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| << | < | > | >> |IndiceQuei ragazzi che andarono con Garibaldi di Ettore Bianciardi 3 PARTE PRIMA 9 Da Genova a Marsala 11 PARTE SECONDA 109 Da Marsala a Palermo 111 PARTE TERZA 211 Da Palermo a Capua 213 NOTE di Luciano Bianciardi 361 |
| << | < | > | >> |Pagina 3Quei ragazzi che andarono con GaribaldiC'è una grande differenza tra il Bandi che scrive queste memorie e il Bandi che partecipa agli avvenimenti descritti. Quello è il padrone dell'informazione della città di Livorno: proprietario di uno dei due giornali e direttore dell'altro; questo è un giovane ventiseienne disposto a dare la vita per combattere i tiranni che ancora scorrazzano per quell'Italia che Giuseppe Mazzini ha prefigurato e Giuseppe Garibaldi vuol costruire in concreto. In mezzo ci sono trentaquattro anni in cui la giovane testa calda fa in tempo a provare il carcere del Granduca, la seconda guerra d'indipendenza, una prima avventura con Garibaldi al fosso della Cattolica, pronto a schioppettare i "soldatelli del pionono"; la diserzione dall'esercito piemontese, l'avventura in Sicilia, la terza guerra d'indipendenza, la prigionia in Croazia. Poi – non ha ancora trentasei anni – la sua vita prende una piega diversa: imbocca la carriera giornalistica, diviene il monopolista dell'informazione livornese, e dai suoi giornali difende la borghesia e i suoi interessi; combatte contro i socialisti e gli anarchici, a tal punto che uno di questi lo uccide quando non ha ancora compiuto i sessant'anni. La trasformazione pare inspiegabile, o forse no, è normale, capita a molti giovani, è la stessa che si ripeterà in infiniti casi, fino ai nostri giorni, tracciando la parabola di tanti uomini rivoluzionari a vent'anni e conservatori a quaranta, che a venti combattono con ogni arma a disposizione quella borghesia che a quaranta difenderanno con il loro lavoro. Ma chi è questo Giuseppe Bandi, ventiseienne tenente dell'Armata Sarda, che, ripromettendosi di scrivere personalmente al re le ragioni della sua momentanea diserzione, con la sua divisa turchina sale sul Piemonte assieme a Garibaldi ed a altri mille giovani, ognuno con una divisa diversa, ma tutti come lui decisi a liberare dal tiranno Borbone la Sicilia e l'Italia meridionale? Che cosa hanno in testa? Quali sono le motivazioni che li spingono? Hanno degli ideali politici? Si possono in qualche modo definire "di sinistra"? Oppure "di destra"? Sono forse i nonni dei partigiani della seconda guerra mondiale o forse i padri degli avanguardisti che marceranno su Roma nel ventidue? La domanda, apparentemente provocatoria, non lo è affatto, visto che ambedue le parti invocheranno i garibaldini come loro esempio di ideali e di azione, e se è vero, come Mario La Ferla ha mostrato in un recente saggio, che Ernesto Che Guevara ha avuto e ha tuttora ammiratori anche nelle file della destra estrema e fascista. Ma perché si erano messi in testa proprio di liberare la Sicilia? Sapevano almeno dove fosse? Ed erano sicuri che i siciliani patissero il giogo della tirannia del Borbone? Era quella una vera tirannia? Sapeva il Bandi che tipo di sovrano fosse Francesco II, due anni più giovane di lui, un ragazzino, che infatti chiamavano Franceschiello? Era un tiranno? O magari era più simile all'ultimo granduca, a Leopoldo II, detto "Canapone", appena cacciato dai Toscani, dimentichi, almeno a suo dire, delle buone cose che aveva fatto, come le bonifiche in Maremma? Solo pochi garibaldini istruiti hanno una qualche conoscenza della Sicilia, ma è conoscenza scolastica, fatta di luoghi comuni e di stereotipi, come racconta un altro giovane garibaldino, Giuseppe Cesare Abba: «Per la maggior parte delle camicie rosse la Sicilia è: i prigionieri di Nicia liberati dai Siracusani, dopo che questi ebbero sentito cantare i cori greci... la piazza di Palermo, dove fu fatto l'autodafé di fra Romualdo e di suor Gertrude... l'anno della fame, l'11, quando la gente si nutriva di certe mandorle grosse come un pollice, portate di lontano... di lontano... dalla Sicilia ... una terra che brucia in mezzo al mare». Se seguiamo molti di loro, dopo l'avventura in Sicilia, li troviamo in giro per il mondo, a cercare furiosamente altri tiranni da combattere, ed altri popoli da liberare, come per esempio Francesco Nullo che combatterà nella lontanissima Polonia per liberarla dal giogo russo, e morirà trafitto da un proiettile cosacco. Allora io credo che se vogliamo trovare una vera e autentica motivazione di questi giovani che presero il mare con Garibaldi e riscontrare le affinità con altri giovani, che prima e dopo di loro vissero simili vicende e provarono simili entusiasmi, dobbiamo limitarci – ma è solo un modo di dire – alla loro incredibile e irrefrenabile voglia di menar le mani, di rivoltare l'ordine costituito, di proclamarsi possessori delle loro vite, fondatori di nuove nazioni che dovrebbero nascere, e che li avrebbero rappresentati prima di tutto per quell'animo nobile e valoroso che li contraddistingue e li separa dalla borghesia vecchia, antiquata, ottusamente legata ai propri benefici e privilegi, una classe inutile e dannosa che va sconfitta e tolta di mezzo. Non sembri poco ciò, perché per queste ragioni quei giovani furono pronti a morire. Pronti a morire saranno altri giovani, di tutti i tempi e di tutte le nazioni, uniti da quella voglia di menare le mani e buttare tutto all'aria che spesso verrà chiamata rivoluzione, ma che quasi mai produrrà effetti duraturi se non sarà accompagnata dal consenso, dall'appoggio di quella borghesia che sembrava il nemico da combattere. Senza quest'ultimo contributo, la rivoluzione termina presto, si affievolisce e quei giovani sono ricondotti negli alvei tranquilli dalla patria, del rispetto, dell'amore, dell'opportunità e della sopportazione, in una parola entro le categorie più care alla borghesia. Ma almeno questa voglia di rivoluzione costituisce un'esperienza straordinaria ed insostituibile per i giovani, che senza di essa giovani non potranno dire di esser stati e che con essa potranno affrontare con entusiasmo e passione la loro maturità.
Altrimenti non si spiega come un Bandi ormai quasi sessantenne ritrovi
lo spirito giovanile e, invece
«di riposarmi e di trascorrere in panciolle, sotto la bell'ombra de' tendoni di
queste liete spiagge livornesi, gli atroci giorni di sollione»,
si metta a scrivere questo libro, che è un'incredibile ed ancora freschissima
cronaca quotidiana di quella bella avventura.
Questo libro, il racconto delle avventure dei mille ragazzi che si imbarcarono a Quarto con Garibaldi e andarono a liberare la Sicilia e l'Italia meridionale, un giorno capita tra le mani di Luciano Bianciardi bambino: glielo dà il padre Atide, timido ed oscuro cassiere di banca, ma mazziniano e patriota nell'animo. Forse questo è l'unico libro di Luciano che non subisce la sorte che tocca agli altri libri non scolastici, quella di essere chiusi a chiave dalla madre maestra Adele, all'inizio dell'anno scolastico e sottratti così a ciò che possa diventare fonte di distrazione per il povero figliuolo. Luciano legge e rilegge le imprese del suo conterraneo Bandi, lo ammira e sogna di essere anche lui un garibaldino. Non può sognare Salgari, Verne o Dumas, chiusi nell'armadio ed allora i garibaldini e Garibaldi sono i suoi eroi, che non lo abbandoneranno mai. Eroi che non si stanca di ritrovare in tutti i luoghi ove mette i piedi, anche nell'esilio di Nesci-Rapallo ove ogni mattina calpesta la quarzite di Sanfront, proprio quel Sanfront che il Savoia mandò a fermare il Bandi e Garibaldi sul fosso della Cattolica perché non "schioppettassero il pionono". Così Luciano ha una visione di Garibaldi eroica, rivoluzionaria, giovanilista, forse addirittura fumettistica, che lo permea di sé; una visione che mal si adatta alla storiografia ufficiale del suo tempo, ed anche del nostro, che vuol assegnare a Garibaldi e ai suoi ragazzi un ruolo e una missione che li inquadri nella storia e nelle vicende politiche italiane, prima come antesignani di color che marciarono su Roma, e poi i padri spirituali di coloro che dalle montagne spararono sui tedeschi inferociti e sugli ultimi irriducibili fascisti sbandati, quei garibaldini che avevano già la camicia rossa e quindi dovevano per forza appartenere a una parte politica ben definita.
Luciano si batte per far riconoscere la vera natura dei garibaldini, ne
sottolinea il carattere di rivoluzionari permanenti, il vantaggio che poterono
trarre dalla mancanza assoluta di cognizioni militari ufficiali, che gli altri
eserciti consideravano invece imprescindibili, il comportamento ispirato
solo dalla passione, una grande e travolgente passione, anche se questa è
solo la passione di menare le mani, la stessa che animerà sempre tutti i
giovani, se giovani sono veramente.
