Copertina
Autore Maria Barbal
Titolo Come una pietra che rotola
EdizioneMarcos y Marcos, Milano, 2010, Gli alianti 180 , pag. 152, cop.fle., dim. 13x20,5x1,2 cm , Isbn 978-88-7168-542-7
OriginalePedra de tartera
EdizioneColumna, Barcelona, 2010
TraduttoreGina Maneri
LettoreAngela Razzini, 2011
Classe narrativa catalana , narrativa spagnola
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Pagina 13

A casa eravamo in tanti e si notava. Evidentemente qualcuno era di troppo. Io ero la quinta di sei fratelli e, come diceva la mamma, ero venuta perché Dio l'aveva voluto e bisogna accettare la Sua volontà. Maria, che era la prima, si occupava della casa quasi più della mamma, Josep era l'erede e Joan studiava in seminario. Quanto a noi tre più piccoli, avevo sentito un mucchio di volte che eravamo più di peso che d'aiuto. Non erano tempi di vacche grasse, con tante bocche e pochi mezzi non si tirava avanti. Decisero quindi che io, che ero docile e assennata, sarei andata a vivere dalla zia, sorella della mamma, che ormai disperava di avere figli e il lavoro non le mancava. Si era sposata con un uomo molto più anziano di lei, che possedeva appezzamenti di terra, almeno mezza dozzina di vacche, polli, conigli e persino un orto. Se la passavano bene, ma avevano bisogno di braccia e compagnia perché cominciavano a sentirsi vecchi. A tredici anni, quindi, con un fagotto al braccio, mio padre da una parte e Maria dall'altra, lasciai la famiglia, la casa, il villaggio e la montagna. Dall'Ermita a Pallarès non ci sono molti chilometri, ma significava comunque una giornata di cammino e perdere casa mia, voltarle le spalle, e questo mi faceva male più di qualunque altra cosa in quel momento, mentre scendevo a valle e l'unico mondo che conoscevo, tutto il mio mondo, restava indietro.

In quelle ore di marcia silenziosa verso il mercato di Montsent, dove papà e Maria avrebbero approfittato per fare provviste e lasciarmi agli zii, mi tornavano alla mente soltanto le cose belle che avevo vissuto al villaggio in cui ero nata e che non avevo mai lasciato se non per portare il bestiame al pascolo in montagna o per scappare alla festa del patrono di quelle quattro case che erano il villaggio vicino. Tanta gente e poco pane.

Ricordo i tre inverni in cui ero andata a scuola: ero stata tra le poche bambine che avevano potuto farlo, perché in casa ce n'erano altre più grandicelle già in grado di lavorare. La fortuna di essere piccola. La maestra ci faceva scrivere con quella calligrafia arrotondata, con le lettere che finivano tutte verso l'alto e la erre con quel ricciolo a sinistra che a me sembrava un cavatappi. E a scuola non soffrivamo mai il freddo, perché la signora Paquita non si lasciava intimidire dalle ristrettezze delle nostre famiglie e diceva che voleva una bella catasta di legna tutte le settimane in aula, perché le lettere hanno bisogno di un pizzico di calore per entrare in testa e, se volevano che imparassimo, bisognava metterci un po' di "buena voluntad". In effetti io quel poco che so, perché poi mi sono dimenticata quasi tutto, l'ho imparato in castigliano. I primi giorni non mi capacitavo che la signora maestra, sbucata chissà da dove, parlasse in quel modo incomprensibile. Finimmo per capirla e anche lei ci capiva quando parlavamo noi, ma non so perché faceva finta di no, come se si vergognasse o fosse un po' in imbarazzo. Mi ricordo di quegli inverni a scuola come fosse ora. Io e Magdalena ci mettevamo sempre vicine, e quando dovevamo leggere a me veniva da ridere e Magdalena si bloccava. La signora Paquita si sistemava gli occhiali sul naso e restava seria come un sergente, e allora mi prendeva quel mal di pancia da risate trattenute e Magdalena continuava e si accorgeva che mi scappava un goccio di pipì nelle mutandine.

