Copertina
Autore Albert-László Barabási
Titolo Lampi
SottotitoloLa trama nascosta che guida la nostra vita
EdizioneEinaudi, Torino, 2011, Saggi 920 , pag. 326, ill., cop.ril.sov., dim. 15,5x21,5x2,5 cm , Isbn 978-88-06-19518-2
OriginaleThe Hidden Pattern Behind Everything We Do [2010]
TraduttoreSimonetta Frediani
LettoreCorrado Leonardo, 2012
Classe storia medievale , matematica , informatica: reti , scienze sociali , informatica: sociologia
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Indice


VII Nota alla traduzione italiana

    Lampi

  3 I.      Le migliori guardie del corpo sul mercato
 17 II.     L'elezione del papa a Roma
 23 III.    Il mistero del moto casuale
 39 IV.     Duello a Belgrado
 45 V.      Il futuro non si può ancora indagare
 57 VI.     Profezia di morte
 63 VII.    Previsione o profezia
 73 VIII.   Finalmente una crociata
 81 IX.     Violenza, casuale o meno
 95 X.      Un massacro imprevisto
103 XI.     Conflitti mortali e leggi di potenza
117 XII.    La battaglia di Nagylak
125 XIII.   L'origine dei lampi
137 XIV.    Ai crocifissi non capitano incidenti!
141 XV.     L'uomo che imparò a nuotare leggendo
155 XVI.    Un'indagine
163 XVII.   Sulle tracce degli albatri
175 XVIII.  «Canaglia!»
181 XIX.    Gli schemi della mobilità umana
193 XX.     Rivoluzione, subito!
201 XXI.    Prevedibilmente imprevedibile
219 XXII.   Un'azione diversiva in Transilvania
227 XXIII.  La verità su LifeLinear
241 XXIV.   Szekler contro szekler
245 XXV.    Ammalarsi non è una priorità
261 XXVI.   Le battaglie finali
267 XXVII.  Il terzo orecchio
281 XXVIII. Di carne e ossa

291 Note finali
311 Illustrazioni
313 Ringraziamenti
317 Indice analitico


 

 

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Pagina 3

Capitolo primo

Le migliori guardie del corpo sul mercato


Se tutto va bene, prima che abbiate finito di leggere questo libro vi avrò convinto che, nonostante tutta la spontaneità che potete mostrare, siete molto piú prevedibili di quanto sareste disposti ad ammettere. Non è affatto una questione personale: prevedere me, come pure tutte le persone con cui vivo e lavoro, è altrettanto facile. Di fatto, gli algoritmi ideati nel mio laboratorio per scoprire quanto siamo prevedibili sono stati provati su milioni di individui e non hanno funzionato in un solo caso. Il nome di quest'uomo è Hasan. Hasan Elahi, per la precisione.


Ad attirare l'attenzione di Hasan, che stava osservando il gruppo di una cinquantina di stranieri trattenuti dagli Ins, gli Immigration and Naturalization Services, all'aeroporto internazionale di Detroit, fu l'inquietudine che aleggiava nell'aria. «Si capiva bene che era il loro primo giorno negli Stati Uniti e la paura era visibile in tutti, - ricorda Hasan. - Ero proprio confuso e mi domandavo: che ci faccio io qui?»

Con un passaporto spesso come un vocabolario tascabile - per far posto a tutti i visti e i timbri collezionati nei suoi viaggi era stato ampliato tre volte -, Hasan non era certo uno sprovveduto in materia di immigrazione. Una delle cose che sapeva era che i cittadini americani non finiscono in una fila speciale quando tornano a casa. Di solito, per lo meno, non capitava. Piú perplesso che impaurito, Hasan cercò di avviare una conversazione con le guardie, ma si accorse subito che i due erano altrettanto confusi. Alla fine si avvicinò un tizio con un completo scuro che, evitando le presentazioni, gli disse in tono prosaico: «Mi aspettavo che fosse piú vecchio».

L'uomo era sulla cinquantina; Hasan pensò che il suo saluto fosse motivato dall'imbarazzo e, per cercare di allentare la tensione, provò a rispondere in modo spiritoso: «Mi dispiace, cerco di invecchiare piú alla svelta possibile».

Non funzionò - il momento e il luogo non avrebbero favorito alcun tipo di umorismo.

Hasan decise allora di venire subito al dunque: «Mi può spiegare che cosa succede?»

L'uomo lo guardò, esitò come se cercasse di trovare le parole giuste, poi scrollò le spalle e con un tono che non mostrava la minima emozione rispose: «Veramente è lei che deve dare qualche spiegazione».

Era il 19 giugno 2002 e Hasan Elahi, un artista trentenne, creatore di installazioni multimediali, stava tornando a casa dopo un viaggio estenuante di sei settimane che era iniziato con un volo da Tampa, in Florida, a Detroit, era proseguito saltando da li ad Amsterdam, a Lisbona e a Parigi, fino ad atterrare a Dakar, in Senegal. Dieci giorni più tardi aveva viaggiato per quarantott'ore in autobus fino a Bamako, in Mali, e da li era passato in Costa d'Avorio. Dopo aver visitato la chiesa piú grande dell'Africa, costruita per contenere trecentomila fedeli in uno stato in cui vivono soltanto quarantamila cristiani, il 28 maggio Hasan era arrivato ad Abidjan, importante porto sulla costa meridionale del paese. A quel punto era proprio stanco. «L'Africa occidentale si fa sentire dopo un po'. Mette alla prova la tua pazienza», ricorda Hasan; cosí dopo che il soffitto della sua stanza d'albergo era crollato durante una tempesta, decise che era ora di ripartire. Prese un aereo per Dakar e il giorno dopo finí di nuovo su un autobus, con cui raggiunse Bissau, la capitale della Guinea-Bissau. Varcò altre due frontiere e prima di tornare in Senegal portò in Gambia la sua chioma bionda ossigenata con qualche striscia rossa.

Gli ci vollero altri sei giorni per completare la sua installazione per la Biennale di Dakar, dopo di che tornò a Parigi, prese un treno per Strasburgo, attraversò il confine tedesco per visitare un museo famoso per la collezione di opere digitali, a Karlsruhe, fece un salto alla Documenta di Kassel e volò da Hannover a Faro, una località turistica sulla punta meridionale del Portogallo. Dopo avere trascorso due giorni sulla spiaggia, passò la notte all'aeroporto di Lisbona e la mattina presto prese un volo per gli Stati Uniti. A quel punto, quindi, un po' puzzolente e con i dreadlock rossi a raggiera, in una stanzetta per gli interrogatori a Detroit, nel Michigan, Hasan cercò di trovare una risposta ragionevole alla domanda ragionevole che l'uomo vestito di grigio gli aveva appena posto: «Dove è stato?»

Da dove iniziare? Decise di semplificare: «Arrivo da Amsterdam».

«E prima dov'era stato?»

«A Lisbona».

«E prima ancora?»

«A Faro, al mare».

Passo dopo passo, Hasan ripercorse le tappe del suo viaggio, fino all'arrivo a Dakar.

«Dove si trova Dakar?» chiese l'uomo. Hasan guardò dall'altra parte del tavolo in finto legno a forma di L e capí che non era un test né uno scherzo - l'uomo che lo interrogava non sapeva veramente dove fosse Dakar.

«Beh, continuo a non sapere che cosa sta succedendo, ma presumo che abbia qualcosa a che fare con il terrorismo e che io sia una specie di sospetto e che questo tizio sia un agente del governo o delle forze dell'ordine, - ricorda di aver pensato Hasan. - Naturalmente non ti puoi arrabbiare con uno cosí e non puoi dirgli che è un idiota se non sa dove si trova la città piú grande dell'Africa occidentale. Anche se vorresti proprio dirglielo, non puoi e basta. Devi restare calmo e agire in modo professionale».

Hasan si mise quindi a tracciare sul tavolo con la punta del dito un'immaginaria cartina dell'Africa, indicò l'invisibile angolo occidentale del continente e spiegò l'importanza di Dakar come stazione di transito per gli Stati Uniti ai tempi della tratta degli schiavi.

La domanda successiva fu: «Ci sono musulmani laggiú?»

«Sí - sono circa il 95 per cento della popolazione», rispose Hasan, con un tono solo lievemente ironico.

«Chi frequenta in quei posti?»

«Altri artisti - gente che lavora nel mondo dell'arte, scrittori, giornalisti», rispose Hasan e poi spiegò con pazienza i dettagli del mondo dell'arte.

«Lei che genere di artista è?»

Neanche questa era una domanda facile. Hasan è un artista, ma le sue non sono opere che uno può appendere su una parete del salotto. I suoi pezzi non si curano granché dell'estetica, ma sono densi di idee: rappresentano commenti arguti e, credo, sarcastici sul nostro mondo. Consideriamo, per esempio, l'installazione realizzata a Dakar, una torre di comunicazione di quattro metri e mezzo fatta di canne di bambú, con una lunga antenna Tv in cima, accompagnata da quattro luci al neon che inondano la stanza di luce blu e da un altoparlante che emette fischi casuali. Per i profani, nulla di tutto ciò ha un senso. Ma ciascun elemento ha un suo scopo.

