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| << | < | > | >> |Pagina 7La mia professione è attraversare frontiere. Quelle strisce di terra di nessuno fra due posti di controllo sembrano sempre zone piene di promesse: la possibilità di nuove vite, nuovi profumi, nuovi affetti. Ma al tempo stesso scatenano in me un disagio che non riesco a reprimere. Mentre i doganieri rovistano fra le mie valigie, sento che tentano di aprire la mia mente, alla ricerca di un contrabbando di sogni e di memorie proibite. Però c'è anche uno strano piacere nell'essere messo a nudo, e questo è ciò che può aver fatto di me un turista di professione. Mi guadagno da vivere scrivendo dei miei viaggi, ma mi rendo conto che questo è poco più di un travestimento. In realtà i miei bagagli non sono quasi mai chiusi a chiave, come se non vedessero l'ora di essere aperti. Gibilterra non faceva eccezione, anche se questa volta il mio senso di colpa aveva una certa giustificazione. Ero arrivato da Heathrow col volo del mattino: era la prima volta che atterravo su quella pista militare, da cui passava il traffico di quest'ultimo avamposto dell'impero britannico. Avevo sempre evitato Gibilterra, con quella sua vaga aria da Inghilterra di provincia rimasta troppo a lungo al sole. Ma stavolta le mie orecchie e i miei occhi da reporter presero presto il sopravvento, e per un'ora esplorai quelle viuzze, con le loro sale da tè fuori moda, i negozi di fotografia, e i poliziotti locali travestiti da bobby londinesi. Gibilterra, come la Costa del Sol, non faceva per me. Preferisco i lunghi voli a Djakarta o a Papeete, ore e ore di viaggio in club class che mi fanno sentire di avere ancora una destinazione, mi fanno vivera la grande, indistruttibile illusione dei viaggio aereo. In realtà ce ne stiamo seduti in un piccolo cinema, a guardare dei film, sfocati come le nostre speranze di scoprire qualcosa di nuovo. Arriviamo a un aeroporto identico a quello da cui siamo partiti, con le stesse agenzie di autonoleggio, le stesse stanze d'albergo con i televisori sintonizzati sui canali di film per adulti, gli stessi bagni asettici, cappelle in cui si celebra quella religione laica che è il turismo di massa. Ci sono le stesse ragazze annoiate che aspettano negli atri dei ristoranti, e più tardi scoppiano in risatine sciocche mentre fanno un solitario con le nostre carte di credito, e i loro occhi tolleranti esplorano sui nostri visi quelle rughe che non sono dovute né all'età né alla stanchezza. Eppure Gibilterra mi sorprendeva. Questo posto, che un tempo era stato presidio e base navale, era una città di frontiera, una Macao o una Juàrez che aveva deciso di trarre quanto più profitto poteva dal finire del ventesimo secolo. A prima vista assomigliava a una stazione climatica marina trasportata di peso da una baia rocciosa della Cornovaglia e messa a fianco dello stretto che chiude il Mediterraneo, ma era chiaro che la sua vera attività non aveva niente a che fare con la pace, con l'ordine e con il dominio dei mari di Sua Maestà. Sospettavo che, come per tutte le città di frontiera, la principale attività di Gibilterra fosse il contrabbando. Mentre contavo i grandi negozi stipati di videoregistratori in offerta, e sulle targhe che luccicavano nel buio dei portoni andavo leggendo i nomi di banche di dubbia fama, mi convincevo che l'economia di questo relitto della geopolitica, ma anche il suo orgoglio civile, consistesse più che altro nel truffare lo Stato spagnolo, nel riciclare denaro sporco e nel commerciare in profumi e sostanze chimiche di contrabbando. La rocca era molto più grande di quanto mi aspettassi, e si ergeva di fronte