Mi piaceva andare a scuola. Era diverso dal solito, ti dava la sensazione che essere bambini non fosse poi così male. A casa eri solo d'impiccio. Se giocavi nel fienile, quei mocciosi mettono tutto sottosopra; se ti avvicinavi al fuoco e frugavi tra le casseruole con le molle, si mettevano a urlare parlando di chissà quali disgrazie; e se raccoglievi sassi o pezzi di legno per giocare, facevi confusione. Solo se aiutavi a mungere, a pelare le patate o a portare la legna eri al sicuro. Ma questo voleva dire essere grandi e per giunta non ti spettava né il porró né il lardo fritto, ché tu sei troppo piccola.

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Pagina 33

Il prato di Tres Aigües era quello che mi piaceva più di tutti. Da una parte lo bagnava il torrentello d'Arlet prima di gettarsi nell'Orri, il ciglio inferiore era delimitato dallo stesso fiume e in cima scorreva il ruscello della fonte della Torna. L'erba cresceva alta e rigogliosa ed era l'unico che dava tre raccolti. Il primo, e poi altri due dopo il taglio. Non era un prato molto grande, e mentre facevamo il fieno ci potevamo vedere l'un l'altro. Per me questa era una delle sue attrattive, perché nei due prati di Costa Varada all'improvviso non vedevi più nessuno. Sapevo che erano dietro quel dosso o nascosti dal filare di noccioli, ma d'un tratto mi prendeva quella sensazione di essere completamente sola e ricordavo le avventure che avevo ascoltato terrorizzata un centinaio di volte e che parlavano di vipere e serpi di ogni tipo; mi si piegavano le gambe all'idea che tra l'erba che rigiravo... e sarei andata a bere un goccio di vino dalla botticella se non mi avesse trattenuto il pensiero che lo zio mi avrebbe preso in giro. Passavo il rastrello senza perdermi un solo movimento, finché alzando la testa compariva il fazzoletto scuro della zia, e allora mi tornava tutta la tranquillità del mondo.

Avevamo trascorso il pomeriggio rivoltando l'erba di Tres Aigües. Cominciava a fare buio. I noccioli sul margine del prato stormivano nella brezza. Sentii il fischio dello zio e raccolsi rastrello e forcone. Il fazzoletto in testa mi teneva caldo e sentivo il sudore bruciare sulla fronte all'attaccatura dei capelli. Quando me lo tolsi udii vari rumori; soprattutto, il ronzio delle zanzare. Corsi su per il prato e, prima di salire sul carro, mentre aspettavamo la zia che si era attardata a chiudere lo steccato, guardai la terra, frammentata in fazzoletti disuguali. Pensai che anche il più ricco del paese in realtà era molto povero. Quei campicelli davano al massimo quattro carichi d'erba. La mula sembrava osservarmi con il suo occhio pacifico, e io le passai la mano sul muso.

Allungando il collo, si vedeva il campanile tra le case di Pallarès e, mentre scendevamo verso casa, le pietre facevano sobbalzare le ruote del carro e sembrava che ci dovessimo capovolgere.

La zia e io sedevamo in fondo. Sentivo l'erba odorosa e accogliente nella sua morbidezza. A un tratto la zia mi disse che mi volevano dalla parrocchia per portare il vassoio del basilico il giorno della festa del patrono. Ci andrai, sistemeremo un vestito, aggiunse prima che io avessi aperto bocca. E allora io, sballottata dal carro, mi resi conto di tremare. Era la gioia.

Con gli occhi chiusi, come mi sembravano lontani i primi giorni della mia nuova vita, le notti in cui mi addormentavo piangendo dopo aver pensato, uno per uno, a tutti quelli di casa mia; i risvegli di soprassalto e la paura che non mi abbandonava per tutto il giorno. Mi ero abituata in fretta a un cambiamento così grande. A ben vedere, però, erano già passati poco meno di sei mesi. E ora mi sentivo, se non del tutto, quasi come se fossi nata in quella casa.

