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| << | < | > | >> |IndiceTavola 1: Le mani sulla città 2 Tavola 2: Le mani sulla provincia 4 Questo libro 9 Prima parte. La politica secondo i boss 11 La nuova capitale della 'ndrangheta 13 Affari d'oro a Milano e dintorni 63 Seconda parte. Sangue, terra e cemento 99 Barbaro-Papalia: i padroni di Milano 101 Il volto pulito della 'ndrangheta 115 Vecchi e nuovi sindaci 133 Terza parte. La città della coca 153 'Ndrangheta e coca 155 Traffici internazionali 163 Grandi alleanze 191 Quelli di Duisburg 201 Quarta parte. La capitale del riciclaggio 207 Un cittadino al di sopra di ogni sospetto 209 Il clan Onorato e i suoi bravi ragazzi 227 Insider trading mafioso 243 Da Provenzano ai Casalesi 251 Quinta parte. All'ombra dell'Ortomercato 267 Cent'anni di storia 269 Il regno dei Morabito 283 Sesta parte. Grandi affari e grandi opere 307 'Ndrangheta ad alta velocità 309 Con i Paparo non si sgarra 329 Settima parte. Epopea 'ndrangheta 341 Il clan Papalia 343 I clan Trovato e Flachi 381 Ringraziamenti 409 Appendice 411 Indice dei nomi 453 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Milano è la città in cui «la mafia non esiste». Lo affermava negli anni Ottanta il sindaco Paolo Pillitteri, lo ha ripetuto fino a ieri Letizia Moratti. Milano, già «capitale morale» del paese, è la città diventata oggi la nuova capitale della 'ndrangheta. Lo sostengono i magistrati che conducono le loro indagini tra Calabria e Lombardia. Milano è la città dove centinaia di persone sono state negli ultimissimi anni indagate, incriminate, arrestate per la loro partecipazione alle attività dei gruppi di criminalità organizzata. Molte di queste sono calabresi, ma alcune (soprattutto imprenditori) hanno cognomi e accento del tutto lombardi. Segno che, se «la mala pianta» è cresciuta così rigogliosa al Nord, è anche perché ha trovato un terreno particolarmente fertile e pronto ad accoglierla. Milano è la città dove decine di politici e amministratori pubblici hanno il loro nome stampato nelle carte delle ultime indagini. Solo contiguità innocenti, piccole distrazioni, inquinamenti inconsapevoli? Ma poi, è tollerabile che un uomo politico possa essere così distratto e sprovveduto da non rendersi conto di trattare con gli uomini delle cosche? La «linea della palma» evocata da Leonardo Sciascia è da tempo arrivata al Nord. Almeno da quando un «eroe borghese» come Giorgio Ambrosoli poteva essere ucciso a Milano da un sicario mandato dal più potente banchiere privato italiano dell'epoca, Michele Sindona, grande riciclatore di Cosa nostra, senza che la città si accorgesse di quello che era successo, di quello che stava succedendo. Oggi, più di vent'anni dopo, la città si prepara nel modo peggiore all'Expo del cemento e degli affari. E non dimostra di aver capito la lezione impartita dal suo stesso passato. Oggi un uomo, Nicola Padulano, può essere selvaggiamente picchiato a Milano da uomini mandati dai clan, senza che gli sia dedicata neppure una riga sui giornali. Oggi una donna, Lea Garofalo, può essere rapita in pieno centro e sciolta nell'acido, senza che la città si scuota. Oggi in Lombardia si paga il pizzo, si fanno affari, si spartiscono appalti, si smerciano chili di cocaina, si riciclano miliardi, si vendono voti, senza che cittadini si ribellino e soprattutto senza che le istituzioni reagiscano in modo netto, vigoroso, visibile. In questo libro troverete ricostruiti la rete di potere, gli affari e i rapporti politici delle organizzazioni criminali a Milano e in Lombardia. Troverete i nomi e i cognomi. Ma troverete soprattutto le storie: dei boss e dei loro «bravi ragazzi», ma anche degli insospettabili imprenditori, fiancheggiatori, politici del Nord che stanno al loro fianco. Sono loro ad aver permesso che Milano sia diventata la nuova capitale della 'ndrangheta. Forse conoscere questi fatti, questi nomi, queste storie può essere un contributo a cambiare strada. | << | < | > | >> |Pagina 11Dove si racconta di una città «in cui la mafia non esiste».
Qui si celebrano due feste elettorali: l'una con la presenza del
ministro Ignazio La Russa, l'altra con quella dell'ex sindaco Letizia Moratti.
Con ospiti molto imbarazzanti, venuti dal Sud. Si
racconta anche di un senatore, fondatore di Forza Italia e già condannato per i
suoi rapporti con Cosa nostra, che intrattiene rapporti pure con uomini della
criminalità calabrese. E del sistema politico-mafioso che ha trasformato Milano
nella nuova capitale della 'ndrangheta.