Al suo arrivo in Senegal, la prima cosa che colpi Hasan fu il blu intenso di ogni cosa. «Specie se sei in riva all'oceano, l'acqua blu e il cielo blu sono assolutamente meravigliosi», ricorda - e questa è l'origine dei neon blu dell'installazione. L'altra cosa che notò sono i fischi acuti che i senegalesi hanno l'abitudine di lanciare per chiamarsi. Inspiegabilmente, una persona sa chi è che la sta chiamando con un fischio anche se si trova dall'altra parte dell'isolato. I suoni registrati erano quindi essenziali, per saggiare come avrebbero reagito i senegalesi a un'opera d'arte che lanciava fischi.

Hasan ride ancora quando ricorda la richiesta di far luce sulla sua arte. «Mi è difficile spiegarla ad altri artisti, - ricorda molto divertito, - molto meno agli agenti di polizia». Dato che l'opera esposta in Senegal poteva ricordare una scultura, disse semplicemente di essere uno scultore, senza aggiungere altro, certo che parlare di installazioni multimediali avrebbe soltanto complicato ulteriormente la situazione.

Poi, inaspettatamente, arrivò un'altra domanda: «Lei ha un deposito vicino all'università?»

Hasan annui. Ne aveva affittato uno dopo essersi trasferito a Tampa per insegnare all'Università della Florida del Sud.

«Che cosa ci tiene?»

«Vestiti invernali che in Florida non mi servono, qualche mobile che non entra nel mio minuscolo appartamento, oggetti vari comprati da gente che traslocava - sa, ho la mania di collezionare oggetti inutili - insomma, cianfrusaglie assortite».

«Qualche esplosivo?» chiese a quel punto l'agente, con fare un po' confuso e sospettoso.

«No, sono certo che non ci sono esplosivi nel mio deposito», rispose Hasan.

E con ciò, domanda dopo domanda, l'agente svelò la ragione per cui lo trattenevano. Qualche settimana prima l'FBI di Tampa aveva ricevuto una soffiata: un uomo che stava ammassando esplosivi in un deposito aveva preso un aereo il 12 settembre 2001. Il nome del sospetto era Hasan Elahi.

Non posso dimostrare chi è stato, ma sono quasi certo che furono i proprietari del deposito. Li conoscevo bene; mi capitava di passare ore a parlare con loro. Una volta al mese, quando andavo a pagare l'affitto, mi fermavo a casa loro a chiacchierare - era una coppia di anziani che si erano trasferiti a Tampa dal Kentucky per avviare un'attività commerciale.

Dobbiamo ricordarci lo stato psicologico della nazione. Era l'estate del 2002 e il messaggio era: «Se vedi qualcosa, dillo! Adesso è il momento di segnalarlo, non quando la notizia sarà in prima pagina». Hanno visto un tizio scuro di pelle, con un nome strano e si sono detti: «Che razza di nome è questo? Sarà di certo arabo. Avrà sicuramente dell'esplosivo!»

Quei due non sono malvagi, non sono persone cattive, non avevano nulla contro di me personalmente. Ma era il meglio che potessero fare, tutto qui.

Occorrono meno di dieci minuti per capire che Hasan, nonostante il nome dal suono arabo, non si è diplomato in un campo di addestramento di al-Qaida. Nato in Bangladesh, Hasan parla con un vago accento newyorkese, che gli è rimasto dopo l'infanzia trascorsa a Brooklyn, dove si trasferí all'età di sette anni. Sí, è vero, ha la pelle olivastra, ma i suoi capelli decolorati non sono certo un segno che rivela l'appartenenza alla jihad. È un tipico immigrato di seconda generazione, che parla americano, vive come un americano e si sente americano. L'agente dell'FBI non ci mise molto a capirlo e lo lasciò salire sul volo per Tampa.

In un mondo normale, la faccenda sarebbe finita lí. Ma il mondo non era normale dopo l'11 settembre, non se ti chiamavi Hasan e avevi la pelle scura, neanche se fossi stato l'unico a non possedere esplosivi in tutta la Florida. E cosí Hasan passò i cinque mesi successivi a entrare e uscire dagli uffici dell'FBI a Tampa, dove veniva interrogato ogni volta per ore e ore.

«In pratica, raccontai tutti i dettagli di ogni aspetto della mia vita; non nascosi nulla, - ricorda Hasan senza la minima amarezza. - La realtà è che quando sei faccia a faccia con chi ha potere di vita e di morte su di te, non ti comporti come un essere razionale. Pensi di fare delle cose, ma non osi agire di conseguenza».

Fu solo cinque mesi piú tardi, subito dopo il giorno del Ringraziamento, che uno degli agenti dell'FBI, un omone con i capelli tagliati cortissimi, gli disse che era tutto finito, ed era libero di andarsene. Hasan rimase scioccato. Tutto qui? È cosí? Finisce tutto qui e ora, come se negli ultimi cinque mesi non fosse successo nulla? Guardò l'agente dell'FBI e disse: «Aspettate un momento, fra poco andrò all'estero. Che cosa succederà quando torno?»

«Dove va?»

«In Indonesia».

«Ah, stia attento; c'è stato un attacco terroristico laggiú», disse l'agente con aria preoccupata.

Hasan fu colto di sorpresa da questo bizzarro cambiamento. Considerando tutte le traversie passate, pensò che il tizio stesse scherzando. Ma l'agente sembrava sinceramente preoccupato. Decise quindi di parlare chiaro. «Senta, quel che temo di piú non è un incidente aereo o un edificio che salta in aria. La mia piú grande paura è che uno di voi, convinto razionalmente e visceralmente di fare la cosa giusta, mi porti via e che nessuno sappia né dove mi trovo né come tirarmi fuori da questo casino».

In quel periodo gli Stati Uniti avevano appena iniziato a rinchiudere a Guantánamo persone di ogni nazionalità e Hasan si rese conto che l'agente aveva capito che cosa intendeva dire e che la sua preoccupazione era reale. L'agente non disse nulla, ma l'espressione del volto, lo sguardo e l'atteggiamento esprimevano il suo pensiero: Sí, al giorno d'oggi capitano cose del genere e sono preoccupato per lei. Incoraggiato, Hasan insistette: «Basta che l'ultimo tizio non riceva l'ultimo rapporto interno e si ricomincia tutto da capo. Che cosa faccio ora?»

L'agente dell'FBI ci pensò per qualche secondo, poi prese il portafogli, ne estrasse un biglietto e glielo porse, dicendo: «Qui ci sono alcuni numeri di telefono, se finisce nei guai non esiti a chiamarci». Poi, dopo una piccola pausa, aggiunse: «Ce ne occuperemo immediatamente, arriveremo subito».

Hasan guardò il biglietto e poi l'agente. Un po' sollevato, disse: «Magnifico». Infine, con un pizzico di umorismo, aggiunse: «Wow! Ho le migliori guardie del corpo sul mercato».


I progressi tecnologici di cui godiamo oggi, dai computer ai cellulari, dai viaggi spaziali ai nuovi farmaci, si basano per la maggior parte su centinaia di anni di indagine scientifica guidata da un'incrollabile fede nella possibilità di comprendere, descrivere, quantificare, prevedere e alla fine controllare i fenomeni naturali. I benefici di questa convinzione, che in molti di noi scienziati rasenta la forma ossessiva, sono dappertutto intorno a noi. Abbiamo imparato a controllare il flusso di elettroni nei semiconduttori per costruire transistor e iPod; abbiamo decifrato le leggi che governano le onde radio per comunicare senza fili attraverso i cellulari; abbiamo compreso il ruolo delle sostanze chimiche nel nostro corpo per curare le malattie comuni; abbiamo scoperto le leggi di gravità, regalandoci in tal modo un biglietto per la Luna.

Purtroppo questa utilissima rivoluzione si è fermata ai cancelli esterni delle scienze naturali, senza mai raggiungere un settore che ciò nonostante è sempre piú soggetto a esami minuziosi: il comportamento degli individui e delle società umane. Quando si considerano le azioni degli esseri umani, la sequenza di eventi che osserviamo ogni giorno sembra misteriosa e confondente proprio come appariva il movimento delle stelle nel Quattrocento. In altri momenti, anche se siamo liberi di decidere, gran parte della nostra vita sembra procedere come un automa. La società passa da periodi di abbondanza a periodi di indigenza, dalla guerra alla pace e poi di nuovo alla guerra. Viene da domandarsi se gli esseri umani seguano leggi nascoste, leggi diverse da quelle che ci inventiamo noi stessi.

La storia di Hasan è un esempio significativo: il suo incontro con l'FBI fu un caso, oppure qualcosa di prevedibile dato il colore della sua pelle, il suo nome e (questo è il punto piú importante) il suo comportamento? La sua esperienza rientra nella categoria delle regole e delle conseguenze che sono accettabili in una società come la nostra? La coppia del Kentucky si comportò semplicemente come doveva, inserendosi alla perfezione nella rete complessa di patriottismo e paura che ha caratterizzato lo stato psicologico di tutto il mondo dopo l'11 settembre? Le nostre azioni sono governate da regole e meccanismi che nella loro semplicità potrebbero avere la stessa capacità predittiva della legge di gravitazione di Newton? Che il cielo non voglia, ma potremmo spingerci tanto in là da prevedere il comportamento umano?

