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| << | < | > | >> |Indice5 La rivolta estetica del dandy di Stefano Lanuzza 25 Il Gran Dandy Il dandismo e George Brummell 27 I [Gloria e vanità: il Gran Vanitoso] 39 II [La frivolezza] 31 III [Gli uomini di spirito] 33 IV [Soltanto un dandy] 35 V [Un modo d'essere] 41 VI [L'influenza di Brummell] 43 VII [Un principe del proprio tempo] 46 VIII [La grazia e la corruzione] 51 IX [Gli 'spiriti freddi') 60 X [Il "Beau"] 77 XI [Il declino] 100 XII [Un certo non so che] 105 Note |
| << | < | > | >> |Pagina 5"Il dandy, per sua funzione, è un oppositore". Albert Camus Dandy: mai epiteto ebbe origini più indefinite e lignaggio più incerto. In qualche caso, certa paraetimologia lo farebbe derivare dall'italiano daino, in inglese buck, indicante l'aggraziato animale e, insieme, il maschio umano elegante. Diffuso in Scozia nel XVIII sec., assonanzato sia col diminutivo di Andrew, sia con la canzone militare inglese Yankee doodle dandy che vorrebbe ridicolizzare lo sgargiante abbigliamento dei ribelli durante la Rivoluzione americana del 1770, il termine ha la sua maggior diffusione presso la società londinese nel secondo decennio dell'Ottocento (George Gordon Byron lo cita in una lettera a Moore, datata 15 luglio 1813). Puro simbolo alquanto sfruttato dall'odierna fast fashion commerciale, opulenta e griffata, dopotutto esso resta un tardo frutto di quell'Illuminismo che prepara la rivolta romantica: laddove scrive Camus "il romanticismo dimostra [...] come la rivolta sia strettamente connessa al dandismo" (L'uomo in rivolta, 1951). Ne è un esempio calzante quel Byron oppositore del perbenismo dell'aristocrazia inglese e tra i cospiratori d'una insurrezione antiturca in Tracia.
Θ, quello indicato da Camus, un sentimento di rivolta in
cui la ragione, giunta all'acme della sua raffinatezza, vorrebbe, per la prima
volta nella storia umana, segnando il
passaggio fra l'aristocrazia decaduta e la democrazia nascente, rivendicare le
proprie laiche regole basate sul valore dell'individualità liberata contro la
massificazione coatta. Non in questa pianificatrice d'ogni differenza, bensì in
se stesso, il dandy specchia il proprio essere: il dandismo,
insomma, è un' 'autointerpretazione'.
Nasce il 2 novembre 1808 a Saint-Sauveur-le-Vicomte in Normandia Jules-Amédée Barbey d'Aurevilly, scrittore francese e dandy un po' narciso e un po' moqueur (burlone). Conosciuto soprattutto per la sulfurea raccolta di racconti Les Diaboliques (1874), tra le 'bibbie' del decadentismo, è oggi pressoché obliato come altri 'minori' francesi a lui più empatici pur se meno fashionables (Nodier, Sue, Gautier, Nerval, Borel, Péladan, Baudelaire...). Svolti i primi studi a Valognes dal 1818 al 1825, nel 1827 è studente a Parigi presso il collegio Stanislas. Conseguita la licenza liceale nel 1829, si trasferisce a Caen per iscriversi alla facoltà di Giurisprudenza e, nel 1830, pubblica il racconto lungo Le Cachet d'onix. A Caen diviene amico del libraio ed editore Trébutien, col quale condivide le idee liberali e fonda il periodico "La Revue de Caen". Qui, nel 1832, pubblica il racconto Léa. Dopo la laurea, trasferitosi a Parigi nel 1833 (dove muore il 23 aprile 1889, lo stesso anno dell'antipositivista e a lui affine Villiers de l'Isle-Adam) intraprende la carriera giornalistica, tuttavia restando in una condizione di marginalità. Nel 1834, fonda con altri "La Revue critique de la philosophie, des sciences et de la littérature".
La lettura, verso il 1838, delle opere di Joseph de Maistre, ostile alla
Rivoluzione del 1789 e propagandista cattolico, lo spingono all'abbandono delle
giovanili idee rivoluzionarie e a professare un'intransigente seppure non
conformistico misticismo, interpretato nella stessa epoca
in Francia anche dalla poetessa Marceline Desbordes-Valmore, apprezzata da
Saint-Beuve e Baudelaire, e da epigoni non distanti quali E. Hello, L. Bloy, P.
Bourget, M. Barrès.