alla Spagna come un pollice levato, il gesto locale per indicare un cornuto. I bar malfamati avevano un fascino ambiguo, quasi sessuale, come le motobarche ormeggiate, con i motori potenti che riposavano dopo l'ultimo veloce viaggio dal Marocco. Mentre le imbarcazioni dondolavano all'ancora, pensavo a mio fratello Frank e alla crisi famigliare che mi aveva portato in Spagna. Se i magistrati di Marbella non avessero prosciolto definitivamente Frank, ma almeno l'avessero rilasciato su cauzione, una di queste barche avrebbe potuto liberarlo dalle pastoie medievali del sistema legale spagnolo. Più tardi, quel pomeriggio, avrei incontrato Frank e il suo avvocato a Marbella. Contavo di raggiungere la cittadina, lungo la costa più a nord, in una quarantina di minuti. Ma quando andai a ritirare la macchina al noleggio vicino all'aeroporto, vidi che i posti di frontiera erano intasati da un gigantesco ingorgo. Centinaia di macchine e di autobus erano in coda, immersi in una nuvola di gas di scarico, fra ragazzine che si lamentavano e nonne che imprecavano contro i soldati spagnoli. La Guardia Civil, imperturbabile in mezzo al fracasso irritato dei clacson, passava al setaccio i veicoli, ispezionando minuziosamente valigie e scatole di cartone, frugando nei cofani e sotto le ruote di scorta. "Devo essere a Marbella per le cinque," dissi al direttore del noleggio, che guardava i veicoli incolonnati con la serenità di uno che stava affittando l'ultima macchina prima di andare in pensione. "E questa coda ha tutta l'aria di voler durare a lungo." "Stia tranquillo, signor Prentice. Sparirà da un momento all'altro, quando la Guardia Civil si sarà stufata." "Tutte queste voci..." Scossi la testa guardando il contratto di noleggio. "Lampadine di ricambio, cassetta di pronto soccorso, estintore. Questa Renault è più attrezzata dell'aereo che ho preso per venire qui." "Deve prendersela con Cadiz. Il nuovo governatore è ossessionato da La Linea. La sua politica tariffaria non è molto popolare qui." "Peccato. Allora c'è molta disoccupazione?" "Non proprio. Anzi, si potrebbe dire che c'è troppa occupazione, ma non del tipo giusto." "Vuol dire contrabbando? Un po' di sigarette e di telecamere?" "Ah, mica solo un po'. A La Linea se la passano tutti benissimo... e sperano che Gibilterra rimanga inglese per sempre." Mi veniva in mente Frank, che rimaneva inglese, ma in una cella spagnola. Mentre mi accodavo alla fila delle macchine, pensavo alla nostra infanzia in Arabia Saudita, vent'anni prima, e ai controlli del traffico che la polizia religiosa si metteva a fare del tutto arbitrariamente nelle settimane prima di NAtale. Le abili mani dei poliziotti frugavano insinuanti, cercando in primo luogo la minima traccia di alcol, ma accontentandosi anche di segni più innocenti della nostra voglia di festa, come un foglio di carta da regali natalizia. Frank e io stavamo sul sedile posteriore della Chevrolet, stringendo convulsamente i trenini che sarebbero stati incartati solo pochi minuti prima che li aprissimo, mentre nostro padre discuteva con la polizia nel suo sarcastico arabo professorale, mettendo sempre più a disagio la nostra nervosissima madre. Il contrabbando era un'attività che avevamo cominciato a praticare fin da piccoli. Alla scuola inglese di Riyad i ragazzi più grandi parlavano tra loro di un mondo sotterraneo e affascinante di video pirata, di droghe e di sesso proibito. Più tardi, quando feci ritorno in Inghilterra, dopo la morte di nostra madre, capii che quelle piccole cospirazioni servivano a tenere uniti gli inglesi all'estero, dando loro il senso della comunità. Senza le frequentazioni ambigue