Fino a poco tempo fa, la nostra sola risposta a tutte queste domande era: non si sa. Di conseguenza, oggi ne sappiamo di piú di Giove che del vicino di casa. Possiamo prevedere il percorso di un elettrone, possiamo attivare o disattivare un gene e possiamo persino mandare un robot su Marte, ma se ci chiedono di spiegare e prevedere le azioni dei nostri simili, i fenomeni che potremmo pensare di conoscere piú di ogni altra cosa, siamo persi.

La ragione è semplice: in passato non avevamo né i dati né gli strumenti necessari per esplorare le nostre azioni effettive. I batteri non si irritano se li esaminiamo al microscopio e la Luna non ci fa causa se vi facciamo atterrare un veicolo spaziale. Ma nessuno di noi vuole sottoporsi alle indagini invasive a cui sottoponiamo batteri e pianeti - con l'obiettivo di conoscere tutto di essi, in ogni circostanza.


Ispirato da un nuovo senso di sicurezza, Hasan stabili una nuova routine. Ogni volta che progettava un viaggio all'estero, chiamava il numero sul biglietto che gli aveva dato l'agente dell'FBI e comunicava i suoi piani di viaggio. «Non era mio dovere chiamarlo. Sceglievo di chiamarlo. Volevo che sapesse dove stavo andando, ecco cosa facevo, - spiega Hasan. - Non faccio nessun movimento inaspettato. Non voglio far scattare l'allarme rosso».

Le telefonate si trasformarono in e-mail e con il tempo Hasan iniziò a inviare fotografie dai luoghi visitati e brevi resoconti delle sue esperienze. Un po' alla volta l'omone con i capelli cortissimi smise di essere soltanto un agente delle forze dell'ordine per Hasan, che iniziò a pensarlo come il suo agente dell'FBI. E la sua «guardia del corpo» mantenne la promessa: Hasan partí e rientrò sempre senza essere piú molestato.

Un anno e mezzo dopo l'avventura a Detroit, nel gennaio 2004, dopo aver spedito all'FBI decine e decine di itinerari di viaggio e centinaia di foto, Hasan ebbe un'illuminazione. Perché condivideva queste informazioni soltanto con l'FBI? Perché non condividerle con chiunque?

«Che succede se qualcuno commette uno sbaglio, se qualcosa va storto? - si domandò. - Queste persone conoscono molte cose di me, ma quanto sono completi i loro dati? Ci sarà qualcosa che gli è sfuggito!»

«Fu allora che iniziai a creare un mio database parallelo, cercando di ri-creare il file dell'FBI su di me. Non solo di ri-crearlo, ma di ricostruirlo con un livello di precisione molto piú alto».

Iniziò a inserire ogni foto, con le sue coordinate del momento, in un sito Web di sua creazione. La routine si trasformò rapidamente in un'ossessione, che continua ancora oggi. In effetti, visitando il sito www.trackingtransience.net, si vedono una cartina e una freccia rossa lampeggiante che indica dove si trova attualmente Hasan. Al di sopra, un'immagine dà un'idea dell'ambiente circostante, spesso stanze d'albergo, bar e aeroporti. Al di sotto della cartina vi è una serie di icone che permettono di accedere a una raccolta di circa trentamila immagini e di innumerevoli informazioni relative ai luoghi visitati, dalle fotografie dei pasti consumati e degli orinatoi di cui si è servito alla lista completa dei numeri dei voli presi e a un rendiconto accurato di tutte le sue spese.

Rendendo pubblici tutti i suoi dati, Hasan ha ribaltato la sorveglianza, trasformando l'osservato nell'osservatore. Ha iniziato a essere il sospetto e l'FBI, il sospetto che seguiva se stesso per conto dell'FBI. Con ciò i concetti basilari di privacy hanno smesso di applicarsi al suo caso, trasformandolo in un campione unico di cui possiamo sapere quasi tutto. La sua vita è diventata il suo piú grande progetto artistico, che ha una certa infinitezza, e alcuni pezzetti di questo progetto sono ora in mostra nei musei, nelle esposizioni e nelle gallerie di tutto il mondo.

Anche se la sua arte ha una dimensione casuale, vi è qualcosa che Hasan non avrebbe potuto intuire percorrendo questa strada. Registrando e rendendo pubblici i luoghi che visitava e le sue attività, Hasan ha ammassato in tempo reale informazioni incredibilmente dettagliate su uno dei settori piú trascurati dell'indagine scientifica, ovvero, ironicamente, su se stesso, Hasan Elahi.


Hasan non è completamente solo. Una decina d'anni fa Gordon Bell, ricercatore della Microsoft Research, iniziò a portare sempre con sé una macchina fotografica digitale che scattava automaticamente una foto a ogni persona che gli stava davanti e un registratore che catturava un ampio spettro dei suoni in cui era immerso. Bell conserva anche un'impronta digitale di quasi tutto ciò che tocca on line e off line, contribuendo a un archivio che negli ultimi dieci anni è cresciuto fino a contenere piú di centomila e-mail, decine di migliaia di fotografie, le registrazioni di tutte le telefonate che ha fatto, quasi un migliaio di pagine di documenti sanitari, tutti i libri della sua biblioteca e persino immagini delle etichette dei vini che ha assaggiato.

Da citare a questo proposito è anche il caso di Deb Roy, un informatico del Media Lab del MIT che prima della nascita del figlio ha installato in casa sua undici videocamere e quattordici microfoni. Le registrazioni vengono trasferite in modo continuo nel seminterrato e salvate in un insieme di dischi da un terabyte. Da quando è stato installato il sistema, ogni pianto e ogni risolino del bambino, ogni cambio di pannolini, ogni chiacchiera e ogni battibecco tra Deb e la moglie sono stati immagazzinati in piú di 250000 ore di videoregistrazione.

Per tutti noi che non abbiamo l'impegno ossessivo di Elahi, Bell e Roy né le loro risorse sono in azione forze piú grandi: una sorveglianza segreta ma sempre piú dettagliata a cui siamo tutti sottoposti. In verità, oggi quasi tutto ciò che facciamo lascia briciole digitali in qualche database. Le nostre e-mail sono conservate nei file di registro del nostro provider; le informazioni sulle nostre conversazioni telefoniche, con l'indicazione della data e dell'ora, stanno nei grandi hard disk della nostra azienda telefonica; quando, dove e che cosa compriamo, le nostre preferenze e la nostra capacità di pagare sono catalogati dalla società che ha emesso la nostra carta di credito; tutte le nostre pagine Web, i profili su MySpace e su Facebook e i blog sono conservati in numerosi server e tutti i dati sono incrociati; le informazioni su dove ci troviamo in ogni momento sono a disposizione del nostro operatore di telefonia mobile; il nostro volto e le nostre fattezze sono ricordati da innumerevoli telecamere di sorveglianza installate dappertutto, dai centri commerciali agli angoli delle strade. Anche se spesso decidiamo di non pensarci, la verità è che la nostra vita, in una risoluzione minuscola, può essere ricostruita dai pezzetti presenti in questi database che crescono come funghi.

Certo, l'esistenza stessa di queste registrazioni solleva questioni enormi legate alla privacy, un problema di estrema importanza. Ma crea anche un'opportunità storica, offrendo per la prima volta dati oggettivi con un livello di dettagli senza precedenti sul comportamento non di un singolo, ma di milioni di individui. Negli ultimi anni questi database sono finiti in laboratori di ricerca di vario genere, dove informatici, fisici, matematici, sociologi, psicologi ed economisti hanno potuto analizzarli con l'aiuto di potenti computer e di una vasta schiera di nuove tecnologie. Le conclusioni sono mozzafiato: i dati dimostrano in modo convincente che la maggior parte delle nostre azioni è guidata da leggi, schemi e meccanismi che in quanto a riproducibilità e capacità predittiva uguagliano quelli individuati nelle scienze naturali. Non si tratta di scoperte confinate all'ambiente di sperimentazione controllato della scienza: certi schemi e certe leggi valgono già miliardi di dollari, come illustra la capitalizzazione di mercato di Google, Yahoo! e altre aziende il cui modello d'impresa si basa sulla mappatura del comportamento umano. Per di piú sono scoperte che hanno ribaltato il mondo: in passato, chi voleva capire che cosa fanno gli esseri umani e perché lo fanno diventava uno psicologo tradizionale, oggi può darsi che innanzitutto voglia laurearsi in informatica.