Dove la mafia «non esiste» Milano è diventata la nuova capitale della 'ndrangheta. In Lombardia operano 500 affiliati, appartenenti ai diversi «locali» disseminati in tutta la regione. Hanno attività autonome, ma restano sempre in contatto, per le cose che contano, con i boss della casa madre, la Calabria. Hanno agende d'affari molto fitte: edilizia, sanità, bar e ristoranti, locali notturni, gioco d'azzardo. Ma non si precludono la finanza e sono aperti a ogni sviluppo del business. Ciascun settore ha un referente. Spesso, come leggerete in questo libro, è un insospettabile imprenditore lombardo. Pesanti i rapporti con la politica, numerosi, stretti e di buon livello. Eppure «a Milano la mafia non esiste», hanno dichiarato finora il sindaco (fino al maggio 2011) Letizia Moratti, il presidente della Regione Roberto Formigoni, il prefetto Gian Valerio Lombardi. «Ci sono 13 politici lombardi che hanno ricevuto i voti della 'ndrangheta» rivela invece il magistrato calabrese Nicola Gratteri. «E sono ben 8 i consiglieri comunali di Milano che, secondo le indagini, hanno avuto rapporti con i boss calabresi» aggiunge il sociologo Nando dalla Chiesa. In questo libro ne leggerete nomi e cognomi. Ma sono molti di più i consiglieri comunali, provinciali, regionali, i sindaci, gli assessori, i parlamentari che, nella regione più ricca d'Europa, sono in contatto con gli uomini dei clan, che si presentano come ineccepibili uomini d'affari pronti a collaborare con le amministrazioni pubbliche e a dare anche una mano per le costose campagne elettorali. I voti della 'ndrangheta sono quantitativamente limitati, ma finiscono per essere determinanti per far vincere un candidato e per farlo crescere fino a diventare assessore e magari parlamentare. Lo spiega Dalla Chiesa:
Il cittadino normale di solito non dà la preferenza. Perciò bastano
relativamente pochi voti per far vincere un candidato, per farlo
anzi risultare il primo o secondo degli eletti, dunque a conferirgli
il diritto politico di diventare assessore o presidente del Consiglio
comunale. Ci sono grandi città dove, grazie all'avarizia di preferenze, si entra
in Consiglio comunale con meno di 100 voti.
Metropoli dove vanno alle urne centinaia di migliaia di elettori,
ma si diventa autentici trionfatori con 2000 preferenze. Comuni
piccoli o medi (che la 'ndrangheta colonizza per primi) dove si
entra in Consiglio con 30 o 16 preferenze, pacchetti di voti che
una 'ndrina mette insieme in due minuti.
E il ministro La Russa incrociò i padrini Nel 2008 inizia una vicenda emblematica di come la politica possa incrociare la mafia. Ultimi mesi del governo di centro-sinistra di Romano Prodi. Campagna elettorale trionfante di Silvio Berlusconi. A Milano, sul tavolo della politica e degli affari c'è la partita decisiva per conquistare l'Expo 2015, conteso dalla città turca di Smirne. La sera del 31 marzo, a Parigi, il Bureau International des Expositions emette il suo verdetto: vince Milano. In quegli stessi giorni, sulla scrivania di Ilda Boccassini, il procuratore aggiunto che coordina le indagini antimafia, arrivano alcune informative degli investigatori sui rapporti tra 'ndrangheta e politica. Raccontano che 17 boss si stanno spartendo la Lombardia. Sono pezzi da novanta dei più importanti clan calabresi: padrini vecchio stile, come Carmelo Novella, ma anche giovani ambiziosi, come Salvatore Barbaro, piccolo principe (è nato a Locri nel 1974) dell'influente cosca Papalia. Tutti, nella primavera 2008, hanno una priorità: le elezioni, avvicinare i politici nel momento in cui sono a caccia di voti, per stringere rapporti, tentare scambi, preparare affari. Il 10 aprile 2008 è una giornata speciale. Termina la campagna elettorale. Alla discoteca Lime Light di via Castelbarco, non distante dall'Università Bocconi, si prepara la festa finale del partito di Berlusconi, il Popolo della libertà. La grande sala è addobbata di drappi e bandiere. L'impianto audio rimanda ossessivamente l'inno azzurro Meno male che Silvio c'è. Un uomo attende all'ingresso. Ha un appuntamento delicato. Si chiama Marco Clemente ed è il padrone di casa, il socio di maggioranza della società che controlla il locale. Politicamente è vicino al centrodestra e in particolare a Ignazio La Russa, l'ex capo dei giovani neofascisti dell'Msi milanese diventato uno dei leader nazionali del Pdl. Clemente è nato a Roma, ma gli affari li ha sempre fatti sotto la Madonnina: attività immobiliari, gestione di parcheggi, locali notturni. Grazie ai rapporti con La Russa, siede anche sulla poltrona di consigliere d'amministrazione della società regionale Fiera Milano Congressi, accanto a personaggi importanti della politica locale e nazionale (come Maurizio Lupi, per esempio, area ciellina del Pdl, futuro vicepresidente della Camera). Nella primavera 2011, il Pdl candida Clemente al Consiglio comunale di Milano. Sono le elezioni in cui Letizia Moratti è sconfitta da Giuliano Pisapia. Il padrone del Lime Light raccoglie 458 preferenze, poche per essere eletto. Durante la campagna elettorale, viene resa pubblica un'agghiacciante intercettazione ambientale realizzata il 17 