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| << | < | > | >> |Indice7 Introduzione Parte prima Figure di cronica normalità 19 Capitolo primo Giacobbe Liberati 39 Capitolo secondo La schizofrenia come inconscio psichiatrico 57 Capitolo terzo La schizofrenia e i suoi sintomi 83 Capitolo quarto Il caso clinico e la psichiatria: metodologie di osservazione Parte seconda Filosofia della schizofrenia 121 Capitolo quinto Bateson, Deleuze, Foucault tra misteri, fantasmi e frammenti 137 Capitolo sesto Il grande circo della terapia: telepatia, transfert, empatia, ironia 159 Capitolo settimo L'enigma della famiglia 177 Bibliografia |
| << | < | > | >> |Pagina 7Introduzione
Il faut κtre deux pour κtre fou, on est toujours fou à deux.
Gilles Deleuze,
Logique du sens
Questo volume intende recuperare un pensiero antropologico sulla schizofrenia nell'epoca della tecnica chimica (Heidegger 1953). Non si tratta solo, né principalmente, di un libro sulla schizofrenia, bensì di un'analisi del discorso intorno alla schizofrenia a partire da tre autori che hanno indagato il fenomeno dal punto di vista antropologico, storico e filosofico: Gregory Bateson, Michel Foucault e Gilles Deleuze. I tre hanno in comune il fatto di non essere psichiatri. Questo è infatti un libro che guarda la schizofrenia da un punto di vista non psichiatrico, il che non significa antipsichiatrico. Al contrario, proprio perché interamente non psichiatrico, questo libro non intende affatto negare la validità di alcune assunzioni psichiatriche come l'ipotesi di una componente chimica, legata ai neurotrasmettitori, o addirittura di una componente genetica ma piuttosto recuperare le radici di un pensiero di matrice diversa. Θ paradigmatico, per esempio, che Gilles Deleuze, in un'intervista a Claire Parnet (2005), dichiari più volte di non essere contrario agli psicofarmaci, di non avere affatto l'idea, quanto mai banale, che le questioni mentali debbano essere affrontate in termini di territori da difendere, o di battaglie da combattere tra psichiatri, psicologi e filosofi. Questo volume è dunque lontano dalla posizione della psicologa clinica Mary Boyle (1990), che sostiene che il delirio consista principalmente nell'idea che esista qualcosa come la schizofrenia. La ricerca di Boyle è tuttavia interessante poiché mostra come, in diverse epoche storiche, differenti sindromi neurologiche siano state definite come schizofrenia. L'intento di Boyle è quello di mostrare che "il re è nudo". A me non interessa. Vedo quotidianamente, come psicoterapeuta o come consulente di altri terapeuti, famiglie con componenti per lo più figli con una diagnosi di psicosi maniaco-depressiva, di depressione maggiore o di schizofrenia. Ho imparato da loro che cosa significhi e, avendo avuto la fortuna di esercitare questa professione dalla fine degli anni Ottanta, ho avuto modo di osservare gli sviluppi e le differenze profonde nel sistema dei significati della schizofrenia in questo ventennio. Sono stato testimone di importanti cambiamenti legati all'introduzione della somministrazione dei cosiddetti antipsicotici atipici, che ha mutato la conversazione della famiglia a transazione schizofrenica, conversazione intorno al farmaco e alle emozioni espresse dai familiari del paziente. La famiglia dello schizofrenico è una famiglia virtuale. Mentre per l'isteria Freud aveva ipotizzato un trauma originario reale, un stupro consumato, un abuso sessuale perpetrato, trasformato in un sintomo dal corpo, vincolato psichicamente, convertito in una disfunzione organica priva di cause funzionali, per la schizofrenia si può assumere il contrario: un delirio che cerca un trauma originario virtuale, uno stupro mentale, un abuso dell'assenza. Nell'isteria è il corpo che delira, imbroglia, segnala sintomi senza segni. Nella schizofrenia i segni non presentano sintomi. Isteria e schizofrenia sono entrambe immagini di frammentazione. Nell'isteria