Con ciò siamo arrivati all'obiettivo fondamentale di questo libro: mostrare come la nostra nudità di fronte alla crescente diffusione delle tecnologie digitali crei un immenso laboratorio di ricerca che supera per dimensioni, complessità e dettaglio tutto ciò che la scienza ha incontrato finora. Seguendo le tracce di queste scoperte arriveremo a considerare i ritmi della vita come segni di un ordine piú profondo che caratterizza il comportamento umano, ordine che può essere esplorato, previsto e senza dubbio sfruttato. Per spigolare intuizioni e idee nuove dobbiamo smettere di considerare le nostre azioni come eventi discreti, casuali e isolati. A quanto pare, invece, fanno parte di una rete magica di dipendenze, in cui ogni storia si trova all'interno di una rete di storie, rivelando ordine dove non ne prevedevamo e casualità dove meno ce l'aspettavamo. Piú a fondo le esamineremo, piú sarà evidente che le azioni umane seguono schemi semplici e riproducibili, governati da leggi di vasta portata. Dimenticate il lancio dei dadi e le scatole di cioccolatini come metafore della vita. Pensatevi come un robot sognante guidato dal pilota automatico e sarete molto piú vicini alla verità.

Nonostante i fatti della mia prima storia, in definitiva questo libro non tratta né di Hasan né del Dipartimento della sicurezza interna. Il mio obiettivo è invece analizzare che cosa è normale e che cosa è straordinario nell'ambito del comportamento umano. Tutto ciò, tuttavia, ci riporterà ad Hasan e ai suoi incontri successivi con l'FBI. Vedremo che la protezione offerta dal suo agente funzionò per un certo periodo, ma poi fallí appena il governo smise di contare su cittadini zelanti per individuare i malfattori. Per capire perché Hasan fini ancora una volta nell'inesorabile rete che il governo americano ha lanciato intorno al globo nel nome dell'antiterrorismo, faremo analizzare al computer i dati raccolti sul suo sito Web, confrontando il suo comportamento con quello di milioni di altre persone di tutto il mondo. La sorprendente conclusione è che in qualche modo il Dipartimento aveva capito bene - per lo meno giudicando che il comportamento di Hasan è tutto fuorché normale. Hasan è davvero un outlier, un caso anomalo, che per noi è importante proprio perché molti degli schemi regolari del comportamento umano svelati in questo libro non si applicano alle sue azioni.

Ma Hasan non è l'unico caso anomalo di questo volume. A partire dal capitolo seguente, faremo un salto all'indietro ai tempi di Lutero, Copernico e Michelangelo, quando l'astrologia, i miracoli, la stregoneria, i fantasmi, le fate e i presagi si mescolavano continuamente alla vita. Il nostro scopo è ripercorrere una sequenza di eventi affascinanti proprio come il viaggio contemporaneo di Hasan, che ci faranno conoscere un altro caso anomalo, un uomo noto ai suoi contemporanei come Gyórgy Székely. Székely non è il cognome che usava nel suo paese natale. Come molti uomini che girano il mondo, era conosciuto con il nome del gruppo etnico da cui proveniva, l'inafferrabile tribú di lingua ungherese degli szelder, i siculi della Transilvania, che si considerano discendenti di Attila, re degli unni. Gli szelder vivono sui monti Carpazi della Transilvania orientale, dove Bram Stoker collocò il conte Dracula e dove anch'io ho avuto i natali. Via via che procederemo nel nostro viaggio nella scienza e nella storia, vedremo che anche Gyòrgy Székely, proprio come Hasan, per molti versi è un uomo piuttosto comune. Tuttavia, grazie alle sue imprevedibili reazioni alla piega spesso bizzarra degli eventi storici, finirà per comandare una crociata papale senza mai avvicinarsi al nemico.

Ma a interessarci non è solo la condizione di caso anomalo di Gyórgy Székely. Piuttosto, è il fatto che quasi tutto ciò che fece mentre modificava energicamente la storia fu previsto dai suoi contemporanei. In altre parole, a quanto pare Gyòrgy Székely, proprio come voi e me e chiunque altro - tranne Hasan, naturalmente -, era estremamente prevedibile. In ogni caso, un conto è prevedere dove si trova una persona oggi facendo affidamento sugli strumenti tecnologici onnipresenti che controllano tutti noi, tutt'altro conto è prevedere le battaglie del Cinquecento e le azioni di papi, cardinali e guerrieri. Com'è possibile che un contemporaneo abbia previsto in modo cosí preciso il destino della sua nazione?

Una volta Mark Twain disse che la storia non si ripete, però fa rima. Ascoltiamo allora queste rime, lasciando che le ovvie differenze tra Hasan Elahi, Gyórgy Székely, voi, me e milioni di altri ci guidino verso le corrispondenze piú profonde alla base delle nostre azioni. In effetti, per quanto affascinanti siano alcuni dettagli minuti della vita, la scienza brilla per la sua capacità di scoprire il generico e l'universale. Per quanto riguarda il nostro comportamento di esseri umani, è proprio questo che ricerchiamo: intravedere l'universale.

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Pagina 39

Capitolo quarto

Duello a Belgrado


Belgrado, 28 febbraio 1514, undici mesi dopo l'elezione del papa


«Perché combatterci inutilmente?» urlò il condottiero ottomano fermando la cavalleria, che qualche istante prima si era lanciata alla carica contro un gruppo di cavalieri ungheresi pronti alla battaglia. Mentre i suoi uomini rimettevano al passo i cavalli in preda all'agitazione, gli ungheresi osservarono finalmente con attenzione il capitano turco. Era un uomo basso, ma robusto, e la ricca cotta placcata metteva in risalto il suo ampio torace. Un elmo a cupola gli nascondeva in parte il volto, scendendo poi a formare una gorgiera che si allargava fino a coprire le spalle. Alí dell'Epiro, il temuto capitano di Szendrő, era un uomo forte, veloce e padrone di sé. Non c'era un solo ungherese che non lo avesse riconosciuto - ogni uomo in piedi conosceva qualcuno che era stato ucciso da lui.

«La vostra terra è sterile, spogliata dai nostri combattimenti; non c'è piú nulla da saccheggiare», continuò Alí. I campi incolti che si estendevano a perdita d'occhio, i recinti distrutti e le stalle in rovina confermavano la sua tesi.

Solo le magnifiche mura bianche di Belgrado si ergevano intatte alle loro spalle nel sole splendente di febbraio. La fortezza, il gioiello della corona delle difese meridionali dell'Ungheria, era protetta verso sud e verso ovest da mura spesse e imponenti e verso nord dall'ampio e tortuoso letto del Danubio. Il castello interno e il palazzo erano ulteriormente difesi dalla città alta con i principali accampamenti militari, dalla città bassa con il centro urbano e la cattedrale e dal porto sul Danubio, ingegnosamente separati da trincee, portoni e alte mura.

Al di là dell'irrequieta cavalleria turca, a una distanza di circa ventimila passi da Belgrado, si ergeva la fortezza di Szendrő, i cui ventun bastioni erano stati costruiti sul modello dell'imponente forte di Costantinopoli. Era stata eretta per proteggere il delta strategico dagli invasori turchi alla confluenza della Morava nel Danubio. Nel 1459, tuttavia, la fortezza era caduta in mano agli ottomani e ora era sotto l'abile comando di Alí dell'Epiro, i cui cavalieri, ansiosi di combattere, fissavano impazienti gli avversari ungheresi.

«Questa desolazione offre un magro bottino», disse ancora Alí e la sua voce si mescolò al clangore delle campane della cattedrale. Nessuno tra gli ungheresi era disposto a cedere un solo palmo della sua terra, per quanto devastata fosse dalla cruenta situazione di stallo tra l'Impero ottomano e il Regno d'Ungheria. Quella che stavano difendendo non era una terra come tutte le altre: proprio qui, quasi sessant'anni prima, il successo dell'Europa cristiana si era bruscamente interrotto. Nel 1456 il sultano Mehmed II era arrivato alle mura con un'imponente schiera di settantamila soldati e duecento navi. I soldati posti a difesa di Belgrado, che erano soltanto settemila, a loro favore avevano solo la solidità della formidabile fortezza. Le loro speranze erano riposte in una missione di soccorso guidata da Jànos Hunyadi, voivoda di Transilvania e governatore d'Ungheria. Ma per i nobili il crescente potere di Hunyadi era una minaccia piú immediata della temuta invasione ottomana dell'Europa. E cosí l'esercito promesso non si costituí mai. Nonostante la chiamata alle armi di papa Callisto III, che temeva che la caduta di Belgrado avrebbe provocato la fine del cristianesimo, l'Europa era rimasta indifferente. Il papa, nel folle tentativo di ricordare a tutti l'imminente pericolo, ordinò che a mezzogiorno si suonassero sempre le campane per sollecitare le preghiere per i disperati difensori.

L'unico alleato di Hunyadi era un vecchio frate francescano, Giovanni da Capistrano, che all'età di settant'anni predicava la crociata in modo tanto efficace che migliaia di contadini si unirono alle forze di Hunyadi, armati soltanto di fionde e falci. Grazie quindi alla retorica di un vecchio monaco, l'esercito arrivò a contare quasi trentamila soldati. Essendo composto soprattutto da contadini inesperti, non rappresentava di certo una minaccia per i settantamila guerrieri esperti che costituivano le forze del sultano. Ciò nonostante Hunyadi, che aveva grandi doti tattiche, riuscí a invadere il campo ottomano con un attacco a sorpresa, ferendo Mehmed II e obbligando alla ritirata il resto della sua vasta schiera.