febbraio 2008. La voce di Clemente è registrata nella notte, all'interno della discoteca Babylon. Il padrone del Lime Light sta parlando con Giuseppe Amato, in seguito arrestato per associazione mafiosa con l'accusa di essere il luogotenente del boss Pepè Flachi per la riscossione del pizzo nei locali di Milano. Amato era il terrore degli «after hour»: taglieggiava sistematicamente gli organizzatori, minacciando chi si rifiutasse di pagare. «Due settimane e non fanno più after, la prossima volta che si permettono, che fanno, gli spacco tutto» dice Amato a Clemente. I due parlano in particolare di un gestore di locali, Bartolo Quattrocchi, patron della discoteca Pulp pesantemente minacciato dal clan di Flachi. Clemente lo considera un suo avversario, tanto che sbotta: «Speriamo che muoia come un cane». Due mesi dopo quell'augurio nero, il 10 aprile 2008, viene organizzata la festa elettorale alla discoteca Lime Light. Alla spicciolata arrivano tutte le stelle del Popolo della libertà. Per ultimo fa il suo ingresso, tra gli applausi, Silvio Berlusconi. Si guarda in giro, saluta, sorride, stringe mani. Già pregusta la vittoria politica. Sa che il 13 aprile non ci sarà partita, dalle urne uscirà candidato a guidare di nuovo il governo. Anche La Russa è soddisfatto, nella tiepida serata milanese. Berlusconi gli ha già promesso nientemeno che il ministero della Difesa. Non sa che il giorno dopo quella esaltante festa di fine campagna elettorale la polizia deposita alla Direzione distrettuale antimafia di Milano un'informativa sui rapporti tra la 'ndrangheta e i politici milanesi, in cui compare anche il suo nome. È poco più d'una paginetta, datata 11 aprile 2008 e scritta su carta intestata della Squadra mobile di Milano. Sarà integrata da una seconda informativa, datata 19 maggio. Vi si legge: Il deputato Ignazio La Russa, attraverso un suo diretto familiare e tale Clemente, socio di una nota discoteca sita in zona Porta Ticinese, avrebbe fatto contattare Salvatore Barbaro al quale i due avrebbero chiesto un intervento della sua famiglia su tutta la comunità calabrese presente in provincia di Milano, al fine di far votare alle prossime consultazioni elettorali la lista del Popolo della libertà. Chi è Salvatore Barbaro? È il giovane e rispettato boss di Buccinasco che incontreremo in molte pagine di questo libro, è l'erede di Rocco Papalia, uno dei capi storici della 'ndrangheta in Lombardia, di cui ha sposato la figlia, Serafina, detta Sara. «Salvatore Barbaro si sarebbe impegnato attivamente con il massimo interessamento su tutta la comunità calabrese - scrivono i segugi della Squadra mobile di Milano - garantendo che i voti sarebbero andati sicuramente alla lista del Popolo della libertà.» Ecco che cosa è maturato quella sera, dietro le quinte, alla discoteca Lime Light: almeno secondo le fonti confidenziali degli investigatori milanesi. Gli impianti ripetevano fino allo sfinimento Meno male che Silvio c'è, ma Marco Clemente aveva già incontrato i suoi misteriosi interlocutori e siglato accordi molto riservati. I protagonisti, secondo l'informativa di polizia, sono il padrone della discoteca, un familiare di La Russa, il boss calabrese Barbaro. Chi è il familiare di La Russa? È Marco Osnato, consigliere comunale del Pdl, genero del fratello di La Russa, Romano. Qual è il patto che viene siglato, almeno nell'ipotesi, prospettata e ancora non provata, degli investigatori? Voti in cambio di appalti. A Milano, come nella Calabria della 'ndrangheta, come nella Sicilia di Cosa nostra, come nella Campania della camorra. Clemente e Osnato avrebbero chiesto voti al giovane boss Salvatore Barbaro. Prosegue l'informativa: In cambio, il familiare di La Russa avrebbe garantito a Barbaro che dal 2009 in poi ci saranno numerosi appalti da assegnare e se le elezioni dovessero essere vinte dal Pdl i lavori più consistenti li commissionerebbero a una società pulita e di copertura che a sua volta li subappalterebbe a lui e ad altri calabresi. Ci vuole dunque «una società pulita e di copertura», disposta a concedere i subappalti ai calabresi. Secondo il rapporto della Squadra mobile, l'operazione potrebbe coinvolgere un noto immobiliarista siciliano che opera a Milano. Chi conosce Ignazio La Russa e i suoi rapporti, non può fare a meno di pensare a Salvatore Ligresti, che viene come i La Russa da Paternò, in provincia di Catania. Poi, «chi di dovere farà in modo che l'azienda conceda in subappalto una buona parte dei lavori alla ditta di Salvatore Barbaro e a qualche altro suo compaesano che lui stesso indicherà attraverso loro prestanome». Attenzione: gli scenari disegnati dalle informative di polizia sono ipotesi investigative ancora tutte da provare. Sono soltanto spunti per indagini ancora da fare. È sempre possibile che qualcuno millanti rapporti che non ha, faccia i nomi di persone, politici e imprenditori, che neppure immaginano di essere tirate in ballo. Di certo, dunque, c'è solo che la fonte riservata all'origine di queste informative di polizia è stata proficuamente utilizzata per anni dalla Squadra mobile milanese in molte indagini sui sequestri di persona.