Θ, quello di Barbey d'Aurevilly, un tradizionalismo incentrato sull'eterna dialettica fra il bene assoluto, identificato col mito della divinità, e il male originato dall'avvento del progresso e dei nuovi sistemi economici: ciò che, dopo la collaborazione nel 1843 al "Moniteur de la mode", spiega il suo impegno come caporedattore presso la conservatrice "Revue du Monde Catholique", fondata nel 1847 insieme ad alcuni seguaci della Societé Catholique. Nel 1848, allo scoppio della Rivoluzione francese, lo scrittore è tentato di candidarsi alle elezioni. Ma ben presto, deluso dalla disumanità dei rivoltosi e inorridito a causa dei numerosi fatti di sangue, si schiera dapprima con la resistenza popolare contro la Rivoluzione e poi si ritira dalla vita politica per dedicarsi completamente alla letteratura. Dopo l'incontro, nel 1854, con Baudelaire con cui stringe una duratura amicizia, è verso gli anni 1855-'56 la sua conversione religiosa e il suo ritorno in Normandia.
Il successo di pubblico e critica, a lungo atteso, gli arride
dopo la pubblicazione delle
Diaboliques:
che però suscita grande scandalo negli ambienti cattolici e gli costa un
processo concluso con la condanna al macero di tutte le copie
dell'opera.
I contemporanei di Barbey vedono in lui la versione francese, forse un po' bizzarra se non caricaturale, dell'inglese George Bryan Brummell (nato a Londra nel 1778 e, rovinato dal vizio del gioco e dagli strozzini, morto nel 1840 a Caen, nell'ospizio per matti "Bon Saveur"), arbitro di un'eleganza depurata da orpelli vistosi (abolizione delle parrucche e adozione di pantaloni avana lunghi a tubo invece delle brache attillate; sobrietà del frac con preferenza per i colori grigio, marrone e soprattutto azzurro); contraddetto da Barbey, che si fa notare in pubblico per la pettinatura baroccamente arricciata e una bulimia sartoriale quanto meno stravagante o addirittura kitsch: imponente cilindro, guanti color sangue di bue, giacche con gli alamari, fodere di velluto nero oppure scarlatto e bottoni luminescenti sui gilè a festoni, camicie merlettate, strettissimi calzoni di raso. "Verso le tre mi sono pettinato, arricciato, vestito, calzato, guantato [...]. Scelto panciotti [...,] il mantello foderato di seta posto con noncuranza sul braccio. In mano, un mazzolino di violette profumate [...]. Fattomi pettinare. Vestito. Impiegato un tempo che anche una donna troverebbe eccessivo" annota, memore della rivalutazione dell'igiene personale raccomandata da Brummell, quel vanitosone di Jules-Amédée nei suoi Memoranda, redatti a cominciare dal 1836. Trascurando, nello stesso tempo, il principio brummelliano secondo il quale il dandy non indossa lambiccati o strepitosi costumi, ma, con gusto, semplicemente 'si veste'.
Ne quid nimis,
niente di più: questo il mite dogma imposto dai canoni della bellezza...
La bellezza,
che sarà pure una 'questione di gusti', comunque non è una 'funzione'. Per il
dandy, poi, non sempre è bello ciò-che-piace; ma ciò che
disinteressatamente... interessa.
La sua è un'estetica tutta 'psicologica'.
L'eleganza? Quella vera, secondo Brummell, deve passare inosservata. Perché il dandy non è il damerino o il gagà, il libertino fatale, l'eccentrico tenebroso, il turbolento bohémien, il malinconico esteta, il febbrile gigolò e, tanto meno, lo snob o 'snobile' (s.nob.: contrazione di sine nobilitate)... E non una turbolenta o isterica eleganza, ma la 'distinzione' del nil mirari connota il dandy. Questi non è uno riducibile alla 'moda'; e a chi vorrebbe porlo in relazione con l'arte del vestirsi, attitudine dello snob e dello scapato con, un moderno dandy-clochard come lo stazzonato Baudelaire spiega che il dandismo "non s'identifica con la passione smodata per l'abbigliamento e con l'eleganza tangibile", bensì col rispetto della propria persona. "Sappi" scrive il poeta dei Fleurs du mal a Madame Aupick "che per tutta la mia vita, vivessi agiatamente o da straccione, ho sempre consacrato due ore alla mia toilette". Poi, in nome della semplicità assoluta, Baudelaire avverso al Thomas Carlyle (1795-1881) che nel Sartor Resartus (1836) critica l'originalità dei dandies aborre quanti vorrebbero attirare l'attenzione per il loro aspetto esteriore e afferma di prediligere le nuances del nero, il più anonimo e simbolico dei colori... Essere eleganti sì, ma sempre moderatamente. Quello di Brummell scrive M. Beerbohm "è un abito sobrio, moderato e, lo affermo energicamente, splendido; è privo d'assurdità e di ricercatezze, ma non di un ordine squisito; e infine è duttile, austero e pratico" (Dandy & dandies, 1896). | << | < | > | >> |Pagina 18Dio, allora? Per Onfray stigmatizzatore del progressismo giudaico-cristiano come del fondamentalismo islamico , solo una consolatoria illusione. Non meno di Gesù, Dio non sarebbe che un "personaggio di fiction costruito nel tempo": uno dei tanti falsi idoli. La Bibbia, il Corano, la precettistica religiosa? Antologie mitologiche da contestualizzare storicamente, non diverse dall' Iliade e dall' Odissea. Da leggere, ma con una certa ironia e, talora, col filosofico sarcasmo del dandy che ha sempre 'qualcosa da ridire'.