e il contrabbando, il mondo sarebbe sfuggito dalle mani di nostra madre molto prima di quel tragico pomeriggio in cui si arrampicò sul tetto del British Institute per volare incontro all'unica sicurezza che fosse mai riuscita a trovare. Alla fine la coda aveva cominciato a muoversi, snodandosi rumorosamente. Ma il furgone infangato che mi precedeva doveva ancora passare l'esame della Guardia Civil. Un soldato aprì le porte posteriori e si mise a frugare in mezzo alle scatole di cartone piene di bambole di plastica. Le sue mani tozze tastavano qua e là, in mezzo ai corpi nudi e rosati, seguite da centinaia di occhi azzurri che dondolavano nelle orbite. Irritato dal contrattempo, ero tentato di sorpassare il furgone. Dietro di me un'attraente donna spagnola sedeva al volante di una Mercedes scoperta, e si passava il rossetto sopra due labbra piene che sembravano fatte per ben altre attività che il mangiare. Intrigato da quella sua sicurezza così rilassata, eppure così sessuale, le sorrisi, mentre lei si ritoccava il mascara e si accarezzava le ciglia con le dita, come un'amante indolente. Chi era? Una cassiera di night-club, l'amante di un ricco capitalista, o una prostituta del posto che tornava a La Linea con un rifornimento di preservativi e di gadget sessuali? Lei si accorse che la guardavo nel mio specchietto retrovisore e abbassò bruscamente l'aletta parasole, interrompendo il mio sogno. Poi, con una rapida sterzata, mi sorpassò e si infilò in una corsia vietata, mostrandomi la robusta dentatura mentre mi passava accanto. Accesi subito il motore per seguirla, ma il soldato che stava frugando fra le bambole si voltò e mi fermò con un gesto. "Acceso prohibido...!" Si sporse attraverso il mio finestrino, sporcandolo con la mano unta, e salutò la donna, che stava parcheggiando nel posto riservato alla polizia, dietro alla dogana. Poi mi fissò, annuendo soddisfatto, evidentemente convinto di aver sorpreso un turista libertino nell'atto di molestare, quanto meno con lo sguardo, la moglie del suo comandante. Seccato, sfogliò di malagrazia le pagine del mio passaporto, per niente impressionato dalla sfilza di timbri e visti d'ingresso provenienti dai quattro angoli del mondo. Ogni passaggio di frontiera era un'operazione unica, irripetibile, che cancellava la magia di tutte le altre. | << | < | > | >> |Pagina 67I pueblos erano disposti lungo l'autostrada, imbalsamati in un sogno di sole da cui non si sarebbero mai svegliati. Come sempre quando guidavo lungo la costa in direzione di Marbella, mi sembrava di muovermi in una zona pienamente accessibile solo a un neuroscienziato, più che a uno scrittore di viaggi. Le facciate bianche delle ville e dei condomini erano come blocchi di tempo che si fossero cristallizzati a fianco della strada. Qui sulla Costa del Sol non sarebbe accaduto mai più nulla, e la gente dei pueblos era già il fantasma di se stessa. Questa lentezza da ghiacciai aveva influenzato i miei tentativi di liberare Frank dal carcere di Zarzuella. Tre giorni dopo il funerale di Bibi Jansen lasciai l'albergo Los Monteros con una valigia piena di vestiti puliti: quella mattina Frank doveva presentarsi all'udienza, al tribunale di Marbella. La valigia l'avevo preparata nel suo appartamento al Club Nautico, dopo un esame minuzioso del suo guardaroba. C'erano camicie a righe, scarpe nere e un completo, ma quando tutti questi indumenti furono distesi sul letto sembravano gli elementi di un vestito di cui Frank avesse deciso di sbarazzarsi. Passai al setaccio i cassetti e il portacravatte, senza riuscire a decidermi. Il vero Frank, ancora più evasivo del solito, sembrava aver voltato le