c'è un organo che funziona male senza ragione, un delirio del corpo. In questo caso la disposizione a trasformare il delirio fisico in un delirio psichico libera energie mentali che possono avere esiti interessanti, purché esse non trasformino l'isterico in uno schizofrenico; in tal caso è il clinico che deve valutare in che modo disporsi nella conversazione. Nella schizofrenia il delirio è già psichico, non necessita di alcuna trasformazione. Una possibile lettura della schizofrenia potrebbe essere diretta a riconoscerne la forma logica, a collegarla all'ordine familiare, a ricostruire intorno a ciò una biografia, a partire dai frammenti, a trasformare il delirio in metafora, a dare un tenor al vehicle che si muove liberamente in uno spazio senza rete. Questo sarebbe un modo per pensare la psicoterapia nella direzione di una clinica per la cura della schizofrenia. Tuttavia, vi è anche un'altra interpretazione: perché dare un tenor al vehicle e trasformare il delirio in metafora? Perché costruire una biografia che connetta í frammenti? Che diritto etico ha il terapeuta di curare lo schizofrenico? La mia collocazione si mostra, direbbe Wittgenstein, dall'esercizio della mia professione. In questo modo affrontiamo questioni di bioetica della psicoterapia. Il titolo del libro, Lo schizofrenico della famiglia, intende evocare due opere tra loro assai differenti: I giochi psicotici nella famiglia, di Mara Selvini Palazzoli, e L'idiota della famiglia di Jean-Paul Sartre. Di Selvini Palazzoli tratterò a lungo: rappresenta un punto di riferimento necessario per la mia formazione, sebbene le mie posizioni siano oggi assai differenti da quelle da lei espresse, in particolare in quel libro. Il titolo stesso di quel testo usa la preposizione in nella famiglia indicando fin da subito che la schizofrenia è una costruzione interna ai giochi familiari. L'interpellazione schizofrenica sta, per Selvini, interamente dentro le dinamiche familiari. Dinamiche, secondo questo discorso, sia esterne all'individuo che estranee al sistema sanitario e storico-culturale. Una questione di famiglia. La terapia della famiglia si trasforma così in un dispositivo. Diverso sarebbe stato se, almeno nel titolo, si fosse inserita la preposizione di della famiglia perché si sarebbe data un'indicazione che avrebbe potuto concernere anche le relazioni tra la famiglia e i terapeuti, la famiglia e i servizi psichiatrici. La famiglia sarebbe stata vista, in questo caso, come una palestra per la schizofrenia, un luogo dove si può diventare schizofrenici. Ciò avrebbe portato Selvini e collaboratori ad affrontare una menzogna storico-sociale, quella dell'ordine familiare come ordine naturale. La questione fu posta da Bateson, come vedremo più avanti. Semplicemente Selvini e colleghi non si interessarono a quelle questioni, del tutto intenti a dimostrare come funzionano i giochi nelle famiglie schizofrenogeniche, come se questa fosse una peculiarità di alcune famiglie e non una caratteristica potenziale dell'ordine familiare.
Di
Sartre
nel libro quasi non si parla. Imparai a conoscerlo
grazie a Franco Fergnani, trent'anni fa. Avevo letto
L'essere e il nulla,
ma non l'avevo capito. Preso dalla lettura di Heidegger e dalla convinzione
della sua superiorità rispetto a Sartre, incontrai, nelle lezioni di Fergnani
sulla
mauvaise foi,
alcune preziose indicazioni che mi portarono ad apprezzarlo
e a rivolgere i miei interessi alla psicoterapia.
L'idiota della famiglia,
opera interminabile, descrive un Flaubert che somiglia allo schizofrenico della
famiglia. Da bambino mostra, oltre ogni possibile speranza, i segni di una
semplicità che fanno pensare all'idiozia, mostra di non portare a termine il
percorso che richiede l'operazione verbale, come se il segno
valesse per la sua
materialità sonora
e "il senso, anziché farsi schema concettuale e pratico... rimanesse agglutinato
al segno" (Sartre 1972, p. 22).