Quando la notizia dell'incredibile vittoria si diffuse in tutto il continente, il papa ordinò che lo scampanio di mezzogiorno proseguisse, celebrando ogni giorno il salvataggio del cristianesimo.

Oggi pochi sanno che le campane di mezzogiorno commemorano la sconfitta degli ottomani. Ma a soli cinquant'anni dalla vittoria di Hunyadi fra le truppe ungheresi che affrontavano questo nuovo assalto il significato del rintocco delle campane era ancora vivo.

«Affidiamoci invece alla gloria militare», gridò Alí al nemico. Le campane continuavano a suonare.

Per la verità, gli ungheresi - pienamente consapevoli che l'esigua cavalleria ottomana, senza artiglieria, avrebbe potuto arrecare pochi danni alle possenti mura che attorniavano Belgrado - non avrebbero avuto alcun bisogno di abbandonare la fortezza. Forse era stato un miscuglio di orgoglio e di opportunismo a spingerli ad affrontare il nemico abbandonando una posizione di sicurezza. In ogni caso, la decisione di affrontare i turchi era stata del capitano del reparto, un uomo slanciato con gli zigomi alti e lunghi baffi a ferro di cavallo le cui estremità penzolanti scendevano molto al di sotto della folta barba. In groppa a un cavallo robusto, il capitano indossava un usbergo sbiadito che gli copriva quasi tutto il corpo. In testa aveva un vecchio elmetto foderato di pelle consumata e lo stemma sullo scudo, una corona capovolta che reggeva una testa coperta da un elmo, era danneggiato e scolorito.

Un poco piú indietro, ma abbastanza vicino per potergli parlare sottovoce, stava suo fratello minore, anch'egli a cavallo. I compagni d'arme chiamavano l'inseparabile duo «gli Székely», dal nome della tribú della Transilvania orientale da cui venivano. Come racconta una cronaca dell'epoca, gli szekler «non pagavano le tasse a nessuno, neanche al re o a chiunque altro», un privilegio che a quei tempi era accordato solo alla nobiltà. In cambio, giuravano di prendere le armi a difesa del loro re o voivoda ogni qual volta la spada insanguinata - il simbolo tradizionale della chiamata alle armi - fosse stata fatta passare da un villaggio all'altro.

In realtà, secoli di battaglie avevano trasformato gli szekler in una società militare e anche i piú umili abitanti di un villaggio szekler rispondevano prontamente alla chiamata alle armi prendendo l'elmo e il pugnale o la falce.

Date le radici dei due szekler, le loro capacità militari sorpresero pochi laggiú nelle «terre ai confini», come veniva chiamata la pericolosa terra di nessuno tra il Regno d'Ungheria e l'Impero ottomano. Meno chiaro, tuttavia, era perché si fossero uniti ai mercenari invece di vivere da nobili all'interno dei propri confini tradizionali. Poiché i due non partecipavano mai a un combattimento tanto per avere qualcosa di interessante da raccontare, la maggior parte dei loro compagni d'arme continuava a interrogarsi sul motivo della loro presenza nelle terre ai confini.

Nonostante la sorprendente somiglianza, i due fratelli avevano personalità diverse come il giorno e la notte. György, il maggiore, era volitivo e irascibile, caratteristiche che lo rendevano un comandante popolare in quella terra dominata dai combattimenti a mani nude e con la spada. Per contro, Gergely era un uomo calmo e ponderato, che rifletteva sempre con cura prima di opporsi a una decisione. Pur essendo un abile spadaccino, piú e piú volte in passato aveva salvato György dalla sua avventatezza piú con i suoi saggi consigli che con la forza del suo braccio. Molti sospettavano che la presenza dei due a Belgrado potesse avere a che fare con alcuni incidenti avvenuti in passato, quando György aveva ignorato i consigli del fratello minore. Ma nessuno lo sapeva con certezza, perché ai due non erano mai state poste domande sull'argomento.

«Se tra voi ungheresi c'è un uomo disposto a dimostrare il suo valore, fiducioso che non gli venga a mancare il coraggio, - gridò Alí tra i due schieramenti, - si faccia avanti e si batta con me in un confronto diretto». La sfida fece ondeggiare il gruppo dei cavalieri ungheresi. Come elementi di una schiera sostenuta dai soldati di guardia lungo le mura avevano poco da temere. Ma l'idea di affrontare Alí da soli... non attirava nessuno.

Il silenzio che segui le parole di sfida del condottiero turco si prolungò, secondo dopo secondo, interrotto dal suono delle campane. Don, don, don. I ricordi delle glorie del passato erano ora motivo di scherno e vergogna per i cavalieri silenziosi, che evitavano accuratamente di incrociare gli sguardi.

Dopo tanti anni e mille battaglie insieme, Gergely poteva quasi percepire il sangue che ribolliva nelle vene del fratello. I suoi muscoli erano tesi e contratti e il corpo si preparava a gettarsi nella mischia. Sarebbe stato un suicidio per György accettare la sfida dell'ottomano, Gergely lo sapeva, ma non aveva idea di come fare a trattenerlo. Un ammonimento diretto - «Non farlo, non andare» - avrebbe avuto l'effetto contrario. Che fare, allora? Alla fine, Gergely serrò la mascella e sibilò tra i denti a bassa voce, in modo che nessun altro potesse sentirlo: «György, se uno di noi due sta per morire, non sarò io».

Il capitano non indietreggiò, ma qualche piccola ruga agli angoli degli occhi rivelò che un sorriso stava cercando di addolcirgli la dura espressione del volto. L'atteggiamento nervoso del corpo cambiò leggermente e sembrò che sotto l'armatura i muscoli si rilassassero un poco. György fece un cenno con il capo in segno di riconoscenza. Che sollievo! Gergely aveva disinnescato la bomba.

Poi, all'improvviso, il silenzio fu rotto dal grido del cavallo a cui György aveva affondato gli speroni nei fianchi. La tecnica di psicologia inversa usata da Gergely, la sua provocatoria sfida a sopravvivere, era ovviamente fallita. Mentre l'animale si impennava, György si piegò in avanti e la sua testa scomparve dietro al collo dell'animale, mentre teneva tranquillo le redini allentate. Il destriero si lanciò in avanti, puntando al galoppo verso l'ottomano.

In modo fulmineo cosí come aveva spronato il suo cavallo, György arrivò vicino al nemico e si fermò, fissandolo negli occhi. Poi estrasse la lunga spada dal fodero e si fece riconoscere da Alí, che sollevò la sciabola, una lama ricurva a un solo taglio, e si mise in posizione per affrontare il cavaliere. D'un tratto i due guerrieri, come spinti da una mano invisibile, partirono a gran velocità l'uno contro l'altro facendo sibilare nell'aria le punte affilate delle spade. In pochi secondi la distanza che li separava si azzerò e i due si scontrarono con uno schianto tremendo. La sciabola di Alí colpi il logoro scudo di György con un fendente che avrebbe distrutto qualsiasi altra arma. Nello stesso momento, la spada del cavaliere roteò e mancò il bersaglio, scivolando lungo la cotta di Alí.

L'impatto della grande spada lungo il fianco e il contraccolpo del fendente assestato allo scudo dell'ungherese fecero sbilanciare Alí. Anche se era rimasto illeso, non riuscí a rimettersi in equilibrio. Il peso dell'armatura di ferro lo spinse a terra nella polvere. Urla di gioia si levarono dai cavalieri ungheresi quando videro Alí cadere e perdere la sciabola. Ma quando l'ottomano, veloce come in assenza di gravità, si rialzò in piedi e riprese la sua arma, le urla furono represse all'istante cosí come erano iniziate.

Mentre Alí si muoveva goffamente per recuperare la sciabola, György Székely aveva fatto voltare il suo cavallo e ora lo spronava a compiere un lungo salto in estensione, con l'intenzione di travolgere il suo nemico. György mollò le redini e strinse piú forte l'impugnatura della lunga spada, che ora teneva con entrambe le mani. Si piegò quindi a destra, abbassando la parte superiore del corpo e stringendo i fianchi del cavallo con le gambe tese e brucianti.

Per un breve momento, la punta della sua spada corse parallela al terreno. Poi, proprio mentre la mano di Alí si stringeva intorno all'elsa della sciabola, la spada di György si infilò nel punto vulnerabile dell'armatura, sotto l'ascella di Alí, squarciò la cotta e poi penetrò a fondo nel muscolo. Prima che qualcuno potesse registrare la rapida sequenza di eventi, il braccio destro di Alí, staccato dalla spalla, volò in aria, con le dita della mano ancora saldamente strette attorno all'elsa. L'arto atterrò sul freddo suolo di febbraio con un tonfo sordo, a cui si uní il clangore della lama della sciabola caduta su una roccia.