Il ministro della Difesa Ignazio La Russa, contattato dagli
autori di questo libro nella primavera del 2011, risponde così:
«Si tratta di informative del 2008 che in tre anni d'indagini
non hanno portato ad alcun risultato. E nemmeno avrebbero
potuto farlo, perché le persone che sono citate non le conosco.
Sono deciso a tutelarmi con ogni mezzo».
I boss battono cassa Un'indagine giudiziaria su tutt'altra materia, nel 2009, arriva a lambire gli stessi ambienti raccontati dalle informative della Squadra mobile milanese. È l'inchiesta nel corso della quale viene arrestato, nel dicembre 2009, l'assessore regionale al Turismo Pier Gianni Prosperini. È accusato di corruzione, per aver incassato tangenti. Ma Prosperini viene più volte intercettato al telefono anche con il consigliere provinciale Giovanni Stornaiuolo,`fedelissimo di Ignazio La Russa. I due, parlando del futuro ministro della Difesa, lo chiamano «presidente». E il 23 gennaio 2008, annota il nucleo regionale di polizia tributaria, sono al telefono e discutono di un governo Prodi ormai al collasso. Pianificano la campagna elettorale ormai prossima. «Stornaiuolo - scrivono gli investigatori - dice a Prosperini di prepararsi, che per il suo presidente [La Russa, nda] questa è l'unica opportunità di fare il ministro.» Sì, per Ignazio La Russa quel 2008 è l'anno decisivo per fare il salto nell'alta politica. Anche a costo di qualche forzatura. Così, secondo le informative di polizia, La Russa ha aperto un canale con gli uomini delle cosche, affidando un'«ambasciata» a due persone: «a un suo diretto familiare» (Marco Osnato) e poi a un tale «Clemente» (Marco Clemente, il padrone del Lime Light). Questi viene definito «il trait d'union con il familiare del ministro La Russa». Un'ulteriore conferma delle cattive frequentazioni di Clemente si trova nelle carte dell'inchiesta «Infinito», coordinata da Ilda Boccassini, che nel luglio 2010 porta in carcere 160 presunti mafiosi impiantati in Lombardia. I carabinieri di Monza intercettano il padrone del Lime Light mentre parla al telefono con Loris Grancini, capo ultrà dei Viking della Juventus e campione di poker, considerato vicino a Cosa nostra, che nel novembre 2008 era all'opera «per tentare di far ottenere dei benefici carcerari a Giovanni Lamarmore», il padre del capo della «locale» di 'ndrangheta di Limbiate, nell'hinterland milanese. Nelle telefonate, annotano gli investigatori, i due dicono che «sfruttando conoscenze di personaggi politici che gravitano nell'area di Alleanza nazionale hanno fatto recapitare una lettera al direttore del carcere di San Gimignano... Lamarmore è rimasto contento per questo intervento e vuole sdebitarsi scrivendo una lettera a Marco Clemente». Intanto la situazione politica si consolida. Le elezioni sono andate come previsto. Il 13 aprile 2008 il Pdl ha stravinto. A questo punto, i boss battono cassa, vogliono riscuotere. Lo spiega la seconda informativa della Squadra mobile milanese, quella del 19 maggio 2008, che racconta un incontro cruciale. Marco Clemente si vede in un ristorante milanese con Salvatore Barbaro, il quale si presenta in compagnia di Domenico Papalia, classe 1984, figlio del superboss Antonio Papalia, ora all'ergastolo. | << | < | > | >> |Pagina 54Nel 2006 gli uomini della 'ndrangheta a Milano fanno una scommessa: puntano su alcuni politici lombardi, stringono rapporti con loro. Un paio d'anni dopo, nel 2008, Milano diventa la città dell'Expo 2015 e i calabresi si fregano le mani: sperano che i rapporti stretti possano portare frutti, si possano trasformare in affari. Per riuscirci, provano a cogliere l'occasione delle elezioni politiche anticipate, quelle che nel 2008 seguono alla caduta del governo Prodi.La 'ndrangheta è in grado di gestire in Lombardia un consistente bacino di voti e comunque di determinare il successo di un candidato rispetto ai suoi compagni di partito. Ecco dunque che nel 2008 i boss s'incontrano per decidere le strategie elettorali. Non è la prima volta. Una riunione del genere c'era stata pochi anni prima, il 30 aprile 1999, al ristorante Scacciapensieri di Nettuno, nel Lazio, zona di pertinenza della cosca Novella, con la partecipazione dei grandi padrini del Nord: Vincenzo Rispoli, Domenico Barbaro, Carmelo Novella, Giosafatto