La zia, a conoscerla, si faceva voler bene, perché era generosa se seguivi alla lettera quello che ti comandava di fare. Era sempre lei a decidere come andavano fatte le cose, e non voleva essere contraddetta da nessuno. Non era un tipo espansivo, proprio come la mamma, ma a modo suo sapeva dimostrare affetto. Quel bicchiere di latte appena munto davanti al mio piatto, senza una parola. Sapevo bene che lo tenevano da conto per i vitellini e, se avanzava, ne mettevano da parte qualche litro per portarlo da August e guadagnare qualche soldo.

Lo zio taceva sempre, come quel primo giorno in groppa alla mula, ma non voleva dire che fosse arrabbiato. Io mi facevo in quattro per aiutare. Lavoravo e lavoravo. Avevo imparato a sbrigare tutte le faccende, sia in casa che fuori. Facevo tutto come me l'avevano insegnato, senza metterci un solo gesto mio che potesse apparire come una mancanza di rispetto.

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Pagina 69

I nostri vicini da un lato della casa, erano le persone più stravaganti del paese. La famiglia era composta dal padre, all'incirca dell'età dello zio, le due figlie e il genero. Soledat, che era ormai una zitella matura, e Tereseta, che si era sposata con il povero Lluís due inverni prima di Jaume e me. La madre era morta da anni, prima che io andassi a vivere dagli zii. Si chiamava Trinitat, e quando lei era in vita suo marito passava per uno smidollato. Dicevano fosse una donna di poche parole, anzi, in giro si sussurrava che fosse una strega. Non usciva mai e l'unico momento in cui si faceva vedere era quando spiava da un angolo delle finestre oppure dal balcone aperto, se c'era bel tempo. Avevano tutti paura di lei, ma nei casi disperati andavano a consultarla. Consigliava pozioni e recitava preghiere; chi aveva salito la scala strettissima che portava al primo piano non voleva raccontare nulla, una volta uscito. Un'amica intima della zia le aveva riferito che era tutto sporco come un bastone da pollaio, e che dappertutto erano appesi mazzi di erbe secche, e che entrando e uscendo aveva visto una zampa di corvo inchiodata alla porta che le aveva fatto gelare il sangue nelle vene.

Morta Trinitat, dunque, suo marito aveva cominciato a raccontare agli sfaccendati della piazza, vecchi come lui e bambini, che le sue figlie, a cominciare dalla maggiore, avevano diritto al trono d'Inghilterra. La notizia, naturalmente, fece presto il giro del paese: in modo piuttosto confuso perché, tanto per cominciare, poca gente sapeva anche solo vagamente dove si trovasse quella terra. Le figlie, invece di pensare che il padre fosse diventato matto, gli davano corda e diventavano delle belve quando i monelli ridevano in faccia a Soledat e la chiamavano regina in tono di scherno. Tereseta, cui la corona sembrava un po' più lontana, si scaldava meno, ma aizzava suo marito contro i ragazzini chiamandolo a squarciagola dalla strada, cosa che non faceva che scatenare altre sonore risate. Il povero Lluís faceva finta di non sentire e quando il suocero usciva in strada si cercava subito qualcosa da fare il più lontano possibile: in cortile oppure nell'orto, e quel giorno rientrava tardi per la cena e così via. Era l'uomo che rigava più dritto in tutto il paese, lo sapeva chiunque.

Fatto sta che Soledat spaventava i bambini e più di una volta era stata sul punto di farne cadere qualcuno a terra mentre li inseguiva per zittirli. Era una donna ormai prossima alla quarantina: alta e segaligna, con i capelli raccolti in una piccola crocchia al centro del cranio e la faccia solcata da numerose rughe, bruciata dal sole e con due occhietti che sembravano sempre sul chi vive. Quando arrivava l'autunno si metteva un fazzoletto nero che le copriva non solo i capelli ma anche parte della fronte, e non se lo toglieva più finché non ritornava l'estate. Sia lei che Tereseta erano donne scontrose che non davano confidenza a nessuno, se non per attaccar briga e inaugurare inimicizie che duravano tutta la vita. Quando si impuntavano, non c'era verso che cambiassero idea.

Stavo salendo a fatica le scale con un fascio d'erba per i conigli. Soledat mi vide dal balcone e si accorse che ero incinta. Mi toccò starla a sentire mentre mi diceva ma guarda, un'altra volta, certo che io e Jaume ci davamo parecchio da fare, con una risatina che mi fece diventare tutta rossa. E poi, in un tono offensivo e piantandomi quegli occhi di gazza nell'anima, disse: sarà un'altra femmina.

