo ciclo di accrescimento delle sue capacità militari (in particolare delle sue capacità di «proiezione» all'estero, a titolo di complemento o di sostituto delle operazioni condotte dall'esercito americano), ma bisogna che essa prenda l'iniziativa in senso inverso, e che rilanci l'esigenza di una riduzione generale degli armamenti sotto controllo reciproco, immediato e di lungo periodo, relativo di volta in volta ai «nuovi» e ai «vecchi» detentori, alla proliferazione nel mondo e alla concentrazione negli arsenali dominanti, compresi i propri. Una simile prospettiva incontra evidentemente così tante difficoltà, da renderla quasi impossibile. Infatti, si scontra proprio con gli interessi pubblici e privati della vendita di armi che formano un continuum di mezzi di insicurezza di tutti i generi e di tutte le dimensioni - che sta alla base della militarizzazione della vita sociale in un gran numero di regioni del mondo, quando non vengono trasformate in zone di endemica morte violenta. Essa, in un certo senso, presuppone risolto proprio il problema da sciogliere, cioè quello della fiducia reciproca di società eterogenee, che non hanno attraversato le stesse esperienze storiche e non hanno lo stesso concetto del diritto e della politica, alcune dominanti e altre dominate, certe ricche o molto ricche, altre povere o molto povere, ecc. Questo è il motivo per cui il rilancio del disarmo non è separabile da numerose altre trasformazioni nei rapporti sociali e politici al livello mondiale. Ed è anche la ragione per cui esso non può essere confuso con un pacifismo, non esclude moderne politiche di difesa nazionale o sovra-nazionale, ma deve comportare «riconversioni» negoziate del potenziale offensivo in potenziale difensivo. Soprattutto il rilancio del disarmo presuppone che il «mondo», o certe parti del «mondo», tra cui l'Europa, - accordandosi tra loro - siano in grado di offrire al popolo americano prospettive e garanzie di sicurezza che apparirebbero alla lunga (fosse anche al prezzo di tragiche esperienze, come è già stata quella dell'11 settembre, ma si potrebbe immaginare di peggio) superiori a quelle che consistono nella realizzazione di un regime di isolamento, di fortificazione e di contro-terrore al livello mondiale. Allo stato attuale delle cose, non può esistere un disarmo generale perché certi Stati o certe forze devono essere disarmati, mentre altri si incaricano di disarmarli senza poter essere per definizione controllati (chi «controllerà i controllori»? è l'antico dilemma sempre attuale. ..), che è un'espressione appena modificata della pretesa di sovranità assoluta. In pratica, questa pretesa non è sostenuta che da una sola potenza: gli Stati Uniti (allorché gli altri mantengono una pretesa di sovranità relativa: la Russia, e soprattutto la Cina...). Questa è senza dubbio la difficoltà maggiore che grava sulla credibilità dell'idea di disarmo generale, anche se progressivo e negoziato. Ma il paradosso (forse inerente alla nozione stessa di sovranità, che è assolutamente univoca) è che la sovranità interna del popolo americano si assottiglia quanto più si afferma o cerca di imporsi la sovranità esterna dello Stato imperiale. Questo paradosso cela anche una realtà fondamentale: il fatto che, in fin dei conti, solo il popolo americano potrà disarmare (parzialmente o totalmente) la superpotenza americana, nel momento in cui ne percepirà con forza sufficiente la necessità e l'utilità. È, se si vuole, sua «responsabilità» e sua «capacità» ultima. Ma né questa capacità né questa responsabilità possono esercitarsi senza un innalzamento continuo del livello di comunicazione con gli altri popoli del mondo. La sovranità presuppone la solitudine, la negoziazione presuppone al contrario lo scambio. | << | < | > | >> |Pagina 118VII. LA PRETESA DI SOVRANITÀ UNIVERSALE DEGLI STATI UNITILa pretesa degli Stati Uniti d'America alla sovranità universale si dispone in diverse «posture» o orientamenti politici interdipendenti, che mettono in opera lo schema classico (ancora richiamato recentemente con una grande chiarezza da Giorgio Agamben) della situazione di eccezione: un potere che è sia «interno» che «esterno» al sistema, o che vi si inserisce escludendo se stesso dalla regola costitutiva, si autoconferisce allo stesso tempo la responsabilità di farla rispettare dagli altri (e può vedersela riconosciuta). La prima forma di questa pretesa concerne la politica monetaria e finanziaria degli Stati Uniti. [...] Inoltre gli Stati Uniti che sono al livello mondiale i difensori instancabili e i promotori, usando la forza laddove necessario, del libero scambio, della deregulation liberale e del monetarismo (da cui derivano le politiche di «rigore» del budget imposte dalle banche centrali come la Bce), sono per sé l'ultimo paese «keynesiano»: non tanto nel senso della politica sociale, quanto dell'uso del protezionismo, degli aiuti pubblici all'industria, e soprattutto dell'importanza della domanda pubblica (in particolare militare). Al contempo sono i soli a poter «scegliere», o puntare secondo le congiunture su differenti strategie economiche (donde il rafforzamento o l'indebolimento della moneta). Ciò implica sul piano istituzionale che la Banca centrale americana è molto più indipendente dal potere esecutivo rispetto a quelle di altri paesi. Il fatto sembra così creatore di diritto, o più esattamente di eccezione giuridica. La seconda forma di pretesa alla sovranità riguarda il modo in cui gli Stati Uniti si rapportano alle istituzioni giudiziarie e alle correlate garanzie del diritto internazionale. Gli Stati Uniti giudicano senza essere giudicati, tantomeno giudicabili. Il primo aspetto è apparso chiaramente quando, in seguito alle operazioni in Afghanistan, hanno fatto trasportare i prigionieri nella loro base di Guantanamo (anch'essa tipica di questa posizione antinomica di interiorità/esteriorità). [...] La terza forma riguarda il «monopolio della violenza» a livello mondiale: gli Stati Uniti disarmano senza prevedere di lasciarsi disarmare a loro volta. Questo non rappresenta solo una rivendicazione della superiorità di fatto, ma anche una «legittimità» superiore: la loro forza o capacità di scatenare la violenza è di diversa natura rispetto a quella degli altri. Ciò implica al limite che gli Stati Uniti non hanno bisogno di giustificare le loro decisioni di utilizzare la violenza, o se lo fanno è essenzialmente per ragioni pragmatiche, per convincere l'opinione pubblica nazionale della necessità di certi sacrifici o per ottenere all'estero le collaborazioni di cui hanno bisogno. [...] La quarta forma è che gli Stati Uniti devono controllare l'autorità dell'istituzione politica «universale» (le Nazioni Unite) senza essere controllati da essa. [...] Infine, la pretesa di sovranità degli Stati Uniti può essere identificata con una quinta forma, la più imprecisa in apparenza, ma certamente una delle più significative: l'indifferenza degli Stati Uniti all'opinione pubblica internazionale. [...]
Gli Stati Uniti informano senza essere informati: la loro industria di
comunicazione e di produzione culturale domina direttamente o indirettamente il
mercato mondiale delle notizie e delle immagini, tuttavia (anche se la Cnn invia
reporter nel mondo intero) non tende a instaurare un feedback, ma a costituire
nel cuore della popolazione americana un «isolamento» che
ignora deliberatamente
l'opinione che il mondo può avere degli Stati Uniti, o se ne fa un'immagine
tronca e manichea.
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