spalle al suo appartamento e al suo passato polveroso. All'ultimo momento gettai dentro qualche penna e un blocco di carta: un suggerimento avanzato dal seņor Danvila, nella vana speranza di riuscire a persuadere Frank a ritrattare la sua confessione. Frank sarebbe stato trasportato da Malaga per presenziare all'udienza in tribunale e all'identificazione formale delle cinque vittime da parte dell'ispettore Cabrera e dei medici autoptici. Dopo di che, mi aveva detto il seņor Danvila, avrei potuto parlare con lui. Parcheggiai in un vicolo dietro il tribunale, e intanto valutai quello che gli avrei detto. Una settimana e più di investigazioni da dilettante non avevano portato nessun elemento nuovo. Avevo supposto, abbastanza ingenuamente, che l'unanime convinzione di amici e colleghi sull'innocenza di Frank avrebbe fatto venire a galla la verità, in un modo o nell'altro: e invece questa unanimità non aveva fatto altro che aggiungere un altro strato di mistero attorno all'assassinio degli Hollinger. Lungi dall'aprire la serratura della cella di Frank, aveva dato un altro giro alla chiave. Ma ciò non toglieva che cinque persone fossero state uccise, e che il loro assassino quasi certamente passeggiasse ancora per le strade di Estrella de Mar, mangiasse sushi e leggesse "Le Monde", cantasse ancora nel coro di qualche chiesa o modellasse creta in un corso di scultura. Ma in tribunale nessuno sembrava consapevole di ciò: l'udienza andava avanti a modo suo, interminabile, un nastro di Möbius di procedure arcane che si dipanavano, si rovesciavano e tornavano al punto di partenza. Avvocati e giornalisti sostengono due teorie fisiche rivali, nelle quali movimento e inerzia si scambiano il ruolo. Sedevo dietro al seņor Danvila, a pochissimi metri da Frank e dal suo traduttore, mentre il patologo testimoniava, si allontanava e tornava a testimoniare, corpo dopo corpo, morte dopo morte. Avrei voluto parlare a Frank, e intanto ero meravigliato da quanto poco egli fosse cambiato. Mi sarei aspettato di vederlo dimagrito e prosciugato dalle grigie ore passate da solo, nella sua cella, con la fronte solcata dallo stress di doversi mantenere fedele al suo assurdo bluff. Invece, quando mi sorrise e mi strinse la mano, subito ripreso dai poliziotti di guardia, lo vidi certo più pallido, lontano com'era dal sole di Estrella de Mar, ma, a quanto mi sembrò, tranquillo e riconciliato con se stesso. Non partecipava al rito giudiziario, ma ascoltava con attenzione il traduttore, mettendo in evidenza, a tutto beneficio del magistrato, il suo ruolo centrale negli eventi descritti. Quando lasciò il tribunale mi fece un cenno di incoraggiamento con la mano, come se io stessi per seguirlo nello studio del direttore. Mi sedetti ad aspettare su una panca, nel corridoio, decidendo di evitare un incontro in pubblico. Bobby Crawford aveva avuto ragione a dirmi che l'iniziativa era nelle mani di Frank, e che se mi fossi attenuto a una linea morbida, avrei potuto costringerlo a rivelare il suo gioco. "Signor Prentice, mi devo scusare..." Il seņor Danvila mi veniva incontro quasi correndo, col volto mesto, evidentemente afflitto da un altro contrattempo. Le sue mani annaspavano nell'aria, come se cercasse una via d'uscita da quel caso che si faceva di ora in ora più confuso. "Mi dispiace di averla fatta aspettare, ma è sorto un piccolo problema..." "Che c'è, seņor Danvila...?" cercai di tranquillizzarlo. "Quando posso vedere Frank?" "Abbiamo delle difficoltà." Il seņor Danvila cercò le sue borse, che non c'erano, come se si sentisse meglio a cambiarsele continuamente di mano. "Mi è difficile dirlo. Suo fratello non desidera