Arrivò con la primavera del 1923. Era l'ultimo giorno di marzo e la notte gelava ancora. La chiamammo Angeleta.

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Pagina 95

Gli angeli della chiesa di Pallarès non avevano occhi sulle ali. Io, devo dire, le cose della religione facevo un po' fatica a capirle, e mi perdevo quando don Miquel prendeva la parola. Attaccava a parlare e andava avanti a lungo prima di fare una pausa. Quando arrivava alla fine del discorso, da un pezzo io ero volata a casa, ai prati, o anche più lontano, agli occhi degli angeli dell'Ermita, che mi guardavano fisso perché confessassi, sinceramente, se ero stata buona.

Quella domenica, però, il sermone di don Miquel toccava argomenti più terreni, e quando cominciò a parlare degli uomini del nostro villaggio io mi aggrappai alle sue parole come alle briglie del cavallo. Diceva che non si potevano stravolgere le cose come Dio le aveva create; che di questi tempi l'uomo voleva sentirsi superiore e agiva senza chiedersi se si stavano sovvertendo le disposizioni di Nostro Signore, che aveva detto qui devi correre senza cambiare strada. Quando lo sentii dire correre, pensai all'acqua di Sarri. Sciocchezze, non poteva riferirsi a quello. Continuai ad ascoltare: c'era un ordine stabilito che bisognava accettare, nascessimo ricchi o poveri, sani o malati. Agli occhi di Dio eravamo tutti uguali, nel momento della morte. E questo era quel che importava. Da qualche tempo gli uomini, a furia di parlare di giustizia e libertà, stavano mandando il mondo gambe all'aria, e anche loro stavano perdendo l'equilibrio mentale, con il rischio di dannarsi per l'eternità. Al primo banco, vicinissimo al pulpito, la vecchia di casa di Sebastià faceva sì con la testa, come se fosse d'accordo su tutto. Il parroco finì col rivolgersi alle donne, dicendo che dovevamo guidare i nostri uomini verso Dio e riportarli sulla retta via quando li vedevamo perduti. Perché, altrimenti, la punizione divina sarebbe ricaduta su tutta la famiglia.

Quando ebbe finito la predica, la zia mi diede una gomitata e il suo sguardo intelligente incrociò il mio. Mentre uscivamo mi disse che don Miquel era sempre stato un leccaculo dei ricchi e che ora lo costringevano a impicciarsi di cose che non lo riguardavano. Allora capii che quel sermone era diretto proprio a me. La zia non aveva peli sulla lingua e questo rafforzava il mio desiderio di dimenticare al più presto quelle parole. Avevo già abbastanza a cui pensare con tutto il lavoro che mi aspettava a casa e il pancione che ora, all'uscita dalla chiesa, attirava chiacchiere, parole gentili e anche occhiate di traverso.

Le bambine erano contente dell'arrivo di un fratellino, questo le aveva unite e una gli sferruzzava un paio di scarpette mentre l'altra gli cuciva una camiciola di cotone. Io ero appesantita, soprattutto le gambe, e la giornata mi sembrava lunga, anche se Elvira lavorava di buona lena. Se era un maschietto, Jaume gli aveva già trovato un nome. Si sarebbe chiamato Mateu. Come il padre di Jaume. Se era una femminuccia, voleva che si chiamasse come me. A volte, Mateu mi piaceva; altre volte, mi faceva pensare a mattatoio, ammazzare. Ma mi scoprivo spesso a pronunciare questo nome e mi ci stavo abituando. E se non fosse nato un maschio? Quell'uccellaccio del malaugurio di Soledat non mi aveva detto niente, e questo mi faceva ben sperare.

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Pagina 113

Pioverà? Dalla grata che abbiamo sopra la testa si vede un pezzetto di cielo. Com'è lunga l'attesa di chissà cosa!

Vedo Elvira che discute con i soldati sulla porta. Ora la fanno uscire. Ahi! Cosa sta succedendo? La gente mi guarda, non so se con risentimento o commiserazione.