Consiglio di leggere il libro con lo stesso candore e la stessa infantile curiosità con la quale lo lesse Luciano Bianciardi bambino. Dimentichiamoci tutto quello che del Risorgimento è scritto sui libri di scuola, e consideriamolo proprio un libro di avventure, le avventure raccontate da chi ebbe la fortuna e il coraggio di viverle davvero, poco più che ragazzo. Quasi subito verremo conquistati dalla semplice drammaticità del Bandi che si appresta ad uccidere il primo nemico: «... procedendo innanzi, vidi un cacciatore, più indietro degli altri, che mi precedeva forse di centocinquanta passi. Volli bollarlo sulla schiena, ma lo schioppo mi fece cilecca. Cambiai il cappellotto, e giù da capo; ma da capo cecca!... Allora mi rammentai quel che Garibaldi ci avea detto, che il fucile non dev'essere se non il manico della baionetta, e mi contentai di correre, senza fare pel momento ulteriori tentativi per rendere atto a far fuoco quel meschino catenaccio». O quando invece è proprio lui ad essere colpito dal fuoco nemico: «Allora, sentii un gran miagolio, e il berretto mi volò via di testa. Una palla cortese me l'aveva tolto, ma non senza strapparmi una bella striscia della cuticagna, e non senza inondarmi la fronte di sangue. Rammento che Garibaldi mi guardò con un'occhiata piena d'inquietudine, ma non rammento altro, perché una palla mi colse sopra la scapola sinistra e mi cacciò supino per terra, dopo avermi fatto girar due volte intorno a me stesso, come fanno le trottole».
Oppure rimarremo un tantino sorpresi nel constatare con quale spirito
cavalleresco il Bandi tratti con un nemico rimasto con lui ferito sul campo
di battaglia:
«– Fratello, non gridar tanto ché ti farà male; abbi pazienza come io l'ho. Il
napoletano, udendo la mia voce, cominciò a strillar più forte che
mai. Quando poi m'ebbe visto si diè a raccomandarsi per tutte le sue Madonne,
scongiurandomi che non l'ammazzassi lì come un cane e senza il prete, e
non c'era verso che si quietasse. – O bue, – soggiunsi – non vedi che sono
ferito anch'io, e tribolo forse più assai di te?... Credi tu d'aver vicina una
bestia feroce?... Credi che noi siam gente ghiotta del sangue delle povere
creature, come t'avran detto quegli asini de' tuoi ufficiali?...».
Insomma un libro di avventure sì, ma capitate a gente comune, a uomini come noi e non a eroi immortali. Con una sola eccezione. Non potremo sottrarci al fascino irresistibile che irradia dalla figura del generale, del "gran vecchio": Giuseppe Garibaldi. Per quanto il Bandi ce lo descriva come uomo comune e di abitudini semplici, talvolta pedanti: un uomo che si alza prima dell'alba e pretende subito il suo caffè nero, che si contenta di mangiar fave e vuole che altrettanto facciano i suoi uomini, che sbuccia un'arancia col pugnale mentre tratta la resa di Palermo coi generali borbonici, che canta felice, "perché le cose della Patria vanno bene". Per quanto niente di lui sia proprio di una persona fuori dal comune, tuttavia da ogni suo gesto, da ogni sua sola parola, scaturisce una innegabile aura di immortalità e di gloria. Egli risolve battaglie che sembrano perse con una mossa improvvisa e semplice, con un grido richiama ognuno al suo dovere, un suo sguardo riesce a risolver situazioni intricate, la sua sola presenza infonde coraggio e redime i pusillanimi. Non possiamo non vederlo come uomo del destino, venuto da un altro mondo a scovar tiranni contro cui vincere tutte le battaglie, quasi senza armi, ma con la passione, la modestia, la rinuncia a ogni ricompensa, in una parola solo con la grande forza rivoluzionaria, sua e di tutti quei ragazzi che andarono con lui. Ettore Bianciardi | << | < | > | >> |Pagina 11Da Genova a MarsalaVuoi tu, dunque, amico caro, ch'io ti racconti quel che videro i miei occhi ed udirono i miei orecchi nell'avventurosa corsa che facemmo da Genova a Marsala ne' primi giorni di maggio del 1860, quando saltò in testa a Garibaldi il ticchio di fare quella che parve da principio una gran pazzia, e fu giudicata di poi opera egregia e principalissima tra le sue più belle? Io, pel bene che ti voglio, non ho il cuore di risponderti: no; ma t'ammonisco di non pretendere da me più che non possa darti un modesto gregario di quella schiera; il quale ascriverà a sua ventura se per la grande dimestichezza in cui lo tenne a que' giorni (per sua benevolenza) ìl duce dei Mille, potrà narrarti qualche coserella, che non si trova nelle moltissime storie che de' suoi casi si scrissero e si scrivono oggi più che mai. Però non aspettarti da me se non una semplice e breve narrazione, senza ombra di pretesa e senza nugole di filosofia; racconto a te come racconterei a' miei figlioletti, nel cantuccio del focolare, in quelle serate d'inverno, nelle quali si novella patriarcalmente, more majorum. Né ti dorrai se il mio racconto ti parrà smilzo, perché faccio proposito dì non raccontare se non quel che vidi ed udii; e tu capirai bene che io non potevo aver occhi ed orecchi per vedere ed udir tutto. Ma sii certo che io non aggiungerò una frangia alla nuda e santa verità, e mi guarderò scrupolosamente dallo spigolare le storie vecchie e nuove; per la qual cosa, non ti mettere in capo d'aver da me un briciolo di più di quel che sta scritto fra gli scarabocchi del mio taccuino, che han già passati gli anni della coscrizione.
Questa avvertenza che faccio a te, la faccio ancora aì lettori, alla carità
de' quali mi raccomando quanto so e posso, ed ai quali pure io rivolgo questo
timido esordio, acciò non s'abbiano a ripromettere da me grandi cose e
magnifiche, che non si trovano nella mia bisaccia.
Perché sappia il lettore come io mi trovassi a fianco del generale Garibaldi nella spedizione dei Mille, bisogna dirgli che ei mi volle suo ufficiale d'ordinanza, mentre comandava la divisione toscana, e fui seco a Bologna ed a Rimini, finché, nel giorno antecedente a quello stabilito per saltare il fosso della Cattolica non venne a pigliarlo, da parte del re, il generale Sanfront e lo condusse a Torino. Vivendo, dunque, dimesticamente con Garibaldi, spesse volte m'accadde tenergli parola di certi buoni amici che avevo in Siena e nella Val di Chiana, lungo i confini dell'Umbria, i quali non vedevano l'ora e il momento di porgere la mano ai liberali del perugino e pigliar la rivincita dell'iniquo trionfo, di cui si era fatto bello co' suoi svizzeri il generale Smith. Gli raccontavo che per quelle parti s'erano formati alcuni comitati, e si stava sulle intese e s'aspettava l'occasione per dar le briscole ai papalini, e tutti gli occhi erano rivolti su Giuseppe Garibaldi, non sperandosi ormai nessun aiuto dal governo del re, che avea lasciata prendere e insanguinare Perugia, quasi sotto gli occhi de' suoi reggimenti. Garibaldi mi rispondeva sempre: «Scrivete a quei vostri amici, non si perdano d'animo; a suo tempo farò capitale di loro». Partito, dunque, ch'egli fu da Rimini, è noto che, dopo una breve sosta in Torino, si ridusse tutto sdegnoso nella sua Caprera; ed io fui rimandato al reggimento, dove il maggiore del mio battaglione m'accolse con una gran lavata di capo, concludendo col dire: «Signor tenente, qui non c'è Garibaldi; metta il capo a partito e cerchi di fare il suo dovere». Stizzito com'ero per questo brutto complimento, e più per aver veduta andare a monte la faccenda della Cattolica, proprio sul punto in cui si stava per passare il Rubicone, passai di malissima voglia l'inverno e i primi giorni di primavera; ma questo non può importare al lettore. Laonde, faccio un bel salto dagli ultimi di ottobre 1859 al 23 aprile 1860, e dico che in quest'ultimo giorno me ne stavo seduto su d'una panca del più bel caffè di Alessandria, quando il vecchio Gusmaroli (a que' tempi carissimo a Garibaldi e familiare suo) mi si fe' vicino, dicendomi, el general te veul; viente via. Udendo queste parole saltai su come una molla; volli dimandare, volli sapere, ma il vecchio Gusmaroli fu muto come una tomba, e senza permettermi di andare a casa, mi trasse difilato alla stazione, e mi fe' salire in una carrozza di seconda classe. Giungemmo a Genova a notte scura. Una carrozza ci fece traversar la città, ed uscimmo per una porta, che so adesso chiamarsi Porta