Descrizione che evoca l'ontologia deleuziana della frammentazione, soprattutto
dove, come in
Logica del senso,
ci si richiama al tema della regressione del
linguaggio al rumore nella schizofrenia (Deleuze 1969, pp. 101-114). Θ ovvio che
non tutti gli schizofrenici, o gli autistici, diventano Flaubert, ma non
possiamo negare che lo studio di Sartre vada nella direzione, indicata in questo
libro, di un'anormalità sovrabbondante, di una degenerazione ridondante,
piuttosto che di un deterioramento mentale.
Questo libro non ha un intento accademico, bensì pratico e clinico. Θ un tentativo di ricostruire una clinica psicoterapeutica familiare, individuale o gruppale, sistemica o psicoanalitica della schizofrenia. Non credo che una definizione rigida del setting possa aiutare. Ritengo che ciò che aiuta nella clinica con il paziente schizofrenico sia la disposizione, che non è né il dispositivo, né la disponibilità. Il dispositivo omologa le forme dell'interpellazione, le produce come categorie diagnostiche da implementare nelle pratiche mediche in maniera standardizzata. Si costituisce ogni volta che le disposizioni, anziché emergere dalla conversazione, si trasformano in discorso. La disposizione di rimanere quarantacinque minuti a conversare con il paziente diventa dispositivo quando, anziché emergere dalla conversazione, viene prescritta dall'istituzione; la disposizione a vedere tutti i membri di una famiglia diventa dispositivo quando si prescrive che siano tutti presenti in seduta. La disponibilità non si può avere con tutti. Come osserva Zizek (2004), fortunatamente ognuno di noi ama/odia un numero assai limitato di persone, verso le quali ha disponibilità a educarle, a farci l'amore, a coccolarle, ad ascoltarle per ore e ore, ad ammazzarle, a seconda dei casi e delle circostanze e prova una certa indifferenza per la stragrande maggioranza della popolazione mondiale. La/lo psicoterapeuta è a disposizione di questa enorme fetta di popolazione, che nella vita quotidiana le/gli è indifferente, in cambio di un compenso economico. Questa indifferenza è costitutiva della disposizione. Dice Deleuze (2002b, p. 313) a proposito di Winnicott: "di condividere, di andare incontro al malato, bisogna darci dentro, bisogna condividere il suo stato. Si tratta forse di una sorta di simpatia, o di empatia, o di identificazione? Di sicuro, è qualcosa di assai più complicato". Lo vedremo, in linea teorica, nel sesto capitolo e, in linea pratica, nei casi clinici trattati nella prima parte del volume, in particolare nel caso di Giacobbe Liberati. La disposizione rende la terapia un contesto disposizionale, un luogo dove ci si può prendere cura di sé. Un cerino si può accendere, un ombrello aprire, una terapia frequentare. Nel medesimo tempo, poiché la terapia è un contesto disposizionale, si tratta di un luogo in cui si possono costruire, nella conversazione, condizioni controfattuali. Che altro sono le narrazioni oniriche se non situazioni controfattuali? E le domande ipotetiche in psicoterapia sistemica? Controfattuale è tutto ciò che non si mostra attraverso i fatti, tutto ciò che non ha referenzialità esterna al linguaggio. L'opera letteraria consiste di un insieme di controfattuali. Eventi mai accaduti, che ci permettono, come ha osservato Deleuze (1993, p. 11), di delirare. Di uscire fuori dal campo. Nello scrivere questo libro ho fatto uno sforzo per cercare idee fuori dal campo clinico, nella letteratura, in filosofia, in antropologia, nel teatro, nel cinema. Qual è essenzialmente l'apporto di Bateson, Deleuze e Foucault? Questi pensatori hanno contribuito, come nessun altro, a depotenziare la metafora della schizofrenia, a ridimensionare il peso del significante schizofrenia e a renderlo una variante dell'umana esistenza, connettendolo alla nozione di creatività, di proliferazione e di molteplicità. Hanno contribuito a connettere la schizofrenia e il delirio alla possibilità di vedere il molteplice come irriducibile all'uno e l'uno come irriducibile al molteplice. Il testo si compone di due parti: una