Ecco che torna. Porta due coperte. Mi si avvicina. Ha parlato con la zia. Il bambino sta bene, è con Delina. Le ha anche detto che è andata a protestare nella casa dove lavorava, e anche in canonica, dove ha avuto l'impressione che non potessero fare niente, ma aspetta una risposta. Che coraggio, povera donna...

È già passato mezzogiorno e non ci hanno ancora dato niente. Che ci facciano uscire?

Sono più rassegnata. Ci tocca affrontare tutto questo, ma può darsi che presto saremo di nuovo insieme e ci racconteremo queste angosce come acqua passata.

Siamo tornati sul camion. Credo che sia lo stesso di ieri. Elvira parla con i soldati... Scherzano. Siamo diretti a valle, verso la pianura. È tutto così bello che non sembra possibile che qualcuno debba soffrire, per piccolo e povero che sia. Ovunque cinguettano gli uccelli, il fiume luccica alla nostra sinistra, il sole è finalmente sbucato dalle nuvole e ora è forte come d'estate; i pini lassù, i pioppi e i frassini intorno sono immobili. Soltanto noi avanziamo. Verso valle, sempre. Non si vede nessuno per strada, neppure nei paesi che attraversiamo. Solo gruppi di soldati armati come quelli che ci sorvegliano. E noi senza sapere dove andiamo. Dobbiamo soltanto tacere. Ci rimane un tozzo di pane. Lo dividiamo con i più vicini. Qui non ci sono differenze. Siamo tutti fratelli, e dei più poveri. Raccolgo le briciole dalla gonna, a una a una; è difficile, con questi scossoni; non ho fame, ma chissà quando assaggerò di nuovo questo pane fatto in casa...

Ci hanno tenuti fermi per un pezzo. Non so di cosa discutessero tra loro. Elvira si avvicina e mi dice all'orecchio che andiamo a La Noguera, per il momento. Che sicuramente ci passeremo la notte. La guardo e mi sembra un angelo, tanto è bella. Anche così, sporca e spettinata. Assomiglia a suo padre più di tutti gli altri... E lui, cosa starà facendo, poveretto, sicuramente pensa molto a noi.

Non ero mai stata a La Noguera. È grande. È il capoluogo. Qui sì che se ne vede di gente. Ci guardano da lontano come se portassimo la peste. E la portiamo: la paura, l'incertezza, la sofferenza... Ora dicono che la prigione è piena. Dovremo restare fino a domani in un locale, sopra la rimessa degli autobus. Per fortuna è grande. Ci mettiamo gli uni vicini agli altri, con l'istinto di proteggerci a vicenda. Andiamo a srotolare il materasso per riposare le ossa. Ma cosa succede? Elvira mi salta al collo e mi stringe così forte che per poco non mi soffoca. E piange, piange senza tregua... Non riesco a farla parlare. Cosa c'è, cosa c'è, tesoro? Quando comincio a mormorarle: guarda che tutto questo passerà, domani forse... mi zittisce. Mamma, mamma, stamattina li hanno ammazzati tutti vicino al ponte. Me l'ha detto un soldato che è di Montsent e che mi conosce, ma finora... La notizia si sparge per la sala, e le grida e le lacrime si mescolano a nomi e silenzi e persone che cadono a terra e la paura dei piccoli, che non sanno cosa fare. È come se mi spaccassero il cuore in due con un'accetta, ma non mi esce una lacrima, né un grido, né una goccia di sangue. Le due figlie mi abbracciano, una per parte, e sento il loro pianto come un'acqua che non può lavarmi la ferita. Angeleta seppellisce il capo nel mio grembo e posso accarezzarle i capelli con la mano destra. A poco a poco, una ciocca mi si avvolge intorno alle dita e penso al viso di Jaume, sempre sorridente. Una donna giovane urla e si strappa i capelli. Finisce a terra, emettendo una specie di rantolo. E ora sento finalmente che le guance mi si bagnano, e invece di uscirmi un grido provo un forte dolore alla gola, come se mi strangolassero...

Entra un soldato con certi occhi che sembrano schizzargli fuori dalle orbite, e grida: "Silencio y a dormir".

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