Pila. Un bel pezzo dopo, la carrozza si fermò dinanzi a un cancello; Gusmaroli mi disse: scendi. Scesi e mi incamminai con lui su per un viale, che faceva capo a una villa. Fu picchiato e fu aperto. Un minuto ancora, e mi trovai in una piccola stanza dov'era un lettuccio; sul lettuccio stava Garibaldi, e seduto in fondo, stava Nino Bixio. Garibaldi non aveva dimenticato gli amici di Val di Chiana né i comitati dell'Umbria. Infatti, dopo poche parole, mi disse: — V'ho fatto venir qua da Alessandria, perché è tempo di fare qualche novità verso Perugia. E così, senza punti preamboli, mi fe' sapere che io dovevo recarmi immediatamente a Siena a far gente, e spingermi con quella gente, per la Val di Chiana, al confine, e impadronirmi di città della Pieve, e ingrossarmi e tenermi su pei poggi e farmi vicino a Perugia, e vedere se i perugini avesser voglia di dar nelle campane. Soggiungeva molte altre cose, che adesso non starò a ridire, avvertendo però che per compiere quell'impresa non avrebbe potuto dare né un marengo, né un fucile. Io stavo ad ascoltarlo a bocca aperta, e quando m'accorsi che avea finito, gli dissi: — Ma come, generale? Far tutto quello che volete voi, senza denari e senza armi? — E che? — riprese egli. — Hanno voglia quella gente di far qualcosa, o non l'hanno? Se l'hanno davvero, debbono bastare i sassi e i bastoni. — Sì, certo — risposi — che basterebbero, generale, quand'Ella fosse tra loro; ma che potrò fare io, povero diavolo, sconosciuto, e senza pratica a dirigere musiche di quel genere? Da me non si possono aspettar miracoli... Qui si cominciò a discutere e si discusse lungamente, e io persuasi Garibaldi che per tentare un'impresa di quel genere era necessario avere in pronto armi e denari, per non dar tempo al barone Ricasoli di guastar l'impresa nel suo nascere. Oltre a ciò, gli dissi che per muovere quella gente era indispensabile un nome che suonasse conosciuto e suonasse bene. Garibaldi si persuase facilmente, ma Bixio, saltando in terra, esclamò: — Insomma, tu non ci vuoi andare, eh? A cui risposi: — Oh bella! Vacci tu: io non voglio esser messo sul Fischietto, e sentirmi dire che per vanagloria ho ingannato Garibaldi. Bixio tirò giù un gran sagrato, ed uscì. Restammo soli. Garibaldi guardò l'orologio. Era mezzanotte. — Su via — disse. — Penserò io a trovare chi voglia incaricarsi di questa faccenda; domani ne parleremo, e voi mi darete i recapiti che avete. Intanto, spogliatevi; dormirete alla meglio su quel divano. Obbedii e mi stesi sopra il divano che era in fondo alla cameretta. – Posso spengere il lume? – mi domandò Garibaldi. – Faccia pure, generale. – Buona notte. | << | < | > | >> |Pagina 31E per vero, quanti fummo in quei giorni, intorno a Garibaldi, avevamo tutti un naso oltre ogni dire miracoloso per fiutare l'odor de' birri, avuti in tasca da noi, e odiati a morte, in barba al Vangelo, che prescrive doversi tollerare con carità le persone moleste e i padroni, anche se son discoli. Carlo Augusto Vecchi, padrone della villa, aveva messo sull'uscio d'ingresso un cartello che diceva: «Proibita l'entrata ai cani e ai preti» e s'era dimenticato di aggiungervi «ai birri». Questi però ebbero, per dono di Dio, tanta sapienza da mettersi spontaneamente nel numero de' cani e dei preti; e mai non accadde che alcun di loro mettesse piede sulla nostra soglia e s'arrischiasse ad entrare. Ma per quanto e' stessero fuori, il Vecchi era spesso inquieto e non sapeva darsi pace di vederli a zonzo per le vicinanze, sospettando egli sempre che volessero farci all'improvviso qualche cattivo tiro. Infatti, una certa volta ei mi disse in chiari termini aver saputo che in Torino s'era discorso seriamente di farci cogliere caldi caldi nella villa e condurci insieme col generale in qualche fortezza e tenerci quivi rinchiusi fin che le fila della nostra trama non fossero spezzate e, più che spezzate, distrutte. Il colonnello Vecchi non fu un credenzone, né una testa calda, ma pure sospettò sul serio che qualcosa di brutto si venisse mulinando a nostro danno dai ministri del re, impauriti o messi a punto dal governo napoletano, il quale per bocca del marchese Canofari, suo agente, non cessava d'accennarci come macchinatori pericolosi, e pronti a compiere un atto d'improntitudine inaudita. E la nostra congiura, a dirla schietta, potea ben chiamarsi il segreto di Pulcinella, perché si lavorava all'aperto e se ne parlava per le vie e per le piazze ad alta voce, e la gente andava e veniva e faceva preparativi, non altrimenti che si trattasse d'una burla innocentissima al povero figliuolo del defunto re Bomba. Laonde il Vecchi ci raccomandava sempre che stessimo all'erta e teneva d'occhio gli esploratori e faceva che gli altri li esplorassero, e sovente nella notte, mi svegliava ed ero suo compagno nel far la ronda. Garibaldi era informatissimo di tutto e ci confortava ad usar prudenza, e mi parve molto disposto a credere che il conte di Cavour morisse dalla voglia di levare il vino dai fiaschi col farlo allontanare da Genova con la forza nel modo stesso che, pochi mesi innanzi, lo aveva allontanato da Rimini con la furberia. Ora, se debbo dire quello che io pensassi, dirò alla bella libera che non fui mai partecipe di quei sospetti, e credei che i birri ci si mandassero intorno, unicamente per sapere ciò che da noi si faceva, e noi si faceva, e non per altro. In ultima analisi, il conte di Cavour trattava con Garibaldi per mezzo del La Farina, né c'eran segni che le loro pratiche s'avessero a rompere e che la tregua tra quei due uomini s'avesse a mutare in aperta guerra. | << | < | > | >> |Pagina 154Garibaldi, seduto sempre sul suo greppo, guardava tranquillamente quello spettacolo, esclamando di tratto in tratto: – Per Dio! Come manovrano bene! Son belle truppe davvero! Poi cominciarono a suonar le trombe, e suonavano ch'era meraviglia a sentirle. Erano le trombe dell'ottavo battaglione dei cacciatori. Il generale stette un pezzo a sentir quella musica, fumando sempre il suo sigaro; e quando la musica tacque, si volse a noi e disse: – Hanno buone trombe davvero! Facciamo che sentano un po' la nostra. E soggiunse, volgendosi: – Dov'è la mia tromba? – Son qui – rispose il trombettiere Tironi, che sedeva, pochi passi indietro, sull'erba. E Garibaldi a lui: – Fate sentire a quella gente la mia sveglia. Ci guardammo in faccia meravigliati, e credemmo che il generale burlasse; ma egli non facea segno di ridere, e il trombettiere intonò con chiara e sonante voce la stessa sveglia, che nelle prime ore di quella mattina, gli avea procurato tanta lode e una bella moneta da cinque lire. In quel momento, guardando co' binoccoli i cacciatori nemici che cominciavano a spiegarsi a mo' di ventaglio, notammo che si fermarono all'improvviso, stupiti di quella singolar cantilena della nostra tromba, tutta dolcezza e serenità. La solennità dell'ora, il silenzio profondo della valle e la novità di quel suono debbono aver fatto credere ai napoletani, che qualche Fata si pigliasse giuoco dei fatti loro, o che noi togliessimo a canzonarli, rispondendo colle soavi modulazioni dell'idillio alle provocatrici note delle squille guerriere. Dopo che il trombettiere ebbe ripetuto la sua cantilena, Garibaldi gli fe' cenno che tacesse, e disse a noi che gli eravamo accanto: – Adesso pensiamo a dar due buone bastonate a quei signori. Mentre egli così diceva, Desiderato Pietri saltò giù dal greppo, e col mio fez in testa e il suo bravo schioppo in mano, si diè a camminare contro il nemico, in mezzo alle fitte pianticelle delle fave, che cuoprivano la campagna. Tosto io dissi: – Generale, debbo chiamarlo indietro quel matto? – Lasciatelo fare – rispose il generale. – Ognuno ha la sua ispirazione. Tacqui e seguitai a guardare. Il povero diavolo, tratto pei capelli dal suo destino, camminò ancora cento o dugento passi, e poi fece alto, e s'inginocchiò. Garibaldi trasse fuori l'orologio e disse: – Guarda, è mezzogiorno giusto. Il cielo era sereno e tranquillo, e non si udiva per tutta la vallata lo stormire di una foglia. I volontari erano distesi sull'erba, guardando il nemico. Avevo in quel momento accant'a me due bersaglieri; tre o quattro passi indietro avevo Nino Marchese. – Nino – gli dissi – tra qualche minuto sentirai fischiar le palle. Sta fermo e guarda me; e quando vedrai ch'io salto giù, seguimi senza paura e non fermarti sinché io non mi fermi. Nino sorrise, e alzò il cane della carabina. A quel rumore, il generale volse il capo, ed esclamò: – Nessuno faccia fuoco senza mio ordine! Tirare da lontano è segno di paura. In quel mentre le trombe napoletane suonarono avanti, e udimmo le voci dei capi-quadriglie ripetere i comandi. Poi, dopo alcuni istanti, udimmo uno strano coro d'impertinenze, che que' bravi cacciatori ci regalavano per antipasto, mentre venivano innanzi gobbi gobbi, come se andassero a caccia alle quaglie. Gridavano que' poveri soldatelli: «Mo venimme, mo venimme, straccioni, carognoni, malandrini». Un altro squillo di tromba, e le palle cominciarono a fischiare sulle nostre teste. I due bersaglieri che avevo alla mia sinistra mi guardarono con tanto d'occhi, e io accennai loro che stesser fermi. Infatti il generale che s'era accorto che i fischi delle palle e l'avanzarsi rapido de' cacciatori avea già messo l'argento vivo addosso ai volontari per tutta quanta la linea, si raccomandava più che mai, dicendo: – Non tirate; fermi, ragazzi; lasciateli venir qui sotto, e poi li piglierete a legnate... Ma il generale propone e il soldato dispone. Chi potea mai tenere più lungamente al canapo tanti puledri? Nel tempo che il generale si raccomandava e tutti gli ufficiali ripetevano le sue parole, Carlo Mosto, fratello del capo dei carabinieri genovesi, gridò: «Indietro, canaglia!». A questa voce tenne dietro un colpo di carabina, a quel colpo ne seguirono altri due, tirati dai due bersaglieri, miei vicini... Tosto altri cento rimbombarono e, nel punto stesso, Francesco Nullo, sbucato a cavallo di dietro una macchia, si slanciò colla sciabola nuda per la valle, gridando: – Avanti alla baionetta! Strappai di mano al trombettiere lo schioppo e saltai giù del greppo. Mi seguì Montanelli con la sciabola in pugno. Garibaldi gridava: – Eh! per Dio! Non possono star fermi un momento! Altre parole non potei udire di sua bocca, ma è certo che egli impedì, non senza grande difficoltà, che tutto il suo piccolo esercito non si precipitasse all'assalto. Poco tratto avevamo corso, inseguendo i cacciatori napoletani, che fuggivano a più non posso e solo si fermavano, di quando in quando, per mandarci un saluto all'usanza de' Parti, allorché vidi steso in mezzo ai solchi Desiderato Pietri. – L'ha avuta! – dissi a Montanari. E Montanari mi fe' un cenno, che volea dire: «Chi cerca, trova». Procedendo innanzi, vidi un cacciatore, più indietro degli altri, che mi precedeva forse di centocinquanta passi. Volli bollarlo sulla schiena, ma lo schioppo mi fece cilecca. Cambiai il cappellotto, e giù da capo; ma da capo cecca!... Allora mi rammentai quel che Garibaldi ci avea detto, che il fucile non dev'essere se non il manico della baionetta, e mi contentai di correre, senza fare pel momento ulteriori tentativi per rendere atto a far fuoco quel meschino catenaccio. Corremmo un bel pezzo, dando la caccia ai cacciatori fuggenti, che volgevano a frotte verso sinistra, cercando riparo sul poggio, che indicai col nome di Pianto Romano, sul qual poggio erano in batteria due cannoni, sostenuti da parecchie compagnie. Volgendo, dunque, a sinistra, incontrammo una casetta disabitata e diverse piante di fico, in fondo a un'erta assai ripida, che era necessario salire, in barba alle palle e alla mitraglia che cominciavano a tempestare. Non so quanti fossimo allora, ma eravamo pochissimi. Appena principiammo a salire quell'erta, cadde Giorgio Manin. Volli rialzarlo, ma non fu buono a reggersi in piedi e ricadde. Passò in quel mentre Benedetto Cairoli colla sua compagnia, e ci salutammo, gridando: «Viva l'Italia!». Eran pavesi, per la maggior parte, e correvano colla miglior voglia del mondo. Ci unimmo a loro, ma dopo pochi passi, Francesco Montanari cadde bocconi. – Che hai, Montanari? – Una palla in un ginocchio... Lo volemmo rialzare, ma fu lo stesso che alzare un cencio. – Aspettami, – dissi – verranno a prenderti o ti prenderò io quando sarà tempo. Il poveretto, mi par di vederlo ancora, alzò la mano tre volte o quattro finché io mi volsi a guardarlo, e parea dirmi: «Non ti scordare di me!». Quando giungemmo sotto la spianata che sovrasta al poggio, eravamo trafelati. Fortuna volle che il ciglio della spianata venisse giù, in guisa di parapetto, un po' più che ad altezza d'uomo, e ci servisse di riparo, dal quale ci fu agevole il tener fermo alquanto il nemico, bersagliandolo colle carabine dei genovesi e con quegli schioppi della compagnia di Cairoli, che furono buoni a far fuoco. Mentre stavamo sopra il ciglio della spianata, due o tre volte i napoletani mossero correndo per venirci addosso, e altrettante volte si fermarono e tornarono a' fianchi de' cannoni. Noi li udivamo gridare: «Viva 'o re!» ed una volta intonammo il nostro inno, ma per la gran fatica della corsa fatta, si rimase a mezza strofa. Intanto, uno dei genovesi, che ebbe nome Profumo, bello e carissimo giovane, sollevandosi sul parapetto, fu còlto da una palla e lasciato lì sul tiro. I compagni l'appoggiarono colle spalle al greppo, e parea che dormisse. Lo baciai, e volli sentirgli il cuore; il cuore di quel martire batteva ancora. – Che facciamo noi qui? – mi disse Benedetto Cairoli. – Montiamo sopra e finiamola. – Montiamo, – risposi, e in quanti eravamo, montammo su. Se invece di salire su quell'altipiano, fossimo scesi nella bocca d'inferno, credo che il fumo e il fuoco non sarebbero stati in tanta dose. Perduti quindici o venti compagni, le cui grida dolorose mì suonano ancora negli orecchi, tornammo giù sotto il ciglio, e fu ventura che i napoletani si fermassero a mezza la spianata e non avessero cuore di venire oltre. Mi volsi per vedere se qualcuno venisse a soccorrerci, e vidi a metà dell'erta una compagnia. Fu riconosciuta per la compagnia dei bergamaschi, e tosto un grido di giubilo la salutò: «Viva Bergamo!». Incontanente, avuto questo rinforzo, ripetemmo l'assalto, e montammo su. Ma la prova fu infelice anche questa volta; e dopo aver lasciati per terra alquanti de' nostri, fra i quali il tenente De Amicis, che avendo veduti i cannoni, era corso a compiere il suo voto, tornammo dietro la provvidenziale trincea. Pochi minuti eran corsi da quella seconda ritirata, quando alte grida che suonavano dietro di noi ci avvertirono che nuova gente veniva a soccorrerci. Precedea quella gente Nino Bixio, a cavallo, il quale, chiamando a nome quanti di noi conosceva, cominciò ad invitarci ad un terzo assalto, e si mise a correre intorno alla spianata, agitando la bandiera di Garibaldi, che aveva nelle mani. Le gran schioppettate che ebbe quel demonio, quando fu alla destra della spianata, dove il ciglio era bassissimo e non offriva alcun riparo, sono impossibili a ridirsi; ma pareva fatato, e corse e ricorse e sventolò la bandiera sul viso ai nemici, senza che neanche lo stoppaccio d'uno schioppo lo cogliesse, per quanto i cacciatori lo tempestassero talvolta quasi a bruciapelo. Giunto che fu il soccorso, Menotti Garibaldi tolse di mano a Bixio la bandiera, e seguito da Schiaffino e da Elia, montò sulla spianata. Un minuto dopo, ne scesero tutti e tre, e Menotti porse la bandiera a Schiaffino. Bixio e Menotti, gridavano, incoraggiando i soldati a salir di nuovo all'assalto; e l'assalto fu rinnovato ancora. I regi erano stati ingrossati da parecchi rinforzi, noi eravamo il doppio più di prima. La zuffa ricominciò più accanita e feroce; le palle grandinavano da ogni parte; e di tanto in tanto si sentiva passare sulle nostre teste la mitraglia, flagellando l'aria come il vento che stormisce furioso tra le fronde. Ora, io narrerò quel che vidi co' miei occhi, soltanto, lasciando agli altri la cura e la fatica di raccontare quel che videro con gli occhi loro. A quel terzo assalto, chiamandomi Bixio a voce alta, seguii il suo cavallo, là dove si entrava sulla spianata quasi senza alzare il piede. In un baleno, il fumo mi ravvolse, e tra il fumo, che il vento dileguava a tratti, vidi che eravamo frammisti, alla rinfusa, garibaldini e borbonici, e si combatteva a corpo a