vederla." "E perché? No, non ci credo. Tutta questa faccenda sta diventando assurda." "Sembra anche a me. Ma ero con lui un istante fa: ha parlato molto chiaramente." "Ma perché? Per l'amor di Dio... lei mi ha detto che ieri lui era d'accordo." Danvila si mise a gesticolare all'indirizzo di una statua che stava in una nicchia lì accanto, chiamando a testimone quel cavaliere d'alabastro. "Ho parlato con suo fratello sia ieri che l'altroieri. Non aveva rifiutato, fino a oggi. Lei ha tutta la mia comprensione, signor Prentice. Suo fratello avrà le sue buone ragioni per mascherare così le sue intenzioni. Io posso solo dargli dei consigli." "Č ridicolo..." Mi sedetti stancamente sulla panca. "Č deciso ad autoaccusarsi. E della cauzione cosa mi dice? Possiamo fare qualcosa?" "Non c'è niente da fare, signor Prentice. Ci sono cinque persone assassinate e una confessione di colpevolezza." "Non possiamo ottenere una dichiarazione di infermità mentale? Qualcosa che tolga valore alle sue dichiarazioni?" "Č troppo tardi. La settimana scorsa ho contattato il professor Xavier dell'Istituto Juan Carlos di Malaga, un illustre psichiatra legale. Con l'autorizzazione del tribunale sarebbe stato disposto a esaminare suo fratello. Ma Frank ha rifiutato di vederlo. Insiste nel dire di essere del tutto sano di mente. E io, signor Prentice, devo concordare con lui..." Sbalordito da queste notizie, aspettai per qualche tempo fuori dal tribunale, sperando di vedere Frank mentre saliva su uno dei furgoni della polizia per essere riportato a Malaga. Ma dopo dieci minuti decisi di lasciar perdere, e tornai alla macchina. L'affronto era bruciante. Il gesto di Frank non era solo un rifiuto del mio ruolo tradizionale di fratello maggiore, e della funzione protettiva che ne derivava, ma un chiaro segno del suo desiderio che io me ne andassi definitivamente da Marbella e da Estrella de Mar. Si era in presenza di una logica perversa, che portava mio fratello a farsi confinare per anni in una prigione della provincia spagnola, un giudizio di Dio che egli sembrava accettare con serafica tranquillità. Tornai a Los Monteros e andai a passeggiare sulla spiaggia, un bassofondo solitario di sabbia rossiccia cosparsa di rami e di assi gettate a riva dalla marea, come le rovine di una mente devastata. Dopo pranzo, nel pomeriggio, mi misi a dormire nella mia camera; mi svegliarono alle sei i rumori dei servizi e delle volée che venivano dal campo da tennis dell'albergo. Mi sedetti alla scrivania e cominciai a scrivere una delle mie lettere più lunghe a Frank, in cui riaffermavo la mia fiducia nella sua innocenza, e gli chiedevo per l'ultima volta di ritrattare la sua confessione di un crimine atroce che neppure la polizia credeva lui potesse aver commesso. Se non mi avesse risposto, me ne sarei andato a Londra, e sarei tornato solo per il processo. Quando chiusi la busta era già il tramonto, e le luci di Estrella de Mar tremolavano sull'acqua scura. Con i sensi acuiti, guardavo questa penisola privata con i suoi circoli teatrali e le sue caste ben protette, il suo losco psichiatra e la sua bella dottoressa col viso pesto, il suo tennista professionista ossessionato dalla sua macchina per i servizi, e lassù, in alto, le sue morti. Ero sicuro che la soluzione dell'assassinio degli Hollinger non stesse nel coinvolgimento di Frank con il produttore a riposo, ma piuttosto nella natura esclusiva del luogo di soggiorno in cui quest'ultimo era morto. Dovevo diventare parte di Estrella de Mar, sedermi ai suoi bar e ai suoi ristoranti, frequentare i suoi club e i suoi incontri sociali, sentire l'ombra della villa distrutta che alla sera scendeva