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Nei confronti delle previsioni tendiamo ad avere a priori un atteggiamento di fiducia o di scetticismo. Coloro che appartengono alla prima categoria sostengono una ricca rete di indovini, interpreti della psiche e consulenti d'affari e alimentano le vendite delle opere di Nostradamus, profeta del Cinquecento, i cui scritti enigmatici prevedono tutti gli eventi piú importanti della civiltà umana. Gli scettici, d'altro canto, sostengono che l'ambiguità di Nostradamus rende le sue visioni prive di un autentico potere predittivo e mettono in rilievo i frequenti errori grossolani presenti nelle previsioni degli esperti.

Consideriamo, per esempio, la previsione formulata dalla National Association of Realtors, l'associazione nazionale degli agenti immobiliari statunitensi, i cui economisti ci ricordavano che nel corso di un anno i prezzi medi delle case «non erano mai scesi da quando era iniziata l'archiviazione sistematica dei documenti, nel 1968», prevedendo un 6,1 per cento di aumento per il 2006. Quell'anno, tuttavia, i prezzi delle case scesero del 3,5 per cento, un segno dell'imminente esplosione della bolla immobiliare statunitense. Ci si sarebbe aspettati che gli addetti ai pronostici, imbarazzati dal marchiano errore, modificassero i loro modelli. Seguendo una logica tutta loro, invece, se ne guardarono bene, come indica il loro ottimistico comunicato stampa del 9 dicembre 2007: «Tendenza all'aumento nelle vendite di case esistenti nel 2008!» Ancora una volta, la realtà si rifiutò di cooperare e il 23 dicembre 2008 le vendite erano diminuite dell'11 per cento, un crollo dei prezzi immobiliari come non si vedeva dai tempi della Grande depressione.

Alla luce di questi insuccessi nella formulazione di previsioni accurate, poniamo di nuovo la domanda agli scettici: perché Telegdi, che era un attento osservatore della realtà sociale e politica dei suoi tempi, non avrebbe potuto prevedere il risultato della crociata? Dopo tutto, gli esseri umani traggono vantaggi evolutivi dalla capacità di prevedere gli eventi in modo preciso, dedicando molti circuiti cerebrali a questa attività. Quando gioco a tennis, mi sposto sul campo andando incontro alla pallina mentre prevedo in un istante quando, dove e con quale velocità la mia racchetta deve colpire la palla per rimandarla nel campo dell'avversario. In maniera analoga, se vedo un'auto che si avvicina rapidamente, posso facilmente prevedere che mi investirà se calcolo male il tempo che mi occorre per attraversare la strada.

Vi sono buoni motivi per accettare certe previsioni e respingerne altre. Gli esseri umani interiorizzano una gran varietà di schemi e cosí prevedono con precisione gli eventi che obbediscono alle leggi della natura - come il volo di una pallina da tennis o la traiettoria di un'auto in movimento. Molto piú difficile, d'altro canto, è prevedere l'esito di battaglie a cui partecipano decine di migliaia di contadini, eventi guidati dagli interessi contrastanti di re, cardinali, sultani e voivodi. Dipendendo dalla volontà umana, questi eventi sono difficili da prevedere. Ma difficile non significa necessariamente impossibile, perciò quando conduciamo uno studio scientifico del comportamento umano dobbiamo porci una domanda importante: in linea di principio possiamo prevedere il nostro futuro?

Pur essendo una domanda critica, non è certo originale, essendo stata posta nientemeno che da Karl Popper , uno dei filosofi piú famosi del Novecento. Popper chiama dottrina storicistica l'aspettativa che un giorno le scienze sociali formuleranno previsioni storiche, e la descrive come «uno dei piú antichi sogni dell'umanità: il sogno della profezia, l'idea che possiamo sapere che cosa ci riserva il futuro e possiamo avvantaggiarci di tale conoscenza uniformando ad essa la nostra linea di condotta». In un saggio del 1948 appropriatamente intitolato Previsione e profezia, Popper pone la seguente domanda: «Di fatto possiamo prevedere le eclissi solari con un elevato livello di precisione e con largo anticipo. Perché non dovremmo essere in grado di prevedere le rivoluzioni?»

Popper esprime senza ambiguità le sue opinioni, che hanno stabilito il programma delle scienze sociali dei decenni successivi: se sono coinvolti esseri umani, la previsione è impossibile, quindi non è il caso di occuparsene. Il suo argomento è semplice, ma convincente:

Le profezie delle eclissi, e quelle basate sulle regolarità delle stagioni [...] sono possibili solo perché il sistema solare è un sistema stazionario che si ripete; ed è tale in quanto si trova isolato dall'influenza di altri sistemi meccanici da immense regioni di spazio vuoto ed è pertanto relativamente libero da interferenze dall'esterno. Contrariamente a quanto si crede normalmente, l'analisi di tali sistemi non è peculiare della scienza naturale. Questi sistemi ripetitivi sono casi speciali in cui la previsione scientifica diventa particolarmente impressionante - ma questo è tutto.

Certo, la storia non è ripetitiva né lo sono le nostre motivazioni e i nostri desideri: aspiriamo sempre a qualcosa di meglio, di piú, di diverso. Quindi, data l'autorità di Popper, nel 1948 la questione fu chiusa prima che si fosse davvero iniziato a discuterla: nel settore della storia e delle scienze sociali, la previsione non è possibile. Il pronostico di Telegdi è ridicolo e qualunque tentativo da parte nostra di controllare e sfruttare il potere predittivo è destinato a fallire.


Oggi abbiamo un sistema di previsioni meteorologiche globali che negli ultimi cinque anni ha dimostrato una precisione del 95 per cento nelle previsioni a tre giorni. Sorprendentemente, forse, questo sistema cosí efficace si fonda proprio sulla metodologia descritta a grandi linee da Richardson nel suo libro. Ma allora perché le sue previsioni erano cosí clamorosamente sbagliate?

Il problema non era il metodo, bensí i dati. I modelli meteorologici di oggi si alimentano di tracciati radar e satellitari, di dati continuamente aggiornati sulla temperatura superficiale e in quota in migliaia di luoghi in tutto il mondo, non dell'accozzaglia disordinata di condizioni atmosferiche che costituiva il punto di partenza di Richardson. Inoltre, i duecentomila calcolatori umani richiesti da Richardson sono stati sostituiti da veloci computer, che in aggiunta riescono a superare i problemi legati a certe irregolarità matematiche che ostacolavano alcuni dei suoi calcoli. Ciò suggerisce che la nostra capacità di prevedere il futuro è limitata soltanto dalla qualità dei dati e dalla velocità dei computer? O forse il punto è che, indipendentemente da quante informazioni raccogliamo e dalla velocità dei processori che usiamo, quando si tratta di attività umane, se cerchiamo di formulare previsioni siamo destinati a fallire?

È proprio un dilemma einsteiniano. In verità, il primo articolo che Einstein cita nella sua lettera del 1905 a Conrad Habicht - l'articolo che poi gli farà vincere il Nobel - è il fondamento della meccanica quantistica. Oggi fra tutte le teorie scientifiche inventate dagli esseri umani la teoria quantistica è senza dubbio quella dotata del maggior potere predittivo. Per esempio, il momento di dipolo magnetico dell'elettrone viene previsto dalla teoria quantistica con un errore di una parte su 10^10, una precisione senza precedenti nella storia della scienza. Inoltre, in base ad alcune stime oggi il 30 per cento del Pil statunitense si basa su tecnologie rese possibili dalla rivoluzione quantistica, dai cellulari agli iPod. Ciò nonostante, paradossalmente, la meccanica quantistica è intrinsecamente incapace di prevedere eventi futuri con certezza. Nella maggior parte dei casi, essa fornisce soltanto la probabilità che si verifichi un certo evento. Naturalmente, per un oggetto dotato di massa maggiore, come l'edizione rilegata di questo libro, la probabilità che svanisca nel nulla mentre lo state leggendo è praticamente pari a zero. Ma quando si tratta di uno degli elettroni che compongono questo libro, nulla è piú del tutto certo; potrebbe tranquillamente svanire e riemergere dall'altra parte del mondo. Non che ve ne accorgereste, ma nell'universo quantistico un evento di questo genere appartiene al regno del possibile.

Questa struttura probabilistica metteva cosí a disagio Einstein che piú in là negli anni respinse la meccanica quantistica e fino alla morte continuò a ricercare una teoria capace di penetrare una realtà piú profonda, una teoria non impastoiata dalle probabilità. Com'è noto, dichiarò che «Dio non gioca a dadi», una tesi fondamentale della sua nuova crociata intellettuale. Einstein sognava una teoria completamente deterministica, come la meccanica di Newton, che fornisse risposte univoche in relazione agli eventi futuri.

Era la ricerca donchisciottesca di un vecchio colosso, simile agli sforzi del cardinale per far marciare su Costantinopoli i suoi crociati? Oppure possono davvero esistere limiti fondamentali alla prevedibilità umana che non possiamo superare con una teoria migliore, una maggior quantità di dati o computer piú veloci?