corpo, e con tutte le armi che venivano tra le mani, non esclusi i coltelli e non esclusi i sassi. Era una pugna feroce, dolorosa unicamente perché fra italiani si combatteva. Il gruppo dei garibaldini più vicino a me, era formato da Menotti, da Elia e da Schiaffino che aveva la bandiera. I borbonici erano quasi sull'orlo del ciglio della spianata e menavano sante busse. Un drappello di costoro, veduta la ricca bandiera, si fe' vicino al terzetto, e cominciò a serrarglisi sopra. I tre moschettieri, belli e bravi quanto possono essere tre eroi da romanzo, tirarono colpi di carabina e di revolver finché ebbero cariche le armi, poi si avventarono colle baionette in resta contro gli assalitori. Me ne rammento come in sogno, perché io pure avevo pane pe' miei denti. Il drappello dei cacciatori che voleva conquistar la bandiera ad ogni costo, si spinse, gridando, addosso ai tre compagni. Due cacciatori afferrarono la bandiera e ne strapparono un lembo; Elia e Menotti li respinsero ancora. Vedendo la bandiera in quel tremendo risico e quasi sola nel mezzo ai nemici, cominciai a gridare: «Salviamo la bandiera!». E tre o quattro che mi erano più vicini, mossero con me verso la bandiera. In quell'istante, cioè quando fummo distanti venti passi o poco più dal valoroso terzetto, sopraggiunsero sette o otto cacciatori, a capo dei quali era un sergente, alto della persona e rosso, e tutti insieme unitamente agli altri, avvilupparono i tre. Il fucile del sergente, appoggiato colla punta della baionetta al petto di Schiaffino, fece fuoco, e Schiaffino cadde indietro sollevando in alto, nel cadere, la bionda e lunga barba, e lasciò la bandiera, che in mezzo a grida di giubilo, sparì dai miei occhi. Nel tempo stesso che Schiaffino cadeva, Menotti era ferito in una mano, ed Elia riceveva una palla in bocca, che lo stese per morto. Avevo messo un terzo cappellotto al mio fucile, dopo aver forato ben bene con uno spillo il focone; ma come non era ragionevole che mi fidassi del fucile, tirai tutti i sei colpi del mio revolver nel branco dei cacciatori, e non saprei dire in coscienza se i miei colpi colsero, o se andarono a vuoto. Dirò soltanto che il sergente rosso non lo ammazzai, né mi venne fatto di ferirlo; e noto questo perché non andò guari che ei fu lì lì per ammazzar me, come vedremo fra poco. Ma di quel diavolo di sergente riparlerò nel capitolo che segue, dicendo chi fosse e qual morte gli toccasse. Sparita la bandiera e spariti i più audaci dei cacciatori, sopraggiunse di bel nuovo Nino Bixio, gridando come un falco, e mi chiamò a nome più volte, e si cacciò in mezzo al fumo, che accecava gli occhi ed ammorbava col puzzo acre dello zolfo. Le palle non fischiavano più, ma miagolavano alle mie orecchie come tante gatte in amore. Mi cacciai correndo, dietro quello spiritato, e dopo alquanti passi mi fermai, non avendo accanto se non un giovane siciliano, che ho riveduto in seguito, parecchie volte, e sempre mi ha rammentato quel fatale momento. Stando fermo nel punto dove mi ero messo, vidi improvvisamente quel sergente rosso, che aveva ucciso Schiaffino, ricaricare, a pochi passi da me, il suo schioppo e guardarmi fisso con certi occhi, che ripensandoci, mi paiono fossero due carboni accesi. Capii subito che se quel diavolo terminava di caricare il fucile, ero spacciato per aeterna saecula; laonde, spianai la baionetta, e gridando il nome di Garibaldi, mi slanciai sul sergente. Io non so dire se fu il sergente o se fu altri che mi tirò; ma sta il fatto che una gran botta mi colse sopra la mammella destra, e caddi per terra, non altrimenti che mi ci avesse spinto un vigoroso pugno. Un urlo feroce salutò la mia caduta, e quell'urlo lo mandò il sergente e lo mandarono i suoi compagni, che avendomi visto indosso una divisa che si distingueva dalle altre, credettero che la fortunata palla avesse tolto dal mondo un qualche pezzo grosso, e non un pover uomo qualunque, nato e destinato a far numero. Mi riebbi quasi subito, e mi ritirai indietro carponi, e così percorsi un tratto di quaranta o cinquanta passi, finché non vidi un gran numero dei nostri farsi innanzi, e non udii tante voci gridare: «Salviamo il generale!». Alzai gli occhi e vidi allora Giuseppe Garibaldi nell'attitudine nella quale auguro che lo vegga in sogno lo scultore che, primo, dovrà modellare la statua dell'eroe; aveva il cappello sugli occhi, lo sguardo acceso, la bocca sorridente e un pezzo di sigaro in bocca, e stringeva colla destra la sciabola e stava dritto come sta San Giorgio, effigiato da Donatello. Veduto il generale, saltai su, ed e' mi vide subito e mi disse, vedendomi insanguinate le mani: – Bandi, che cos'è stato? – Nulla, – risposi – una pillola che mi è toccata, ma spero che la digerirò. Tutti si serravano intorno a lui, e conobbi che il momento era terribile, e le palle fischiavano e miagolavano da tutti i lati. Sirtori giunse, proprio allora, galoppando su di un cavalluccio, e si fermò accanto a noi, chiamando con gran voce i soldati, che avea dietro, e che erano le ultime carte che si giocavano in quella incerta partita, e chiese al generale: – Generale, che dobbiamo fare? Garibaldi guardò intorno, e con voce tonante gridò: – Italiani, qui bisogna morire. E per vero, la gente moriva e moriva volentieri; ma quella tempesta di palle, che ci sfolgorava per ogni parte, avea cominciato a dar da pensare a parecchi. Adesso racconto un episodio doloroso, che ho sempre nella memoria, e che mi tien vivo un sentimento ineffabile di compassione. Capitò accanto a me l'ungherese Tuckery, uomo valorosissimo, che doveva, indi a poco, essere ucciso sotto Palermo. Questo Tuckery, vedendo il gran pericolo che correva il generale, mi disse, accennandolo, essere un gran peccato che egli si tenesse così scoperto dinanzi al nemico, e in un punto dove le palle venivano da ogni parte. Infatti, le guerriglie siciliane schioppettavano su' nostri fianchi alla maledetta, facendo poca o punta attenzione alla via che pigliavano le loro palle, e una parte dei regi cominciava a girare la nostra diritta. Queste cose me le fece notare parlando in francese, ed io gli dissi nella stessa lingua, ma più piano che potei: – Major, nous voilà entourés! Tuckery accennò di sì; mentre ei si volgeva a Sirtori per dirgli non so che cosa, un bel giovane alto, con baffi neri, vestito colla camicia rossa e con un cappello nero di feltro sulla testa, si fece innanzi a Garibaldi, gridando: – Generale, siamo presi in mezzo! – e accennava le compagnie dei regi, che facean mostra di girarci dietro davvero. Quelle parole, proferite così a voce alta, eran tali da sgominare un esercito, non che la piccola banda dei poveri volontari, che combattevano facendo dei loro corpi scudo al generale; e il generale conobbe subito il gran rischio che si correva, perché sollevata la sciabola, fe' segno d'avventarsi sul malcauto lombardo, e gridò con voce terribile: – Vigliacco! Una parola ancora, e vi taglio la faccia!... L'infelice, che non aveva avuto colpa se non di esser novizio innanzi alle fucilate, diventò come la bragia, alzò le mani come per raccomandarsi a Dio, e poi si cacciò di corsa in mezzo al fuoco, e là scomparve per sempre dai nostri occhi. Garibaldi lo aveva chiamato vigliacco!... Ma è fama che in quel momento disperato, Nino Bixio dicesse a Garibaldi: – Generale, ritiriamoci! Ed è fama che Garibaldi rispondesse a Bixio: – Ma dove ritirarci?... Quelle parole non giunsero a' miei orecchi, e io debbo registrarle sulla fede degli altri, senza però mettere in dubbio che fossero pronunziate veramente, perché così la domanda come la risposta mi paiono naturalissime ed adattate quanto mai alle strettezze di quell'ora. Nino Bixio aveva ragione di dire a Garibaldi: «Ritiriamoci», e Garibaldi aveva centomila ragioni per rispondere come gli rispose. Dove potevamo ritirarci? Non era chiaro che, volgendo noi le spalle su quel terreno quasi nudo, saremmo stati conci a quel biondo Dio, prima che avessimo riguadagnato le colline dirimpetto? E non c'era anche da aspettarsi che le turbe numerose dei siciliani che s'affollavano sulle cime dei più alti poggi, aspettando l'esito della battaglia, nel vederci rotti e fuggiaschi, ci si chiarissero nemiche?