Moluso, Saverio Minasi, Vincenzo Mandalari, Salvatore Panetta, Vincenzo Lavorata. Questa volta le scelte da fare sono ancor più determinanti, all'orizzonte ci sono gli appalti dell'Expo. E dunque nella primavera del 2008 i boss calabresi si riuniscono per decidere come procedere e su chi puntare. Ci sono tutti: dai Barbaro di Buccinasco ai padrini della provincia. La scelta cade naturalmente sui vincenti, gli uomini del Pdl. I rapporti proseguono tranquillamente fino al 1° luglio 2010, quando la squadra mobile milanese esegue alcuni mandati di cattura che mettono alle corde gli uomini della 'ndrangheta. Dodici giorni dopo, il 13 luglio 2010, scatta la grande retata: oltre 300 arresti tra Reggio Calabria e Milano, più della metà chiesti da Ilda Boccassini per uomini che operano in Lombardia. È l'operazione «Infinito», che squarcia il velo su omicidi, affari e intrecci politici orchestrati per anni dai boss in terra padana. Scatta in contemporanea con l'operazione «Crimine», condotta dai magistrati antimafia di Reggio Calabria.
La Procura di Milano indica 160 presunti affiliati alla mafia
calabrese, tutti dopo pochi mesi rinviati a giudizio. Cinquecento faldoni,
migliaia di pagine: la maxi-indagine racconta
storia passata e presente della 'ndrangheta in Lombardia.
Omicidi ed estorsioni, battesimi di mafia e summit criminali,
guerre e alleanze, appalti e affari, infiltrazioni e, naturalmente,
rapporti con la politica.
Ci vediamo da Lele Mora Ma neppure le operazioni «Crimine» e «Infinito» riescono a mettere la parola fine al romanzo criminale della 'ndrangheta. La parte di organizzazione rimasta fuori dalle indagini (e fuori dal carcere) si riorganizza immediatamente per proseguire gli affari. È rimasto fuori, per esempio, Paolo Martino, l'anello di congiunzione tra la Calabria e la Lombardia. Suo il compito di ritessere la tela, ricominciare a lavorare per gli interessi dei padrini dopo il maxiblitz del luglio 2010. Con i suoi rapporti, non gli è difficile. Martino è uno che viene da una storia criminale pesante, è stato condannato per omicidio e traffico di droga, ma ormai vola alto, a Milano tiene i rapporti con gli imprenditori e i politici. Il 19 febbraio 2009, per esempio, incontra alla Fiera di Milano un assessore di Reggio Calabria. È Vincenzo Sideri, arrivato a Milano per l'inaugurazione della Bit, la Borsa internazionale del turismo. Martino e l'assessore parlano di Lele Mora. Sì, l'impresario delle stelline tv. Già in passato il Comune di Reggio ha speso 120.000 euro per avere a un suo «evento», come si dice, la presenza di Valeria Marini e altri personaggi della squadra di Mora. Lele piace molto a Martino. Entrambi hanno il cuore che batte per la destra estrema, entrambi amano Benito Mussolini. In casa, Lele tiene un busto del Duce e – racconta – ogni tanto s'incontra con Marcello Dell'Utri per leggere i (falsi) diari del dittatore. Ma in quel febbraio 2009 ha altre preoccupazioni: i debiti. Mora è riuscito a salvarsi dalle inchieste su Vallettopoli, dal punto di vista giudiziario se l'è cavata con un'archiviazione. Ma dal punto di vista finanziario ha le ossa rotte, è a un passo dal crac. Deve vendere la sua villa in Sardegna. Le sue società hanno debiti pesantissimi. Nel giugno 2010 il Tribunale di Milano decreta il fallimento della Lm Management e, nell'aprile 2011, decide il fallimento personale e quello di un'altra sua società, la Diana Immobiliare. Nel giugno 2011, Mora sarà addirittura arrestato, con l'accusa di aver sottratto alla Lm Management più di 8 milioni di euro. Eppure, malgrado stia correndo verso il baratro, Lele Mora nel 2009 non si mostra affatto preoccupato, concede interviste in cui esibisce successo, si mostra soddisfatto della sua situazione e delle sue attività e spiega di essere proprietario, per esempio, di 40 appartamenti dove ospita le ragazze della sua scuderia. Nel febbraio di quell'anno, un personaggio come Paolo Martino discute con un assessore calabrese di eventi che Mora deve organizzare in Calabria. Martino è in contatto con Mora. I due si parlano, discutono di soldi e d'affari e il boss va anche nella casa milanese di Lele, in viale Monza. Martino ha da tempo messo gli occhi sul business delle notti milanesi: discoteche da acquisire, magari attraverso un prestanome (ci