clinica, l'altra antropo-filosofica. Nella parte clinica del libro, attraverso la presentazione di alcuni casi, intendo dar conto delle metamorfosi dello schizofrenico della famiglia, che mi hanno portato ad assistere al florido delirio paranoide che si manifestava dentro la famiglia e dentro le sedute di terapia familiare, fino a sette, otto anni fa e al piccolo delirio minimalista che si manifesta attualmente, e che viene scoperto durante la conversazione, attraverso buone pratiche di conduzione di seduta a seguito della diffusione del trattamento neurolettico atipico. La parte clinica esordisce dunque con il racconto di un delirio. Si tratta del caso Giacobbe Liberati, al quale avevo dedicato un breve saggio nel 1998 e al quale devo gran parte delle mie conoscenze intorno al delirio come pratica di conversazione. Il caso è significativo in primo luogo perché, durante la conversazione, Giacobbe racconta il suo primo episodio delirante e descrive in modo preciso e dettagliato il suo modo di vivere la lettura del pensiero. Inoltre Giacobbe mette in luce un fenomeno quasi del tutto scomparso negli studi di psicoterapia: il delirio florido. Il secondo capitolo rappresenta un tentativo, ancora poco sviluppato, di ricostruire il discorso psichiatrico intorno alla schizofrenia a partire dal suo inconscio, l'inconscio psichiatrico, s'intende, perché forse il problema della schizofrenia è proprio quello di possedere qualcosa che somigli all'inconscio, se almeno si intende con ciò l'inconscio classico, ciò che nasconde/protegge il materiale rimosso. Si passano in rassegna le teorie psichiatriche e le forme storiche di aggettivazione della schizofrenia e si mette in evidenza come l'inconscio psichiatrico consista proprio nella mancata analisi della relazione tra le teorie psichiatriche, le istituzioni di diagnosi e cura e la costruzione sociale delle caratteristiche della schizofrenia. Il caso clinico di Gianmaria, che viene messo a confronto con quello di Giacobbe Liberati, mostra come lo schizofrenico nell'epoca della tecnologia chimica presenti un delirio minimalista, che può emergere dalla conversazione terapeutica. Il capitolo successivo passa in rassegna il discorso psichiatrico contemporaneo sulla schizofrenia: il rapporto tra sintomatologia positiva e negativa, le varie forme in cui si manifestano le allucinazioni, il delirio, le idee di riferimento. Perché un capitolo di questo tipo quando ci sono decine di manuali di psichiatria? Perché, in generale, nei manuali di psichiatria, i sintomi vengono descritti senza alcuna riflessione antropologica, come se non riguardassero affatto lo psichiatra che, al più, può, a sua volta, diventare schizofrenico e andare dall'altra parte del servizio. In particolare la riflessione si concentrerà sui misteriosi sintomi negativi, quei sintomi che, per essere rilevati, devono mostrare l'assenza di un comportamento: un mistero per la psichiatria, che non possiede alcun mezzo chimico per curarli e che dunque li fa rimanere in generale tali anche dopo il trattamento farmacologico, ma un mistero affascinante per un terapeuta curioso, spinto a indagare insieme al suo paziente. Fortunatamente la chimica ci lascia sempre qualcosa da analizzare... Il quarto capitolo, l'ultimo della prima parte del volume, costituisce un contributo critico al metodo di presentazione dei casi di schizofrenia. Storicamente questi casi sono stati presentati senza tenere conto del contesto di sviluppo del disordine. Raramente, ad esempio, si è pensato, durante la presentazione di un caso di schizofrenia catatonica, che la catatonia del paziente avesse a che fare con l'ambiente di ricovero o con il trattamento sanitario. Ci sono state ricerche cliniche sulle reazioni emotive dei familiari alla sintomatologia del paziente, quasi mai sulle reazioni dell'ambiente comunitario e dei servizi di diagnosi e cura. L'esempio di un caso presentato dalla psicoanalista tunisina Neja Zemni costituisce, a oggi, una rara eccezione in letteratura. Quattro casi clinici, ridenominati con i nomi degli evangelisti, concludono