Non c'era da scegliere. Era necessario farsi largo tra i nemici, o saper
morire ripetendo il grido dei fratelli Bandiera:
Chi per la patria muor, vissuto è assai! | << | < | > | >> |Pagina 205Da che eravamo scesi in Sicilia nessun provvedimento avea preso il dittatore per regolare le nostre paghe; né ufficiali né soldati avevano soldo fisso, e solo, di quando in quando, s'era distribuito loro qualche pizzico di denari, tanto perché assaggiassero la moneta coll'impronta del Borbone e de' suoi gigli.Questa musica non piacque a Bixio, che un tal giorno, rammaricandosene con parecchi di noi, disse: – Nessuno partì per la Sicilia coll'idea di diventar ricco, ma nessuno può starsene qui in buona pace, quando pensa che ha moglie e figliuoli a casa, come io li ho, che non aspettano da Dio la manna, ma aspettano pane dai mariti e dai babbi. Il generale ha certe sue idee stupende intorno al disprezzo del denaro; ma bisogna riflettere che egli non ha bisogno di danari per vivere, e tutti sappiamo che riescirebbe appena a distinguere un soldo da una lira. Ora, sarebbe tempo che pensasse a noi e ci mettesse in caso di mandare qualcosa alle nostre famiglie, perché chi non ha moglie e figliuoli avrà il babbo vecchio e povero, o avrà delle sorelle, ed è giusto che se ne rammenti. Parliamogliene un poco e vediamo di persuaderlo. – Hai ragione – dissi – e credo che anche il generale dovrà capirla. Noi combattiamo per l'unità d'Italia e spiegammo la bandiera di Vittorio Emanuele ed è giustissimo che ci si consideri come i soldati dell'esercito. Le nostre ragioni eran buone e non facevano una grinza, e tutta la brigata ci fece eco, ed ogni bocca manifestò il parere che qualcun di noi movesse primo la pedina verso il generale. Salito su in palazzo, colsi un momento che il generale era solo, e gli riferii ciò che tra noi s'era detto e misi innanzi Bixio, come quegli che aveva moglie ed era carico di figliuoli, ed aveva un sacco di ragioni dalla sua. Garibaldi mi stette a sentire, e poi, stringendosi nelle spalle rispose: – E che cosa volete fare della paga? Quando un patriota ha mangiato la sua scodella di zuppa, e quando le faccende del paese vanno bene, che mai può desiderar di più? Non m'arrisicai a rispondere, e còlto il destro d'andarmene senz'aver l'aria di ritirarmi colle trombe dentro il sacco, corsi a trovar Bixio, e gli dissi: – Ho adempiuto la commissione, ma il generale mi ha risposto così e così. E gli ripetei parola per parola, quanto mi aveva detto. Ed egli a me: – T'ha detto questo, e tu non hai soggiunto nulla? — Nulla — risposi. — Lo sai bene che quando il generale s'è fitta in capo una cosa neanche Cristo sarebbe buono a smuoverlo. Bixio se ne andò taroccando, e non so con chi altri tornasse sull'argomento; ma il fatto è che, due giorni dopo, un decreto del dittatore, pareggiava in tutto e per tutto l'esercito de' volontari all'esercito regolare, mettendo in vigore tra noi i regolamenti, il codice penale militare e la magna tabella delle paghe e vantaggi, e di quant'altro c'era di dolce e di brusco negli ordini militari del regno sardo. | << | < | > | >> |Pagina 214L'arrivo della brigata Medici fu festeggiata con indicibile allegrezza dal popolo di Palermo e da noi, i quali vedevamo alla fine che i nostri fratelli dell'alta e della centrale Italia non ci avevano dimenticati. L'incontro fra le nuove schiere e la vecchia schiera dei Mille, lacera e decimata, non potrebbe dipingersi al vero né con la penna né col pennello. Ognuno di noi rivedeva un amico, un parente, un compagno d'armi; ognuno dei nuovi giunti avea per ciascun di noi una lettera, un saluto del padre, della madre, della moglie, dei figli... una lieta novella, una parola di conforto o di congratulazione. Erano, in tutti, tremila e più volontari e recavano seco il prezioso corredo di ottomila carabine Enfield e una scorta ricchissima di munizioni, di oggetti di vestiario e armi d'ogni genere. Giacomo Medici era, allora, fra i luogotenenti di Garibaldi, quello che godeva particolarmente la sua stima e la sua amicizia, essendogli stato compagno nella guerra d'America, e in Roma, e, per ultimo, in Lombardia. Il Medici fu il solo che io abbia udito trattare Garibaldi con affettuosa domestichezza e dargli del tu. Fu un galantuomo e un gentiluomo in tutta l'estensione della parola, capitano accorto e prudente, soldato valorosissimo, come tutti sanno, ed alieno, in politica, da ogni intemperanza. Ci pareva che l'eroe del Vascello fosse, per così dire, il braccio destro di Garibaldi; e come c'era parso amaro il non averlo con noi da Genova a Palermo, così fu grande la gioia che provammo nel vederlo giungere proprio alla vigilia del principiare della nuova campagna. Il primo reggimento della brigata Medici era comandato dal colonnello Simonetta; il secondo, composto quasi interamente di toscani, e per la più parte di livornesi, obbediva a Vincenzo Malenchini. Aveva dunque Garibaldi sotto i suoi ordini tre piccole brigate, provviste di buone armi e comandate da scelti ufficiali, di cui molti già vecchi del mestiere, sebbene giovani d'età, e vogliosi tutti di trarre a felice compimento l'opera così ben cominciata. A queste brigate se ne aggiungeva un'altra che stava formando il La Masa, e s'aggiungevano parecchi corpi franchi, o guerriglie, tuttora in armi. Le tre brigate suddette erano composte di oltre seimila e cinquecento uomini, esercito che a Garibaldi pareva già numerosissimo e formidabile a segno, da non tardar più a lungo a passar le porte di Palermo e mostrarsi in campagna aperta, per occupare i punti migliori dell'isola e serrare un po' da vicino gli ultimi propugnacoli della dominazione borbonica. Egli ordinò, dunque, a Türr di incamminarsi verso Catania, mandò Bixio alla volta di Girgenti, e spinse Medici per la via litoranea sopra Messina. A Medici veniva così assegnato il posto d'onore, perché mentre le altre due brigate muovevano contro deboli presidi ed anche verso terre sguarnite affatto di nemici, la sua brigata si volgeva verso un punto, in cui sotto le bandiere borboniche si riunivano ottomila uomini e forse più, appostati in ottime posizioni tra le fortezze di Milazzo e di Messina. Mentre le brigate si disponevano alla partenza il dittatore ordinò che si requisissero in Palermo e nei dintorni i cavalli necessari, e così tutti quanti avevam diritto alla cavalcatura, potemmo scegliere nelle scuderie del palazzo reale quel che faceva al caso nostro. Rammento questo, per dire che, in quei giorni, dopo aver provveduto d'eccellenti cavalli le guide, comandate dal valoroso Missori, si diè mano ad ordinare un corpo di cavalleria e si provvide a mettere insieme qualche centinaio di carabinieri, ma la tanto desiderata cavalleria non fu in pronto se non qualche mese dopo, e in numero sempre scarso. Quali artiglierie avessero seco Bixio e Türr non saprei dirlo; posso però assicurare che la brigata Medici non aveva l'ombra d'un cannone, ed io che comandavo il quinto battaglione della detta brigata, stupii fortemente vedendo come s'andasse a intraprendere una guerra regolare in aperta campagna e contro truppe fornite d'ogni desiderabile argomento, senz'altr'arme che quella che i soldati recavano sulla spalla, cantando le allegre canzoni, per cui si dimenticano la fame, il sonno, la sete e la stanchezza. Ma chi poteva darci i cannoni? Dovevamo forse trascinare dietro di noi le vecchie e miserabili caronade, che Garibaldi aveva compre da certi capitani di mare greci, per guarnirne qualche barricata delle più importanti, nei giorni ultimi di maggio? Ci mettemmo in marcia in una bella serata di luglio, vestiti tutti alla foggia dei cacciatori delle Alpi. Tutta Palermo era sulla marina, e gli evviva dei palermitani e delle palermitane percossero le nostre orecchie a un miglio buono di distanza dalle mura della città. Ora, siccome io non mi sono proposto null'altro se non di descrivere brevemente le cose principali che accaddero sotto i miei occhi, nel seguito della guerra che tolse il trono al Borbone, così mi astengo dal raccontare per filo e per segno quanto avvenne nei lunghi giorni di cammino in cui percorremmo la strada che corre lungo il mare da Palermo a Barcellona. Dirò soltanto, perché mi sembra degno che lo rammenti, d'un pietoso caso che avvenne nella città di Termini Imerese, dove facemmo sosta per due giorni e mezzo, e dove il generale Medici volle che i soldati s'esercitassero al tiro al bersaglio, per imparare a conoscere, ad un bel circa, la gittata delle loro stupende carabine inglesi. Avvenne, dunque, che, certa sera, un volontario, non so se livornese o fiorentino, che era ordinanza d'un capitano, ed aveva in custodia il suo revolver, entrò in un caffè, e si mise a far vedere quell'arme a diversi