riuscirà con il De Sade di via Valtellina): rapporti da consolidare con soci di locali importanti (come l'Hollywood di Vito Cardinale, personaggio centrale della vita notturna milanese, già al centro di un'indagine su discoteche e cocaina); e poi i calabresi controllano i parcheggi esterni ai locali e perfino i chioschi notturni che vendono bibite e panini, reti che non solo rendono economicamente, ma permettono di estendere il controllo del territorio sulla Milano by night. Strana coppia, Martino e Mora. Il primo è in rapporti d'affari con Francesco Lampada, con cui gestisce la Lucky World, la società delle macchinette mangiasoldi. Il secondo ha uno stretto collaboratore, Stefano Trabucco, che non solo è un ragazzo molto noto nelle discoteche milanesi, ma è anche stato per anni amministratore della Lucky Word di Martino & Lampada. E socio anche della Stella Srl, insieme ad altri personaggi poi coinvolti nell'indagine sulla cocaina all'Hollywood: la discoteca-simbolo della Milano by night, in cui Lele, nei suoi anni migliori, aveva un trono dorato da cui guardava scorrere la notte. Martino propone i servizi di Mora all'assessore Sideri, ma poi organizza anche un incontro a tre con il sindaco di Reggio Calabria in persona, Giuseppe Scopelliti (diventato in seguito governatore della Regione). Martino, Mora e Scopelliti si vedono più volte e parlano, presumibilmente, di «eventi» da organizzare in Calabria, per sviluppare il turismo. Certo è che intanto si avviano contatti, si stringono rapporti tra il boss e gli uomini della politica. Il primo incontro con Mora avviene a Milano nel maggio 2006: «Salgo con mia moglie a Milano, così con la scusa mi vedo pure la finale di Coppa Italia» dice il sindaco Scopelliti. Poi Mora, Scopelliti e il boss Paolo Martino si vedono in Sardegna pochi mesi dopo. Sono ospiti di Flavio Briatore, che li invita sul suo panfilo e la sera organizza una festa nel suo locale di Porto Cervo, il Billionaire. All'incontro in Sardegna c'è anche un imprenditore calabrese, Pasquale Rappoccio, massone della Gran loggia regionale d'Italia e titolare della Medinex, che si occupa di forniture sanitarie. L'impresa, secondo un rapporto della guardia di finanza del 2002, «verrebbe favorita nella fornitura di materiale sanitario alla Asl di Palmi, attraverso le ingerenze del boss Antonio Gallico». È Rappoccio che chiama per organizzare gli incontri con Scopelliti: «Lele ha fatto tutto, quando può vedere il sindaco?». | << | < | > | >> |Pagina 155La capitale dello sballo A Milano ogni giorno sei persone vengono ricoverate per overdose di cocaina. In città sono 15.000 i ragazzi tra i 14 e i 19 anni che fanno uso regolare di coca. Intervistato, ecco che cosa racconta un ventitreenne milanese ricoverato al pronto soccorso dell'ospedale Niguarda: «Tiravo come un dannato. Pensavo di essere il più forte, il migliore di tutti, un genio». Come lui, altre 2000 persone dai ceti sociali più diversi ogni anno arrivano negli ospedali in condizioni critiche. Numeri impressionanti che raccontano di una Milano capitale d'Europa dello sballo. In città una persona su sei è schiava dello sniffo. Un dato che supera di ben tre volte la media nazionale. Nel triennio 2006-2008 l'Asl ha stimato un aumento del consumo del 27 per cento. Nel 2010 l'incremento è stato del 40 per cento. L'Istituto Mario Negri, che si occupa di ricerche farmacologiche, ha analizzato le acque delle fogne di Milano. Risultato: ogni giorno in città si consumano 12.000 dosi di cocaina. In questa situazione, le forze dell'ordine sono costrette a pescare nel grande mare dello spaccio al minuto per limitare il danno. Da corso Buenos Aires a corso Como quasi ogni settimana nutrite pattuglie di carabinieri e polizia rastrellano decine di pusher. In Questura si fa la conta degli arrestati e si analizzano le monodosi da 0,3 grammi. Una dose è pagata 50 euro. Presenza di cocaina quasi nulla, in compenso emergono sostanze altamente pericolose come la stricnina o la mannite. Le operazioni dal basso non sono molto utili. È come svuotare il mare con un bicchiere, perché la cocaina a Milano non arriva a grammi, ma a chili. Sul mercato all'ingrosso oggi costa 35.000 euro al chilo. Contando che i trafficanti la comprano a 2000 euro, si può ben immaginare il guadagno.