il capitolo. Di questi segnalo il caso di Luca, perché permette di fare una breve digressione dal metodo del discorso psichiatrico a quello psicologico, di analisi del funzionamento mentale. Un vero disastro culturale. Vedremo che il supposto deterioramento mentale spesso viene confuso con un modo di ragionare differente da quello che attribuisce alti punteggi ai test. La seconda parte del volume tratta invece della filosofia della schizofrenia a partire dal contributo di Bateson, Deleuze e Foucault. Come già detto, questi tre pensatori non sono dei clinici, benché si siano occupati del fenomeno in modo assai più vario e stimolante di molti clinici di professione. Si tratta di un antropologo che però è stato anche etologo, filosofo, cibernetico e ha partecipato a numerosi congressi di psicoanalisi , di un filosofo che però è stato anche critico letterario, cinematografico, d'arte figurativa e ha collaborato con psichiatri e psicoanalisti e di uno storico sui generis, che ha riorientato il modo di pensare la storia. In particolare Foucault ci ha insegnato a indagare la genealogia dei discorsi e la sua efficacia nel costruire corpi docili. Il quinto capitolo, primo della seconda parte del libro, è un intreccio dello sviluppo di alcuni concetti su schizofrenia e psichiatria con alcuni momenti della biografia di ognuno dei tre. Mette a fuoco il tema del double bind, caro a Bateson, e quello della frammentazione come questione ontologica, caro a Deleuze. Il capitolo sesto sottolinea invece le questioni della relazione terapeutica con lo schizofrenico a partire dalla posizione classica in psicoanalisi che assume l'impossibilità di analizzarlo. Per converso, il percorso critico di Foucault, in relazione a Freud e Husserl, pare giungere a una necessaria rivalutazione dell'ironia come pratica clinica che diluisce l'empatia dominante nei setting psicoterapeutici e come strumento fondamentale nella conversazione schizofrenica. L'ultimo capitolo infine, il più difficile e controverso, riguarda la famiglia. Perché la famiglia e perché il titolo Lo schizofrenico della famiglia? Perché sono un discendente della scuola di psicoterapia della famiglia di Milano (si può leggere sia accentuando psicoterapia della famiglia, che famiglia di Milano) che, a partire dagli anni Settanta, si è cimentata con la terapia della schizofrenia; perché è nella famiglia che, dalla chiusura dei manicomi, vive lo schizofrenico, è lì che sviluppa il suo delirio, è lì che diventa paranoide, mentre in manicomio diventava più facilmente ebefrenico, oppure catatonico. La famiglia, anche in questo senso, è per lo schizofrenico una grande possibilità di libertà, un campo etico aperto. Anche la famiglia più brutale e abusiva difficilmente toccherà i livelli delle antiche istituzioni manicomiali. Negli ultimi anni, con la somministrazione generalizzata dei neurolettici atipici, la schizofrenia è ulteriormente cambiata e le famiglie dei pazienti schizofrenici manifestano nuove angosce e nuove preoccupazioni. La diminuzione o la scomparsa dei sintomi positivi, in conseguenza dell'assunzione del farmaco, non tranquillizza la famiglia. In vent'anni di psicoterapia familiare numerose famiglie si sono rivolte a me e ai miei colleghi con la richiesta di normalizzare il paziente designato. Con i pazienti psicotici, spesso la richiesta è opposta: ci si domanda come mai, dopo il primo periodo delirante, a seguito del trattamento psichiatrico, il paziente designato sia così normale. Il libro insegue un'idea di famiglia che ha poco a che vedere con la famiglia concreta del paziente. A questa viene sostituita l'idea di un ordine familiare che si presenta come un insieme di funzioni variabili, ma che poggia su un'origine enigmatica e inquietante. Lo schizofrenico della famiglia è colui che va cercando questa genealogia, colui che, nel suo delirio florido e paranoide, sostituisce l'Altro all'ombra, presentandosi come un libro aperto uno di quei libri di cui Blanchot direbbe: "Se nelle biblioteche esiste un inferno, è destinato a questo libro" (Blanchot 1963, p. 69) mentre nel suo delirio catatonico o minimalista sostituisce l'ombra all'Altro, ritirandosi in una nicchia di silenzio e isolamento, assoggettandosi all'inconscio psichiatrico. | << | < | > | >> |Pagina 83Capitolo quarto