Oggi sappiamo che Einstein si sbagliava e che il nostro universo è probabilistico, come indicato dalla teoria quantistica. La teoria del caos ha conficcato un altro paletto nel cuore della prevedibilità, rivelando che anche in sistemi che in linea di principio sono prevedibili, come i fenomeni atmosferici che governano il tempo di domani, minuscole incertezze riguardo alle condizioni attuali si ingrandiscono rapidamente, rendendo le previsioni a lungo termine un esercizio inutile. Questo è uno dei motivi per cui le previsioni meteorologiche a piú di due settimane continuano a essere molto incerte.

Questi progressi hanno stimolato una domanda, per ora senza risposta: potremo mai offrire una dimostrazione matematica della fondamentale imprevedibilità delle nostre azioni future? Il fatto che tutte le nostre molecole, tutti i nostri atomi, sono soggetti alle leggi della meccanica quantistica rende noi esseri umani fondamentalmente imprevedibili dall'interno?

Ma se non riusciamo a scoprire un principio che ponga limiti rigorosi alla prevedibilità umana, significa che il comportamento umano in realtà è prevedibile e che esiste una struttura probabilistica che può svelare le nostre azioni future? È possibile che investendo nella ricerca per scoprire le leggi delle azioni umane, cosí come investiamo nella fisica al fine di svelare i dettagli del mondo subatomico, riusciremo a renderci pienamente, o almeno sostanzialmente, prevedibili? Accettiamo il divieto di Popper o inseguiamo la promessa di Telegdi?


Finora questo libro ha presentato soltanto una serie di domande e di misteri affascinanti. Dirk Brockmann ha scoperto che la teoria della diffusione di Einstein non può spiegare i percorsi delle banconote, suggerendo invece l'esistenza di qualche forza invisibile che rallenta la circolazione del denaro, e noi abbiamo mostrato che il modello della trasmutazione non riesce a prevedere il processo di visita a un sito Web.

Fino a questo punto la storia medievale che stiamo seguendo è altrettanto sconcertante. Abbiamo visto fallire il tentativo del cardinale Bakócz di conquistare il papato e abbiamo sussultato alla drammatica conclusione, un anno piú tardi, del duello tra György Székely e un guerriero ottomano. Ora il cardinale è tornato a Buda con una crociata nuova fiammante, il suo asso nella manica, e ascoltiamo Telegdi contrastarne il piano lanciando un terribile avvertimento. Gli intrecci che seguiamo sono divergenti e tortuosi, proprio come le traiettorie caotiche delle perturbazioni atmosferiche.

È arrivato il momento di riunire un po' le fila. Che relazioni vi sono tra i nostri personaggi medievali, gli Székely, il cardinale e il nostro profeta Telegdi? Perché non riusciamo a prevedere neanche gli schemi piú semplici che caratterizzano l'attività umana, dai viaggi alla navigazione sul Web, per non parlare dell'economia? Nei capitoli che seguono inizieremo a vedere qualche risposta.

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Siméon-Denis Poisson ricordava che una volta, da piccolo, suo padre l'aveva trovato appeso a una corda. La colpevole era una domestica, che sosteneva di aver semplicemente preso una precauzione necessaria per proteggere il bambino dalle cimici e dagli altri animali che circolavano sul pavimento. La verità era che aveva immobilizzato il bambino per dedicarsi alle sue faccende.

Nonostante l'incontro ravvicinato con la matematica del pendolo avuto da bambino, il giovane Siméon-Denis fu mandato dalla famiglia a studiare medicina a Fontainebleau. Segnato dalla morte del suo primo paziente, interruppe di colpo gli studi e scappò a casa.

Mentre era a Fontainebleau, suo padre era stato eletto sindaco di Pithiviers, una posizione che gli imponeva di essere abbonato a un certo numero di periodici rispettabili, tra cui il «Journal of the Polytechnical School». Con la campagna che gli offriva poco di cui occuparsi, Poisson prese l'abitudine di sfogliare la rivista, scoprendosi inaspettatamente portato per i problemi di matematica, che risolveva tutti uno dopo l'altro. La famiglia si riuní per discutere un'altra volta del suo futuro e decise di rimandarlo a Fontainebleau, a studiare matematica. Questa volta Poisson non abbandonò gli studi (uccidere le persone con le equazioni è piú difficile), ma entrò all'Ecole polytechnique di Parigi, dove sette anni dopo vinse una cattedra, succedendo al leggendario Fourier.

Oggi Poisson è ricordato per una vasta gamma di scoperte scientifiche – come l'integrale di Poisson, l'equazione di Poisson nella teoria del potenziale, il rapporto di Poisson nell'analisi dell'elasticità e la costante di Poisson nell'elettricità, per esempio. Il suo nome è inciso sulla Torre Eiffel e un cratere profondamente eroso nelle regioni montagnose meridionali della faccia visibile della Luna, a est di Aliacensis e a nordovest di Gemma Frisius, porta il suo nome. Poisson scrisse piú di 350 articoli, una produzione giudicata straordinaria allora come oggi. E i word processor non erano ancora stati inventati.

Il suo risultato piú famoso fu pubblicato nel 1837, soltanto tre anni prima che morisse, con il titolo Recherches sur la probabilité des jugements en matière criminelle et en matière civile. L'argomento, la costruzione di un buon modello di giuria, è di scarso interesse per i matematici di oggi. Ma è un lavoro di straordinaria importanza, poiché presentava la teoria fondativa per la statistica, un insieme di strumenti matematici che oggi sono usati in gran parte dei settori di ricerca.

In questo lavoro fondamentale, Poisson mostrò che la probabilità di errore di un giurato tipico è calcolabile: basta conoscere il numero dei processi e delle condanne che si hanno in un dato anno. Erano informazioni che il ministero della Giustizia francese raccoglieva ogni anno; nel 1825, per esempio, dei 6652 imputati accusati di un crimine, solo il 60 per cento era stato condannato. Usando questi numeri e una formula che aveva derivato, Poisson determinò che in media i singoli giurati prendono la decisione giusta soltanto nel 75 per cento dei casi. L'aspetto particolarmente affascinante di questo risultato non è la percentuale calcolata, ma la capacità di Poisson di entrare nella testa dei singoli giurati, determinando il loro tasso di correttezza.

Usando i dati statistici raccolti dal Chicago Jury Study, Alan Gelfand e Herbert Solomon hanno concluso che il comportamento dei giurati statunitensi è lievemente migliore: la loro decisione è giusta in un buon 90 per cento dei casi. A quanto pare, affrontano il proprio dovere con maggiore serietà e saggezza dei loro precursori francesi dell'Ottocento. Ma questo risultato elimina davvero ogni dubbio che possa ancora persistere riguardo al funzionamento delle nostre giurie attuali?

Per Tim Durham, è improbabile. Per tutti noi, però, la situazione migliora leggermente. Di fatto, se i singoli giurati hanno ragione nel 90 per cento dei casi, un imputato innocente sarà condannato soltanto nello 0,005 per cento dei casi. È quasi cento volte migliore del tasso stimato di condanna ingiusta se i singoli giurati sbagliano il 20 per cento delle volte. Dato che nel 1990 Si sono avute 1999880 condanne per reati gravi, tra cui omicidio volontario, omicidio colposo, violenza carnale, aggressione, rapina, furto e incendio doloso, in base a questa previsione solo quaranta di queste dovrebbero essere state condanne ingiuste. Possono non sembrare molte, ma solo se non si è uno dei quaranta sfortunati.


Alla base del lavoro di Poisson vi è una profonda ipotesi filosofica: il presupposto da cui partí, semplice ma carico di significato, era la casualità del comportamento umano. Posso essere la persona piú intelligente del mondo o la piú ottusa, un avvocato o un criminale, uno scettico o un credente, ma una volta seduto dietro il banco della giuria in pratica tutto ciò che si sa su di me è che in media riconoscerò la verità soltanto nel 90 per cento dei casi. Con ciò, Poisson mise sullo stesso piano imprevedibilità e casualità, per poi mostrare che, una volta accettato che il comportamento umano è casuale, improvvisamente diventa prevedibile.

È un po' un paradosso: se l'imprevedibilità implica la casualità, com'è possibile che la casualità implichi la prevedibilità? La risposta è semplice: le previsioni di Poisson si presentano in una forma piuttosto diversa dalla prevedibilità che ricerchiamo nella vita quotidiana. Non somigliano alla profezia di István Telegdi, che immaginava il futuro della crociata papale. Sono molto piú simili, piuttosto, alla derivazione compiuta da Einstein delle leggi del movimento degli atomi. Einstein sapeva che è impossibile prevedere la traiettoria di un singolo atomo e mostrò che, se accettiamo che il movimento atomico sia casuale, in media la lunghezza del percorso di un atomo seguirà le leggi della diffusione.

In modo analogo, Poisson non si propose mai di prevedere la correttezza del verdetto di una giuria. Suppose, invece, che ciascun giurato votasse come se tirasse un dado: la maggior parte delle volte i giurati hanno ragione, ma di tanto in tanto compiono un errore e non sapremo mai quando un giurato ha ragione o si sbaglia. Con questo assunto, dalle aride statistiche dei tassi di condanna Poisson riuscí a determinare l'affidabilità del sistema delle giurie nel suo complesso.