Bisognerebbe colpire la fonte. Milano è la piazza d'affari per
la cocaina. Qui gli uomini della 'ndrangheta e di Cosa nostra
fissano il prezzo per la droga di tutta Europa. Sono loro i grandi
trafficanti: manager in doppiopetto o giovanissimi rampolli di
famiglie mafiose, anonimi professionisti o vecchie conoscenze
della Procura antimafia di Milano che, dopo anni di galera,
oggi tornano in città con nuovi obiettivi e milioni di euro in
tasca. Le loro sono storie da romanzo criminale.
Nuovi rampolli crescono «Mannaggia la Madonna, ti spacco le corna!» Francesco Barbaro è furioso. «Che vuoi che ti dica?» prova a ribattere Rocco Perre. «Cammina, dai» sibila quell'altro. «Porca puttana, con chi hai parlato? Quando ti dico una cosa quella è. Tu devi fare quello che dico io e non stare ad ascoltare agli altri.» «Ma quello mi disse che la roba andava a 39.000 euro al chilo, poi conto e sono 38.» «E tu, cazzo, tornavi là e gli dicevi: dammi i 1000 che mancano! Quando mai hai fatto una cosa giusta nella tua vita? Così non va, Rocco. Io in questa maniera non posso più stare a Milano. Mo' ferma là, gira, gira...» È l'ottobre 2005. Il suv nero svolta in via Calatafimi, percorre pochi metri e si ferma. Francesco Barbaro scende, torna indietro ed entra al bar Lyon's di Buccinasco. Rocco Perre ingrana la prima e riparte. Sa di avere sbagliato. Il compare ha ragione, lui a quello doveva scucirgli fino all'ultimo centesimo. Perché se no va a finire che in giro si sparge la voce che i calabresi non sono più quelli di una volta. E così tutti diranno: «I vecchi erano un'altra cosa». Mentre ora i giovani sono un po' dei «vincenzi»: gente fessacchiotta, insomma, cresciuta nella bambagia e che in giro si fa grande solo perché porta un cognome di rispetto. Poi, però, stringi stringi, vai a vedere e capisci che anche un «cammello marocchino» con un po' di coraggio li può fottere. No, pensa Rocco Perre, così non può funzionare. Giù a Platì cosa potrebbero pensare? Là fanno affidamento su di lui, e soprattutto su Francesco Barbaro. Quando hanno fatto la riunione, i capi gli hanno affidato gli affari qui a Milano. Una promozione sul campo. Ma 10 chili di cocaina alla settimana da smerciare e soprattutto da farsi pagare non sono un gioco da ragazzi. Al bar Lyon's Francesco Barbaro prende un caffè e chiacchiera con alcuni compari. Qui lo conoscono tutti come il Dottore. Un soprannome di grande rispetto per uno di appena 22 anni e che deve non al titolo di studio, ma all'eleganza: ha una vera passione per gli abiti firmati, griffe preferita Dolce & Gabbana. A Milano ha un fornitore speciale: un tale che prima li ruba e poi li rivende a metà prezzo. Nel bar il Dottore è sempre il più elegante. Vive a Corsico, ma è nato a Locri. Nel suo albero genealogico può vantare parentele criminali di tutto rispetto. Il suo ramo mafioso d'appartenenza è quello dei Nigri o Castani, nessuna parentela diretta con i Barbaro di Buccinasco, con Mico l'Australiano e i suoi figli Salvatore e Rosario. Il sangue del Dottore è lo stesso di quello di Francesco Barbaro 'u Castanu, Giuseppe Barbaro 'u Nigru e Peppe Sparitu 'u Canarino. Gente di 'ndrangheta dal pedigree criminale impressionante. «La famiglia dei Nigri – si legge in un'informativa del Servizio centrale operativo della polizia di Milano datata febbraio 2008 –, imparentata anche con i Papalia, è da considerarsi ai vertici della criminalità organizzata operante in Calabria con ramificazioni nel Nord Italia, in modo particolare nei Comuni di Corsico e Buccinasco.» | << | < | > | >> |Pagina 269Una città nella città Dall'Ortomercato di Milano passa oltre il 60 per cento della frutta e della verdura di tutta Italia. Il suo volume d'affari si aggira attorno ai 20 miliardi di euro l'anno, impiegando 40.000 lavoratori e movimentando circa 60.000 camion al giorno. È una città nella città, dove far rispettare le regole non è semplice e dove controllare non è facile. Chi in teoria dovrebbe farlo è la Sogemi Spa, ovvero Società per l'impianto e l'esercizio dei mercati annonari all'ingrosso di Milano. La denominazione risale al 1980. Precedentemente, a partire dal 21 febbraio 1956, si chiamava Ortomercato Spa. Da sempre è una società controllata dal Comune di Milano, con sede in via Lombroso 54. All'Ortomercato la mafia ha trovato terreno fertile per condurre i suoi affari. Droga e armi sono state più volte scoperte tra cesti di banane o casse d'arance. C'è poco da fare, l'Ortomercato resta un mostro senza testa, una struttura pachidermica in perenne rischio d'infiltrazione mafiosa. Vi operano cooperative di facchinaggio che falsificano i permessi di soggiorno della loro manodopera irregolare, vi lavorano migliaia di clandestini che ogni giorno, all'alba, attendono fuori dai cancelli di essere ingaggiati, vi trafficano personaggi ambigui che gestiscono gli affari con metodi intimidatori.