Il caso clinico e la psichiatria: metodologie di osservazione
Lo schizofrenico in manicomio, e il manicomio dov'era? Si racconta che gli psichiatri che aderivano alla fenomenologia soffrissero di una certa dissociazione. Scrivevano opere filosofiche sulla schizofrenia come visione del mondo, ispirandosi a Husserl e Heidegger, e poi, in reparto, non riuscivano a levarsi di dosso il camice. Il gap tra le teorie e le pratiche era enorme; quando è esploso, ha dato vita a un movimento politico, è nata l'anti- psichiatria. Che cosa manca? Una metodologia qualitativa di osservazione clinica. Prima dell'analisi del discorso (Foucault 1969; 1971; Jorgensen, Phillips 2002), della quale siamo debitori a Foucault, mancava la possibilità di trasformare la filosofia in pratica clinica. Come vedremo nella seconda parte del libro, Foucault dovrà prima fare i conti con la fenomenologia per costruire il suo contributo critico. Ciò che stupisce di gran parte delle presentazioni dei casi clinici di schizofrenia è la poca considerazione del contesto: il discorso psichiatrico, con la sua produzione di istituzioni di ricovero, diagnosi e cura, è uno sfondo ignorato. Nei capitoli precedenti lo abbiamo definito inconscio psichiatrico. Ciò è accaduto parzialmente anche nelle circostanze più nobili, come quella che propone la prima e più nota descrizione del double bind: L'analisi di un incidente accaduto tra un paziente schizofrenico e sua madre può illustrare la situazione di doppio vincolo. Un giovanotto che si era abbastanza ben rimesso da un accesso di schizofrenia ricevette in ospedale una visita di sua madre. Contento di vederla le mise d'impulso il braccio sulle spalle, al che ella s'irrigidì. Egli ritrasse il braccio, e la madre gli domandò: "Non mi vuoi più bene?". Il ragazzo arrossì, e la madre disse ancora: "Caro, non devi provare così facilmente imbarazzo e paura dei tuoi sentimenti". Il paziente non poté stare con la madre che per pochi minuti ancora, e dopo la sua partenza aggredì un inserviente e fu messo nel bagno freddo (Bateson 1972, p. 261). L'ospedale, il bagno freddo e l'inserviente aggredito, che pure vengono menzionati, rimangono nell' inconscio psichiatrico. Non entrano nell'analisi. L'aggressione sì, ovviamente, come reazione schizofrenica al comportamento della madre. | << | < | > | >> |Pagina 86Si assiste a una doppia rimozione che serve a mantenere viva la spiegazione medica come unica spiegazione vera della malattia: la rimozione dell'analisi delle relazioni familiari e la rimozione dell'analisi dell'universo concentrazionario dell'istituzione psichiatrica. Le conversazioni di questi pazienti, così meticolosamente riportate, sembravano avvenire nel vuoto, non con uno psichiatra in manicomio. Θ stupefacente.Questo torto ai nevrotici non è mai stato fatto Freud almeno prendeva in considerazione le dinamiche familiari nella formazione della sintomatologia nevrotica, oltre che il tema del controtransfert. Inoltre, ai nevrotici è stato evitato il manicomio. Il manicomio era un privilegio di due categorie: gli schizofrenici (i reietti) e gli psichiatri (i dottori). Tra loro c'era la pletora degli infermieri, che non avevano alcuna formazione umanistica e una scarsissima formazione sanitaria, destinati al lavoro sporco. In molti casi il personale religioso femminile si sforzava di stendere un velo di pietà. Non sto descrivendo una psichiatria disumana, ma quella di Eugène Minkowski, della psichiatria esistenziale e umanistica. Ci vorranno molti anni ancora e molto impegno da parte di autori come Bateson, Deleuze, Foucault per riuscire a rendere interamente conto della costruzione sociale della schizofrenia. Verso una teoria della schizofrenia (in Bateson 1972) e Malattia mentale e personalità (Foucault 1954), lo vedremo in seguito, sono ancora, almeno in parte, intrisi di un