Per capire meglio come funzionano le previsioni di Poisson, consideriamo i dati relativi alle mie telefonate, in base ai quali in media faccio dodici chiamate al giorno, ovvero circa una chiamata ogni due ore. Il dato non dice, tuttavia, quando farò la prossima. Ma se si suppone che lo schema delle mie chiamate sia casuale, improvvisamente si capiscono molte caratteristiche delle mie comunicazioni. Usando la formula di Poisson, possiamo determinare la probabilità che nell'ora successiva non faccia nessuna chiamata (è pari al 60 per cento - significa che è abbastanza probabile), o che ne faccia cinque (0,02 per cento - improbabile). La sua formula inoltre rivela la probabilità che non telefoni mai per tutto il giorno (0,001 per cento - molto improbabile).

Pur essendo ben diverse dai presagi di un oracolo, queste previsioni possono essere estremamente preziose. Consideriamo, per esempio, un ingegnere di un consorzio telefonico il cui lavoro consiste nello stabilire la capacità del ripetitore per telefonia mobile da installare nel mio quartiere. Se l'ingegnere stabilisce una capacità troppo bassa, molte chiamate falliranno, irritando i consumatori e il direttore. Troppa capacità, d'altro canto, è uno spreco di risorse per l'azienda, il che farà decisamente infuriare il direttore. Se l'ingegnere sapesse con precisione quando io e tutti gli altri abitanti del quartiere decidiamo di usare la linea, potrebbe stabilire il numero delle chiamate che si fanno nelle ore di punta e dimensionare il ripetitore in modo che possa far fronte al carico massimo.

Ma nessun ingegnere è a conoscenza delle mie future chiamate. Piuttosto, sa che il tipico utilizzatore di un telefono cellulare fa una media di tre chiamate al giorno. Inoltre suppone che lo schema delle chiamate di chiunque sia casuale, quindi, usando la formula di Poisson, può prevedere il numero delle persone che decidono di usare il cellulare a una data ora. Dopo questi calcoli, aggiungerà una capacità sufficiente a far sí che in media non siano rifiutate piú di tre chiamate su cento, garantendo alla sua azienda di superare il benchmark dell'industria per un servizio di telefonia mobile «impeccabile».

Oggi, ogni volta che una serie di eventi è al di là della nostra comprensione, diciamo che si tratta di eventi casuali. Come vedremo, azioni apparentemente casuali possono anche essere il motore di drammi storici, determinando svolte e colpi di scena che si potrebbero interpretare come i lanci di un dado. Ma che cosa significa in realtà che qualcosa è casuale?

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Capitolo quindicesimo

L'uomo che imparò a nuotare leggendo


Nella primavera del 1919 Albert Einstein, che pur essendo già un fisico famoso non era ancora la star mediatica che sarebbe diventato di li a qualche mese, ricevette una lettera da Theodor Kaluza, un collega praticamente sconosciuto. Kaluza stava ancora lavorando sodo per ripetere il lampo creativo di cui aveva goduto nel 1908, quando, studente di David Hilbert e Hermann Minkowski, aveva scritto il suo primo e unico articolo di ricerca. Ora, dieci anni dopo e all'età di trentaquattro anni, era uno sconosciuto che sgobbava nella ricerca, ancora sul gradino piú basso della scala accademica, e riusciva a stento a mantenere la moglie e il figlio con un salario praticamente inesistente. Quando finalmente completò il secondo articolo, un impeto di baldanza gli suggerí di spedirlo ad Einstein, che il 21 aprile 1919 gli rispose con una lettera incoraggiante: «Il pensiero che i campi elettrici siano troncati [...] spesso ha preoccupato anche me. Ma l'idea di ottenere [una teoria unitaria] con un mondo cilindrico a cinque dimensioni non mi è mai venuta in mente e potrebbe essere completamente nuova».

Oggi agli studenti di fisica spieghiamo cinque forze fondamentali, tre delle quali - la gravitazione, il magnetismo e l'elettricità - erano già note a Kaluza e ad Einstein nel 1919. Per molto tempo era sembrato che queste tre forze avessero poco in comune l'una con l'altra. Ma nel 1864 James Clark Maxwell dimostrò che l'elettricità e il magnetismo possono essere descritti da un'unica teoria, che chiamò elettromagnetismo. Il suo lavoro diede inizio a un sogno che ancora oggi continua a guidare il lavoro di molti fisici: scoprire una «teoria del tutto» che descriva per mezzo di un'unica struttura tutte le forze naturali.

Nel 1919 il Santo Graal era una teoria unificata della gravità e del magnetismo. È questo il problema a cui Kaluza offri un'inaspettata soluzione quando dimostrò che le due forze possono essere unite se ipotizziamo che il nostro mondo abbia non tre, ma cinque dimensioni. Questa ipotesi contraddiceva l'intuizione, naturalmente, poiché nessun essere umano è mai stato capace di percepire la misteriosa quinta dimensione. Ma Kaluza era riuscito a nuotare al primo tentativo dopo aver letto un libro sul nuoto, quindi non ebbe difficoltà a fidarsi anche della conoscenza teorica del suo tempo, nonostante la sua natura controintuitiva.

La lettera di Kaluza al grande personaggio scientifico era piú che una semplice cortesia - era anche una richiesta di aiuto per pubblicare il manoscritto. A quei tempi, gli scienziati famosi come Einstein erano i guardiani delle migliori riviste scientifiche. Se Einstein avesse giudicato interessante il lavoro, avrebbe potuto presentarlo alla riunione dell'Accademia di Berlino, dopo di che l'articolo avrebbe potuto essere pubblicato negli atti dell'accademia. Con grande gioia di Kaluza, Einstein si mostrò disponibile.

Una settimana piú tardi, il 28 aprile, Einstein gli scrisse una seconda lettera. L'inizio era incoraggiante: «Ho letto da cima a fondo la Sua lettera e l'ho trovata molto interessante. Per ora non vedo in nessun punto qualcosa di impossibile».

Nella frase che seguiva, tuttavia, l'entusiasmo era piú contenuto: «Ma devo ammettere che la forza persuasiva degli argomenti presentati fino a questo momento mi sembra ancora troppo poca».

Dopo aver sondato gli argomenti di Kaluza con alcune domande e suggerimenti di carattere tecnico, Einstein aggiungeva: «Se riuscisse a dimostrare con la precisione possibile in base alla nostra conoscenza empirica che ciò è vero, sarei praticamente convinto della correttezza della Sua teoria».

Einstein avrebbe spalancato le porte dell'accademia a Kaluza a una condizione: «Potrò presentare una versione ridotta all'accademia solo quando la suddetta questione delle linee geodetiche sarà chiarita. Non può farmene una colpa, perché se presento l'articolo, vi associo il mio nome».

Immaginiamo come si sentí Kaluza ricevendo ben due lettere in due settimane dall'uomo che veniva già considerato il fisico piú autorevole del mondo. Entrambe erano incoraggianti e il fatto stesso che Einstein si fosse preso il disturbo di scrivere due volte indicava che era veramente attratto dall'idea di quel fisico sconosciuto. Ma le lettere contenevano anche una dura critica, che alla fine impedí per anni la pubblicazione dell'articolo.

Nel 2005 l'Accademia delle scienze israeliana mi invitò a tenere una conferenza a Gerusalemme in occasione del centesimo anniversario dell' annus mirabilis di Einstein. Via via che la data del viaggio si avvicinava, la mia trepidazione cresceva per ragioni non interamente legate al convegno. Negli ultimi tempi il modello delle priorità aveva fatto nascere altri interrogativi interessanti. Come ricorderete, avevamo scoperto che la corrispondenza elettronica era disseminata di lampi di attività che in poco tempo diminuivano fino a scomparire, seguite poi da un nuovo e frenetico invio di e-mail. Iniziai a domandarmi se lo schema a raffiche fosse un prodotto secondario dell'età elettronica, o se invece rivelasse una verità piú profonda in merito all'attività umana. Tutti gli esempi che avevamo studiato fino a quel momento - dalle e-mail alla navigazione sul Web - erano in qualche modo collegati al computer; logicamente ne seguiva la domanda: le raffiche vengono prima delle e-mail?

Ben presto mi resi conto che la corrispondenza epistolare di famosi intellettuali, raccolta con cura dai loro devoti discepoli, avrebbe potuto contenere la risposta. Una ricerca online mi diresse verso gli Albert Einstein Archives, un progetto che ha sede all'Università ebraica di Gerusalemme ed è stato istituito per catalogare tutta la corrispondenza di Einstein. Poiché la mia e-mail agli archivi non ottenne risposta, infilai il loro indirizzo nello zaino, pronto per la mia duplice missione: rendere omaggio all' annus mirabilis di Einstein e trovare la Biblioteca nazionale ebraica, sede fisica degli Einstein Archives.

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