alle mie spalle. Dovevo vivee nell'appartamento di Frank, dormire nel suo letto, fare la doccia nel suo bagno, insinuarmi nei suoi sogni quando questi aleggiavano sopra il cuscino nell'aria notturna, aspettando pazienti il suo ritorno. Un'ora dopo avevo già messo in valigia i miei vestiti e avevo sistemato tutti i conti. Mentre mi allontanavo per l'ultima volta dall'albergo Los Monteros, decisi che sarei rimasto in Spagna almeno un altro mese, che avrei annullato tutti gli impegni, e che avrei trasferito dalla mia banca di Londra fondi sufficienti per tirare avanti in quel periodo. Sentivo già una curiosa complicità nel delitto che stavo cercando di risolvere, come se non fosse in questione solo la dichiarazione di colpevolezza di Frank, ma anche la mia. Venti minuti dopo, mentre lasciavo l'autostrada di Malaga e imboccavo la discesa per Estrella de Mar, sentii che stavo tornando alla mia vera casa. | << | < | > | >> |Pagina 128Aspettando Paula al bar del Restaurant du Cap, cancellai un altro nome dalla mia lista dei sospetti. Mentre ascoltavo Andersson avevo colto un accenno di complicità, forse lo stesso rincrescimento che aveva espresso Paula per essersi presa gioco degli Hollinger, ma ero sicuro che non li avesse uccisi lui. Lo svedese era troppo scorbutico, troppo immerso nel suo astio contro il mondo, per decidersi a un gesto così estremo.Alle nove e mezzo Paula non era ancora arrivata. Pensai che fosse stata trattenuta alla clinica da un'emergenza, e mangiai solo al mio tavolo, tirando in lungo la bouillabaisse più che potevo, ma senza suscitare la curiosità delle sorelle Keswick. Erano le undici quando lasciai il ristorante, e i night-club lungo il molo erano già aperti, inondando di musica il porticciolo. Mi fermai al cantiere, e fissai la potente motobarca sulla quale aveva lavorato Andersson. Me la figuravo mentre polverizzava le lance della polizia spagnola e superava lo stretto di Gibilterra col suo carico di hashish e di eroina destinato agli spacciatori di Estrella de Mar. Le scarpe risuonavano sui gradini di metallo che scendevano al porticciolo. Un gruppo di arabi stava tornando alla propria barca, ormeggiata nella rada a fianco del molo. Pensai che fossero turisti del Medio oriente che avessero affittato una casa per l'estate al Marbella Club. Nel buio la comitiva quasi sfavillava, con i completi di lino Puerto Banus, i Rolex e la seta più appariscente. Un gruppo di uomini anziani e di giovani donne francesi stava salendo a bordo di un cabinato ormeggiato a fianco dell' Halcyon. Maneggiando abilmente le gomene e i controlli del motore, stavano per salpare quando un giovane in un altro gruppo cominciò a gridare dai gradini del molo. Allora l'equipaggio si mise ad agitare i pugni e a sventolare i berretti all'indirizzo di una piccola barca con due motori che aveva mollato gli ormeggi e stava scivolando silenziosa nell'acqua tranquilla. Come se non si rendesse conto di aver rubato una barca, il ladro stava tranquillamente in piedi nel pozzetto, con le cosce premute contro il timone. Il raggio del faro di Marbella spazzò il mare, sfiorandogli le braccia e i capelli chiari. In pochi attimi era cominciata una furiosa caccia marina. Pilotato da due eccitati capitani, il cabinato uscì oscillando dall'ancoraggio, mentre le francesi sbigottite si aggrappavano ai sedili di cuoio. Senza preoccuparsi della barca che si precipitava al suo inseguimento, il pirata continuava a puntare verso il mare aperto lasciando appena una scia dietro di sé, e intanto salutava ironicamente i giovani furibondi rimasti sul molo. All'ultimo momento spinse avanti tutta la leva del gas e si infilò