metodo che pratica la rimozione della psichiatria dalla schizofrenia, come se la schizofrenia non avesse a che fare con l'organizzazione psichiatrica. In Bateson, però, inizia a farsi strada l'idea che la relazione e la comunicazione siano parte della costituzione dei sintomi, e in Foucault, dopo l'abbandono del Sainte-Anne, che la malattia mentale, o la follia, avesse più a che fare con la storia della medicina in Occidente che con la mente dei singoli individui presi isolatamente. Deleuze, forse perché non ha mai partecipato all'attività di un ospedale psichiatrico, non aveva alcun dubbio. Semmai, in una certa fase del suo pensiero, con Guattari, è caduto nella tentazione opposta, tipica dell'antipsichiatria: negare la specificità del piano clinico, o addirittura fare della schizofrenia una gioia di vivere trasgressiva. Se la psichiatria aveva per anni praticato il riduzionismo medico, trasformando il disordine in malattia, il riduzionismo sociologico dell'antipsichiatria si presenta come un'abiura e mostra l'incapacità degli antipsichiatri di cogliere la complessità della relazione. Con la chiusura delle istituzioni manicomiali, come abbiamo già visto, scompaiono dallo scenario diagnostico le schizofrenie catatoniche e le schizofrenie ebefreniche. La permanenza dello schizofrenico nella famiglia favorisce spesso un florido delirio paranoico che si lega alle dinamiche familiari: il clima di tensione porta gli altri familiari a non riferire al paziente designato episodi che potrebbero irritarlo; ciò crea un'intesa nascosta tra gli altri componenti della famiglia. Non poi così nascosta da non essere notata dal paziente designato che scopre ognuno degli episodi tenuti segreti, irritandosi sempre più e cominciando a coltivare l'idea di un complotto, che facilmente si sposta dalla famiglia al mondo esterno e all'intero cosmo. Allo schizofrenico la famiglia non basta, ma è nella famiglia che sviluppa il suo delirio più florido. In manicomio non si davano le possibilità di sviluppare un delirio florido e per certi aspetti così lucido, sebbene nascosto dentro una quantità di sviamenti linguistici tesi a non farsi scoprire mai interamente. L'universo concentrazionario è repressivo, punitivo, violento, chimico, coercitivo. Per difendersi lo schizofrenico sviluppa, in diverse circostanze, meccanismi di chiusura al mondo, diventa un muselman, così come lo ha descritto Primo Levi. | << | < | > | >> |Pagina 94Casi clinici nel contestoUn buono studio di casi clinici di schizofrenia deve tenere conto del dispositivo psichiatrico e delle forme dell'interpellazione. Devono essere indagati quattro elementi: - l'organizzazione psichiatrica di riferimento, le forme storico-sociali dell'organizzazione del servizio, compresa l'idea di responsabilità che sta dietro una tale organizzazione; - la relazione tra la comunità di riferimento e la famiglia del paziente designato, le forme dell'integrazione e delle relazioni sociali della famiglia con l'ambiente circostante, il senso di appartenenza a una comunità religiosa, culturale, politica, ecc.; - le relazioni tra la persona il paziente designato e la sua famiglia; - le traiettorie biografiche del paziente designato. Una persona viene ricoverata/si fa ricoverare presso un servizio psichiatrico di diagnosi e cura dopo avere agito in modo da scuotere l'ordine familiare e comunitario in cui vive. L'interpellazione si manifesta sempre come una relazione tra una persona e un dispositivo, attraverso una mediazione familiare e comunitaria. Il dispositivo ha una forma storica; si manifesta come una costruzione sociale, è il lato esterno della patologia, l'ordine del suo discorso. La sintomatologia ha una forma strutturale, si presenta come un disordine familiare e comunitario prodotto dal soggetto: è la forma in cui il soggetto entra in conversazione con l'Altro. Decine di giovani al di sotto dei vent'anni che abbiamo incontrato al Centro Isadora Duncan, negli ultimi quattro anni di lavoro con questa équipe clinica, fino a trent'anni fa avrebbero trascorso il resto della loro vita in