L'impunità si respira a pieni polmoni. Chi prova a opporsi
ne paga le conseguenze. Ne sa qualcosa Josef Dioli, sindacalista
e rappresentante dei lavoratori per la sicurezza: è stato minacciato e
picchiato, il suo cancello di casa è stato incendiato.
Che cosa aveva fatto Dioli? Nell'ottobre 2007 aveva indetto
il primo storico sciopero dei lavoratori dell'Ortomercato, che
chiedevano il rispetto della legalità. Tra le pieghe di un grande
sistema senza adeguati controlli, la mafia si infila, prolifera e fa
affari. Traffica droga e ricicla denaro fin dentro il palazzo in cui
ha sede la Sogemi.
L'arresto di un insospettabile Antonio Piromalli, nato nel 1972 a Polistena in provincia di Reggio Calabria, vive in un grande appartamento al quinto piano di un palazzo signorile in viale Brianza 33. Pareti bianche, parquet in ogni stanza, arredi di buon gusto. Nel salotto ci sono pochi quadri d'autore, divani color crema e i giochi delle figlie sparsi ovunque sul pavimento. Sul tavolo da pranzo stanno i registri scolastici della moglie, che insegna in una scuola elementare vicino a piazzale Loreto. Quella di Piromalli è una vita del tutto normale: lavoro, scuola, figli e le vacanze da passare rigorosamente in Calabria. A Milano si occupa di frutta e verdura, dividendosi tra gli stand dell'Ortomercato e l'ufficio di via Teodosio della sua Sunkist Srl, società che esporta le arance della Calabria negli Stati Uniti. Per, questo Piromalli viaggia molto. Il 23 luglio 2008 sta rientrando da una trasferta a New York, quando viene fermato all'uscita dell'aeroporto di Malpensa. Gli uomini della Squadra mobile di Milano, guidati all'epoca da Francesco Messina, lo attendono al varco. Gli mostrano il tesserino e il mandato d'arresto. Intontito dalle lunghe ore di volo, Piromalli accenna un sorriso e poi dice: «Andiamo». Quando l'ho visto in tv sono rimasto di sasso. Il signor Antonio, una persona a modo, gentile, salutava sempre, a Natale doveva vedere poi che mance! Sospetti? Che le devo dire? Mai. Con quella moglie e le due bambine. Ogni tanto arrivava qualcuno, ma da lì a pensare certe cose... A parlare è il custode dello stabile di viale Brianza 33, a conferma della facciata «rispettabile» dietro la quale Piromalli ha sempre condotto la sua vita.
In città fa un caldo appiccicoso, le strade si stanno svuotando. Molti sono
già partiti per il mare, chi è rimasto conta
i giorni. Attorno alle sette di sera, in via Montebello ci sono
poche persone. L'Ufficio immigrazione della Questura è chiuso,
qualche agente esce dagli uffici. Un operatore tv con la telecamera in spalla
attende da cinque minuti. Un quarto d'ora dopo,
Piromalli imbocca il corridoio che dagli uffici della Squadra
mobile porta in via Montebello. Ha la testa rasata, gli occhi piccoli e la barba
lunga di un giorno. Indossa una camicia bianca
e pantaloni neri, scarpe di cuoio e al polso porta un Rolex
d'oro. Lo stanno accompagnando al carcere di Busto Arsizio.
In mano tiene un voluminoso faldone: il decreto di fermo firmato dalla Procura
di Reggio Calabria. Capo d'accusa: associazione mafiosa. In quella giornata, a
conclusione dell'operazione
«Cent'anni di storia», oltre a lui finiscono in carcere altre 23
persone, tutte accusate a vario titolo di far parte di una delle
cosche più potenti della 'ndrangheta: i Piromalli, da decenni
padroni della Piana di Gioia Tauro.
Piromalli junior, la terza generazione Per l'ennesima volta, Milano si ridesta dal suo torpore, scoprendosi vulnerabile alle infiltrazioni mafiose. Perché Antonio Piromalli è un capo di peso e lo è per diritto di sangue. Erede di un casato mafioso doc, suo padre Giuseppe, che tutti nel mondo della 'ndrangheta chiamano Facciazza, ha regnato per decenni sulla Piana di Gioia Tauro, ha fatto affari, contribuito a eleggere sindaci, appoggiato politici, estorto a imprenditori e ucciso. Ora si trova al 41 bis nel carcere di Tolmezzo.
Il bastone del comando è passato ad Antonio. Un ragazzo
con la testa sulle spalle che sembra sapere quello che vuole.
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