destramente in una striscia di acqua calma in mezzo agli yacht ormeggiati. Troppo maldestri per virare, i guidatori del cabinato proseguirono nella loro traiettoria e rasentarono il bompresso di un imponente dodici metri. Il ladro tirò indietro la leva, accorgendosi che il cabinato adesso gli bloccava l'uscita in mare. Cambiando strada, si infilò sotto il ponte pedonale di metallo che portava all'isola centrale, un labirinto di canali e di uscite interconnesse. Cercando di tagliargli ogni via di fuga, in mezzo a una nuvola di gas di scarico il cabinato invertì la marcia, poi si impennò in avanti, mentre l'altra barca emergendo dalle tenebre gli compariva sotto il naso. Sempre al timone, con le gambe aperte ben piantate, il ladro girò elegantemente la ruota e virò inclinandosi attorno alla prua del cabinato. Finalmente libera, l'imbarcazione proseguì puntando verso le onde che avanzavano. Mi appoggiai al muretto del ponte, insieme a tutta la gente che era uscita dai bar vicini con i bicchieri in mano. Insieme aspettammo che la motobarca scomparisse in una delle cento insenature lungo la costa, per scivolare col favore della notte in un porticciolo di Fuengirola o di Benalmadena. Ma il ladro doveva ancora soddisfare la sua voglia di spettacolo. In mare aperto, a trecento metri dal molo, cominciò un gioco di provocazione e inseguimento. Il cabinato deviò seguendo la motobarca che girava in circolo e saltava agilmente davanti alla prua dell'inseguitore, come un torero che sfuggisse a un toro appesantito. Sull'imbarcazione sballottata dalle onde il capitano cercava di seguire le tracce della motobarca che si incrociavano, spazzando le onde con le luci di bordo. I motori della motobarca erano silenziosi, come se il ladro alla fine si fosse stancato di questo gioco e stesse per scomparire tra le ombre della penisola di Estrella. Avevo deciso di andarmene, quando un'improvvisa fiammata arancione illuminò il mare, mostrando distintamente migliaia di creste d'onda e i passeggeri del cabinato in piedi sul ponte. La motobarca stava bruciando, mentre i motori continuavano a spingerla sull'acqua. Negli ultimi istanti prima che la prua si inabissasse, seguendo i pesanti fuoribordo, un'ultima esplosione investì i serbatoi del combustibile, immergendo il porticciolo e la folla in un alone rossastro. Mi guardai le mani, che nell'oscurità sembravano luminose. La strada del porto era affollata di spettatori divertiti che erano usciti dai night-club e dai ristoranti per godersi lo spettacolo, con gli occhi luccicanti come i loro gioielli estivi. Mano nella mano, una coppia allegra si dondolava vicino a me mentre un'auto si avvicinava. Quando la macchina passò accanto a loro, l'uomo diede una manata sul tettuccio. Allarmata, la guidatrice si girò a guardare, e nella confusione vidi per un attimo il viso preoccupato di Paula Hamilton. "Paula!" gridai. "Aspettami... parcheggia vicino allo spiazzo per le barche!" Era venuta a cercarmi, o mi ero sbagliato, scambiandola per qualcun'altra? L'auto attraversò la folla, poi lasciò il porto e si immise sulla strada costiera per Fuengirola. Sei o settecento metri più avanti, sotto le rovine di una torre araba, la macchina si fermò accanto alla spiaggia, smorzando le luci nell'oscurità.
Il cabinato fece un giro attorno ai rottami della motobarca, mentre
l'equipaggio cercava fra le onde. Immaginai
che il ladro stesse nuotando verso gli scogli sotto la torre
araba, verso un appuntamento già deciso con la guidatrice
della macchina, che lo aspettava come un autista aspetta
l'artista dietro il teatro, dopo lo spettacolo serale.
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