un manicomio. Molti di loro avrebbero sviluppato una schizofrenia ebefrenica. Oggi conversano con noi in psicoterapia individuale e familiare, a seconda dei casi e delle circostanze, a proposito della loro vita, dei rapporti con la famiglia e la comunità, dei rapporti con il servizio psichiatrico territoriale, in parte anche grazie all'assunzione di un farmaco, ma non necessariamente. Fanno terapia analizzando con noi il loro caso clinico, diventano parte dell'équipe terapeutica di cura. Ciò significa che mai, in psicoterapia, si può dimenticare che il paziente designato è una persona che esercita la propria responsabilità. La terapia consiste nel trasformare la designazione verso il paziente in designazione da parte del paziente, trasformare il paziente designato in designante della sua propria vita, in moral agent. Come erede della scuola di psicoterapia di Milano, ritengo fosse corretto, da parte di Selvini Palazzoli, Boscolo, Cecchin e Prata (2003), interessarsi del solo aspetto relazionale. Il lavoro psicoterapeutico non deve, secondo me, essere svolto nel medesimo luogo in cui viene prescritto il trattamento psicofarmacologico che, in quanto trattamento medico, considera il disordine mentale nei termini di una malattia da curare chimicamente e, affinché si ottengano risultati dalla cura, deve essere seguito in modo regolare. Il dispositivo psichiatrico è costitutivamente ordinato secondo la sintassi della clinica medica, così come la descrive Foucault. Dunque il paziente è portatore di sintomi che diventano segni per una semeiotica tesa a determinare una diagnosi che prevede un trattamento farmacologico specifico. La psicoterapia si può anche giovare del trattamento medico, ma non va confusa con questo. La clinica in psicologia è tutt'altro. Necessita di un anti-dispositivo, di disposizioni. La psicoterapia non riesce quando il paziente prendendo il farmaco va a lavorare, e riesce quando il soggetto ha scelto se prendere o no il farmaco, sapendo quali effetti questo può avere sulla sua vita e sulle relazioni con l'Altro. La psicoterapia con la schizofrenia oggi è possibile perché i manicomi non ci sono più, ma non è l'unico trattamento possibile, né da sola è sempre sufficiente. Spesso necessita di un lavoro di counselling mirato all'inserimento sociale, ma anche alla salvaguardia dei diritti personali e della dignità del paziente negli ambienti di cura e trattamento. Tuttavia, è altro rispetto al trattamento psichiatrico, risponde a un'epistemologia e a un modello bioetico differenti. Per questo motivo la psicoterapia con i pazienti schizofrenici deve trovare una propria nicchia ecologica distinta dal trattamento psichiatrico, all'interno della quale si possa anche parlare del farmaco, ma non per convincere il paziente a prenderlo o a non prenderlo, bensì per conversare con lui intorno al farmaco e ai suoi effetti, intorno al dispositivo medico-psichiatrico e alle altre forme del trattamento psicoriabilitativo, cercando di renderlo responsabile della scelta. Nello stesso tempo, è quanto mai importante che il paziente in trattamento presso il servizio psichiatrico abbia la possibilità di ricevere un supporto di counselling in relazione ai suoi diritti riguardo al trattamento, per valutare se le informazioni ricevute sono adeguate e se le richieste da lui avanzate vengono prese in considerazione e non, come spesso avviene in questi casi, ritenute parte del delirio schizofrenico.
Ricordo una studentessa universitaria schizofrenica che mi
chiese una consulenza, raccontandomi di come, durante un
ricovero volontario, medici e infermieri avevano cercato di
somministrarle un farmaco che lei non riteneva di dover
prendere. Nel tentativo di sottrarsi, si arrampicò su un armadio e da lassù
disse: "questo non è un delirio! Semplicemente una protesta perché state
violando il mio diritto a un trattamento corretto!". Non tutti i pazienti
schizofrenici sono studenti universitari o laureati, alcuni potrebbero avere
necessità di aiuto in questa direzione.
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