siciliani, innamoratissimi di quel nuovo portento. I siciliani, non paghi di aver veduto e adorato il revolver, vollero esaminarne il movimento, e il nostro volontario, senza punto badare che l'arme era carica, si mise a mostrar loro come si faceva a maneggiarla e a far sì che guizzassero ad una ad una fuori della canna le sei palle. Caso volle che, nonostante le precauzioni che sogliono aversi da tutti nel maneggiare armi cariche, il revolver scattò e un proiettile andò a colpir nel cuore un povero ragazzo di 13 anni, che giacque morto, senza aver neanche il tempo di gridare: «Dio aiutami!». Era quello appunto il figliuolo unico di una povera vedova, la quale, udito il triste caso, parve voler seguire il suo diletto nell'altro mondo, giacché a stento le donne del vicinato la tennero che non balzasse giù dalla finestra, o non si facesse mortali offese colla coltella o con altre armi, che la disperazione le somministrava. Il colonnello Malenchini, udito ciò che era occorso, si turbò tutto; e buono e tenero di cuore come fu e come tutti lo conobbero, se ne afflisse tanto, che si sarebbe detto esser morto il figliuol suo. Il degno uomo rimproverò acerbamente il capitano, proprietario del revolver, sebbene non avesse colpa alcuna della sbadataggine dell'ordinanza e delle tristi conseguenze che ne nacquero, e si mostrasse, non men di lui, dolente dell'accaduto. Poi, dato fine ai rimproveri e al compianto, disse a noi che cercavamo di calmarlo: – Andiamo adesso da quella povera mamma e vediamo di consolarla, ché non maledica l'ora e il momento in cui siamo venuti in Sicilia. Lo seguimmo in una modesta casetta, dove alcune donne del vicinato ci introdussero nell'abitazione della vedova. Trovammo in una piccola, ma pulita stanzetta, una donna ancor giovane, di belle fattezze e con due occhi pieni di fuoco, la quale si struggeva in lacrime, ed aveva tra' capelli le mani. Al rumore de' nostri speroni e delle nostre sciabole, la poveretta si volse e ci salutò con un cenno, e parve voler rivolgerci la parola, ma la sua voce fu soffocata dai singhiozzi. Vincenzo Malenchini cominciò allora a confortarla, dolendosi della disgrazia, che per opera di un compagno nostro avea voluto cagionare tanta pena; poi, tratta di tasca una buona somma in tanti napoleoni d'oro, la pregò che l'accettasse, non come farmaco a un dolore che non comportava medicina, ma come un affettuoso ricordo che le tributavano, insieme al loro sincero rammarico, i soldati del secondo reggimento della brigata Medici. Queste parole sembrarono aver restituita la favella alla misera donna, la quale, asciugati gli occhi, si drizzò fieramente dinanzi a noi, ed esclamò: – A me dell'oro?... Dell'oro a me? Oh Dio benedetto! Se pigliassi quest'oro, le mie mani si tingerebbero del sangue del figlio mio... Tenetevi quelle monete, signore, e giacché la vostra voce mi dice che siete tanto buono, io vi giuro che il povero figliuolo mio lo consacro alla patria, e faccio conto che sia morto combattendo, al fianco di Garibaldi!... Dopo queste parole, che furono per lei uno sforzo supremo, la disgraziata madre stralunò gli occhi e vacillò, e sarebbe caduta a terra, se non l'avessimo raccolta per tempo, nelle nostre braccia. Malenchini piangeva, e noi piangemmo con lui. Appena usciti da quella casa del dolore, il colonnello si recò dal sindaco e gli consegnò cinquecento lire, perché cercasse di indurre la vedova ad accettarle. Io, per quanto ventisei anni sieno scorsi, non ho dimenticato ancora la madre siciliana, e l'ho tuttora dinanzi agli occhi e la vedo piangere e la ascolto dire in sua favella: «Farò conto che il figliuolo mio sia morto per la patria, accanto a Garibaldi!». | << | < | > | >> |Pagina 253Fin da quando concepì l'idea della mirabile sua impresa della liberazione del mezzodì d'Italia, Garibaldi ebbe sempre fisso il pensiero della necessità di aiutarsi col dar faccende al papa, sia per impedire a questi di dar man forte al Borbone, sia per assalire vantaggiosamente anche alle spalle, per la parte de' domini pontifici, il nemico che con tanta audacia andava assalendo di fronte. Così, non appena sbarcato nel golfo di Talamone, lanciò oltre i confini dello Stato della Chiesa la banda dello Zambianchi, sperando che la poca favilla potesse suscitare qualche gran fiamma, e che i popoli insofferenti del turpe gioco de' preti salutassero colle armi in mano il vessillo liberatore, che si spiegava in suo nome. Il successo non coronò quell'impresa, e io non dirò le ragioni per cui fallì, essendo facile ad ognuno il comprendere come uno scarso manipolo, guidato da un capo di poca o punta riputazione ed inetto per soprappiù, fosse a tutt'altro buono, che ad incoraggiare le popolazioni, atterrite dal recente esempio di Perugia debellata, ed incerte se le camicie rosse dello Zambianchi fossero veramente l'avanguardia dell'esercito di re Vittorio. Divenuto padrone di Palermo, ed allargato il teatro della guerra, Garibaldi tornò subito nella sua idea di far novità negli Stati del papa; e questa volta gli parve tempo non di tentarne i confini con un manipolo, ma sì d'assalirli con un corpo d'esercito, acciò i popoli non titubassero nel chiarirsi amici ai liberatori. Un proposito siffatto piaceva grandemente anche a Giuseppe Mazzini, il quale fu sollecito ad offrirsi a Garibaldi come aiutatore nella impresa. Garibaldi accettò la cooperazione di Mazzini, senza pensare lì per lì al rischio in cui si metteva col pigliare a chius'occhi un tal cooperatore: e dette incarico a Giovanni Nicotera di recarsi subito (come già narrai) in Toscana, per mettere insieme una legione di volontari. Mentre il Nicotera facea gente in Toscana, altri corpi di volontari si formavano altrove, sotto il comando supremo del conte Luigi Pianciani, il quale, facendo calcolo d'avere sotto i suoi ordini ottomila uomini e anche più, si disponeva ad assalire lo Stato del papa, per terra e per mare. Il governo sardo lasciò, per qualche tempo, che tranquillamente si compissero quei preparativi, e in Toscana il barone Ricasoli li aiutò con danaro e con armi, mentre credette che la legione del Nicotera fosse destinata a crescere in Sicilia l'esercito del dittatore, e non sospettò, nemmen per ombra, che si trattasse dell'invasione degli Stati della Chiesa, e che a parte dell'impresa fosse il Mazzini. Ma quando gli fu palese il vero scopo dell'affaccendarsi del Pianciani e del Nicotera, quando si seppe che Giuseppe Mazzini era l'anima di quell'impresa, il governo di re Vittorio si pose subito sulle guardie, e intimò ai due comandanti di condurre immediatamente le loro forze in Sicilia, o di scioglierle. Mentre, dunque, noi ci affaticavamo inutilmente per passare lo stretto di Messina, e mentre Missori e Musolino, che con pochi uomini l'avean passato, si trovavano alle strette e lottavano con audacia contro difficoltà d'ogni sorta, Garibaldi seppe che alquante migliaia di volontari erano riunite in Sardegna, e gli parve buono l'averle subito seco in Sicilia, e compiere col loro aiuto ciò che, sino a quel punto, aveva indarno tentato. Per tale scopo, partì segretamente e di nottetempo, senza curarsi del rischio che correva, nel pigliar il mare in luogo tanto vegliato dalle navi borboniche; e quando ci accorgemmo della sua assenza, egli era già nel golfo degli Aranci. Ormai l'impresa contro lo Stato del papa dovea considerarsi fallita, e Garibaldi non era uomo da volersi ostinare in una faccenda di quella specie, mentre con gli aiutanti che andava a procacciarsi in Sardegna, era certo di passare a viva forza sul continente, e di cominciare con ottimi auspici un'ardita marcia su Napoli. Gli amici di Mazzini, e Mazzini stesso, non la pensavano come lui; costoro avrebbero voluto tentare ad ogni costo l'impresa che vagheggiavano, e che sarebbe parsa immaginata ed eseguita dal partito loro, senza curarsi punto del divieto del governo di Torino e degli ordini severi che aveva il Persano, di opporsi a qualunque tentativo di sbarco sulle coste pontificie. I mazziniani volevano aver la loro parte, chiara e netta, nella liberazione del Mezzogiorno della penisola, e volevano pigliarsi una rivincita, entrando nel territorio della Chiesa con una bandiera diversa da quella spiegata da Garibaldi nel golfo di Talamone. L'autorità del gran capitano rifulse splendidamente nel vincere quelle velleità inopportune dei caporioni della fallita impresa; e i giovani volontari lo seguirono in Sicilia, affermando che avrebbero imitato i fratelli dell'esercito del dittatore, senza pigliare ombra della croce sabauda. Ma seguitiamo il racconto. Lo sbarco in Calabria non fu meno audace, né men fortunato dello sbarco a Marsala. Il giorno 19 d'agosto salì Garibaldi sul piroscafo Franklin, comandato dal capitano Origoni, amicissimo suo, anzi il solo dopo Medici, col quale si trattasse col tu. L'Origoni era stato lungamente con lui in America, e passava per marinaio abile ed arrisicato. Noi solevamo chiamarlo l' ammiraglio, giacché nel quartier generale del dittatore era quegli che con maggiore autorità rappresentava la marineria. Del resto, era uomo alla buona e senz'ombra di pretensione; e ai modi, alle abitudini, alla franchezza, talvolta rozza, si sarebbe detto esser fratello del nostro povero Montanari. Il Franklin era lo stesso legno che i borbonici avevano catturato nelle acque di Piombino, mentre recava in Sicilia il battaglione del colonnello Clemente Corte, e dovea tenersi in conto d'una delle migliori navi da trasporto della nostra piccola flotta. Vi furono caricati sopra mille e duegento uomini cioè qualcuno di più di quanti ne potesse portare comodamente. Garibaldi, appena salito sul Franklin, pigliò il comando e cominciò a dare ordini, facendo segnale al Torino di seguire la sua rotta. Il Torino era un bellissimo e grosso legno, che per la prima volta appariva nella gloriosa baraonda nostra, e che seppe ricevere a bordo quasi tremila volontari. Lo comandava Nino Bixio, che impaziente di più lunghi riposi, e dispettoso di non aver potuto dividere con Medici gli allori di Milazzo, sentiva prudersi le mani. Verso sera, i due legni presero il largo con ciel sereno e mare placidissimo. I volontari, sebbene stretti come le acciughe, e nuovi, per la più parte, ai viaggi marittimi, cantavano a piena gola ed erano pieni di voglia di vedere in faccia il nemico. Parecchi tra gli ufficiali di Bixio, che s'eran trovati allo sbarco di Marsala, si chiamavano contentissimi di ripetere la bella prova; e Bixio stesso si riputava superbo di comandare, anche questa volta, uno dei legni, in una spedizione tanto piena di pericoli e promettitrice di tanta gloria. Venuta la notte, cessarono i canti, e il dittatore ordinò tutte le cautele che si volevano, acciò i due vapori non dessero in occhio agli incrociatori napoletani, la cui vigilanza non era da mettersi in dubbio, sapendosi ormai per esperienza come nelle ore notturne vegliassero di continuo lo stretto, quant'era lungo ed era largo. Erano circa le due del mattino, quando la spedizione fu vicina a Melito, luogo fissato per l'approdo, e le cose procedevano nel miglior modo desiderabile, quando il caso maledetto volle che Bixio, colla solita sua furia, spingesse innanzi a tutto vapore il Torino, e sorpassato il Franklin, lo facesse dare in secco in un basso fondo. Per buona sorte, il basso fondo non era molto distante dalla spiaggia, e il mare era sempre calmo, e sereno era il cielo, e fu facile il mettere in mare le lance e cominciare in fretta a sbarcar la gente. Garibaldi, accortosi subito di quel nuovo malestro di Bixio gridò: – E due! Anche a Marsala accadde lo stesso! Ma come e' non fu mai uomo da perdersi in rammarichi volse tosto il Franklin accanto al Torino, e dato ordine che questi si alleggerisse il più possibile, si preparò a mettere in opera tutti gli argomenti che erano del caso per ritornarlo a galla. Due ore ci vollero perché il pericolante legno fosse scaricato della gente e del bagaglio; ma per quanto Garibaldi e Origoni almanaccassero e facessero, il Torino non dava segno di sollevarsi sull'acqua, perché non c'era verso di muoverlo dalla sabbia, nella quale avea fitta, a mo' di vomere, la prua. Garibaldi non sapea risolversi ad abbandonare quel bel legno, tanto per lui prezioso, e bene immaginava che a giorno chiaro sarebbe impossibile nasconderlo alla crociera borbonica; per la qualcosa, veduto che tutti gli argomenti che avea tra mano riescivano inutili, decise andarsene col Franklin al Faro a cercare aiuto. Salito dunque dalla lancia su cui avea diretto il salvataggio, sul Franklin, lo fece correre velocemente verso lo stretto; ma appena girato il Capo d'Armi, si trovò preso tra i due legni borbonici, l' Aquila e la Fulminante, che navigavano a breve distanza tra l'isola e la terra ferma. Garibaldi, ritto sulla passerella del Franklin, in quel terribile momento, non disse una parola, ma col cannocchiale in mano contemplava tranquillo i due minacciosi vicini, mentre tutti gli sguardi eran fissi in lui, cercando di cogliere su quel volto un segno di trepidazione o di speranza. Non s'udiva una voce; tutta quella gente accalcata sul ponte, sembrava attonita per la terribilità dell'impreveduto incontro, e non sperava salute se non dalla fortuna dell'uomo fatale, che sembrava superiore a tutti i rischi e a tutti i maligni scherzi del caso. Il Franklin era privo d'artiglierie, sopraccarico di gente disavvezza al mare; mentre i due legni borbonici apparivano bene armati e adattatissimi al combattere. Qual partito poteva scegliere ed avrebbe scelto Garibaldi? Tutti lo dimandavano; nessuno era buono ad indovinarlo. I momenti volavano, e la distanza che separava il Franklin dai due pericolosi vicini, diminuiva a vista d'occhio. Origoni guardava anche egli il generale, e pareva impaziente di ricevere da lui qualche ordine. Molti occhi si staccavano, di quando in quando, di sulla maschia e pittoresca figura del generale, per guardare i fianchi delle due navi nemiche, che apparivano muniti di grosse artiglierie... Ad un tratto, Garibaldi gridò: – Origoni, alzate bandiera americana. L'ordine fu eseguito in un baleno. Tosto la Fulminante, dopo molti giri e rigiri, simili a quelli che fa per aria il falco, prima di piombare sulla sua preda, si pose sopravento al Franklin, mentre l' Aquila gli si poneva sottovento. Dopo poco, il portavoce mandò dalla Fulminante le parole che seguono: – Di dove venite? Origoni, impugnato, a sua volta, il portavoce, rispose in lingua inglese: – Non vi capisco. Allora, la Fulminante pose in mare una lancia, e la lancia venne vogando verso il Franklin. Una voce rinnovò di sulla lancia la domanda: – Di dove venite? Questa volta, Origoni aveva un buon pretesto, non solo per non capire, ma anche per non udire, giacché il Franklin, che pochi momenti prima s'era messo in panna, avea cominciato a fuggir via velocemente, per ordine di Garibaldi, e il rumore della macchina e il gorgoglio delle onde non lasciavano giungere all'orecchio ben distinti i suoni del portavoce. Per verità, in quel momento fu miracolo che qualche cannonata non volasse da' fianchi della Fulminante, ma la bandiera americana seppe fare quel miracolo. Si noti che pochi mesi prima, quando il Franklin fu catturato nelle acque di Piombino, la cattura fu fatta dalla stessa Fulminante. Deve, dunque, credersi che il capitano di questo legno non ardisse ripetere il giuoco, e non credesse prudenza il cercar nuovamente lana da filare dai fieri repubblicani dell'America del Nord, i quali non perdonarono mai che la loro stellata bandiera patisse sfregio per opera dei tiranni. Comunque andasse la faccenda, è certo che le due navi borboniche lasciarono il Franklin continuare la sua corsa e virarono di bordo. Ma appena esse ebbero girato il Capo d'Armi, videro il Torino, lo riconobbero per un legno nemico, e si dettero a cannoneggiarlo. Quando poi il capitano del Fulminante s'accorse che cannoneggiava una nave abbandonata, messe in mare le lance, mandò gente a bordo, che pigliasse quel che c'era da prendere, e spiegate le vele e impeciatele ben bene, vi appiccasse il fuoco. Tosto messo fuoco al Torino il valoroso capitano della Fulminante, ritirata a bordo la sua gente, cominciò a sfolgorare bravamente coi cannoni l'acceso legno, e non ristette dalla sua brutale e ridicola battaglia, finché la magnifica nave, rotta e sfasciata, non sprofondò nei flutti. Garibaldi fu spettatore lontano di quell'incendio e di quella batteria furibonda, e tanto gli increbbe il barbaro scempio, che accennando la fregata napoletana, esclamò: – Ecco le loro battaglie! Mentre il Torino bruciava, ci fu chi disse a Garibaldi: – Datevi pace, generale: a Marsala perdeste un vapore e guadagnaste la Sicilia; oggi perdete un altro vapore, e guadagnate Napoli. Garibaldi tenne queste parole per augurio lietissimo, e veduto che le navi borboniche, intente a distruggere la facile loro preda, più non si occupavano del Franklin, fe' tosto virar di bordo, e dopo alquanto cammino, gittò il naviglio sulla costa di Calabria, e prese terra colla sua gente. Le cose avean proceduto a seconda; la perdita del Torino era per lui dolorosa, ma non pregiudicava punto il buon successo dell'audace impresa, per la quale la sua bandiera liberatrice sventolava sulla terraferma, con una scorta di qualche migliaio di uomini.
Le forze nemiche erano numerose due volte tanto, ma Garibaldi non
contava i nemici: era certo che i popoli delle Calabrie non avrebbero tardato ad
insorgere.
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