L'ironia.
Non la chiassosa rivolta ma l'impassibile, leggera quanto corrosiva ironia
critica sostanzia l'estetico, impareggiabilmente artistico, 'apparire'
brummelliano opposto all''essere' statico d'una società rimasta abbarbicata
a usi e costumi condizionati da dispotiche gerarchie, torpide etichette,
privilegi, infine dalla noia e dal mortale disgusto di sé insito nel potere.
Il potere
sembra dirci Brummell, che, staccatosi dalla
sua abituale freddezza giunge a burlarsi del re Giorgio IV
sibilando con olimpica collera: "Ma chi è quel ciccione?"
non sia della nobiltà usurpatrice, dei maneggioni ambiziosi,
dei cretini ricchi, ma, piuttosto, dello charme intellettuale accresciuto
dall'
esprit de noblesse
e da quel ritroso bon ton proprio di chi ha il dominio di sé... Sia, il potere
futuro, dell'eletta immaginazione e degli spiriti nobili, capaci di sottrarsi a
ogni servitù. Perché come afferma il superbo eppure umile Oscar Wilde, il più
legittimo erede di
Brummell , contro una classe dirigente torpida e avida,
votata solo ai propri interessi, l'avvenire deve appartenere
al disinteressato, libero dandy. Così, nel regno dell'utopia
dandistica coniugabile con una morale libertaria, "saranno gli spiriti squisiti
a governare"... Frattanto, queste "creature solitarie tra la folla"
(Baudelaire), governano nella grande letteratura ispirata alla poetica figura
del dandy, eternata nel suo perenne, 'resistente' tramonto.
Modelli dandistici. Ed ecco il sempre languente Julien Sorel del Rosso e il Nero (1830) di Stendhal; ecco l'olimpico Stello, che dà il titolo al romanzo (1832) di A. De Vigny; il Valentin, diviso tra due amanti, del racconto lungo Les deux Maξtresses (1837) di A. De Musset; Olivier d'Orsel del Dominique (1863) di E. Fromentin, anticipatore di Proust; Jean Floressas Des Esseintes del baroccheggiante ΐ rebours (1884) di J.-K. Huysmans; il giovane Marius di Marius l'epicureo (1885) e gli adolescenti edonisti di Ritratti immaginari (1887) dell'inglese W.O. Pater, sostenitore dell'"arte per l'arte"; il 'giovin signore' dannunziano Andrea Sperelli protagonista di Il piacere (1889); Dorian Gray del Ritratto di Dorian Gray (1890) di Wilde... Con la felina Zuleika Dobson, dandy 'al femminile' dell'omonimo romanzo (1911) di M. Beerbohm; e le sfuggenti Nora, Robin e Jenny, quasi effigi o dagherrotipi emergenti dalle grafiche d'un Beardsley, descritte in Bosco di notte (1936) da Djuna Barnes, stilista della scrittura e dandy cosmopolita: che, con le italiane Contessa Lara (pseudonimo di Evelina Cattermole) e la narratrice e giornalista mondana Irene Brin (all'anagrafe Maria Rossi), confuterebbe il Baudelaire convinto dell'impossibilità d'un dandismo della donna (ma Baudelaire dimentica, del suo contemporaneo Th. Gautier, lo spregiudicato personaggio di Madeleine de Maupin, smascheratrice delle ipocrite galanterie maschili). Seguono il barone de Charlus della Recherche proustiana (1913-'27); i drappelli dei futuristi coi loro abiti multicolori, le scarpe spaiate e le cravatte di metallo; i protosurrealistici 'cadaveri squisiti' in gabbie di vetro (il surrealismo inizia in Francia nel 1919) del Locus solus (1914) di Raymond Roussel; l'irresoluto Lafcadio, assassino per errore, dei Sotterranei del Vaticano (1914) di Gide; I ragazzi terribili (1929) e disperati di Cocteau; il parvenu e 'aspirante' dandy Jay Gatsby del Grande Gatsby (1925) di Scott Fitzgerald, preannunciante la factory di Warhol, i colletti button-down, le stilografiche d'oro, i doppi attici dai colonnati d'ottone e i fronzoli modaioli della rimpannucciata Cafè society newyorkese sfottuta da Truman Capote (Musica per camaleonti, 1980; Preghiere esaudite, 1986) e, ancor più, da Tom Wolfe (Lo chic radicale, 1970; Il falò delle novità, 1987): due scrittori congeniali, Capote e Wolfe, al picarismo in 'prosa d'arte' del dimenticato Arturo Loria (Il cieco e la Bellona, 1928; Le memorie inutili di Alfredo Tittamanti, 1941), allo snob-dandismo di Longanesi (Ci salveranno le vecchie zie?, 1953), Landolfi (Ottavio di Saint-Vincent, 1958), Flaiano (Autobiografia del Blu di Prussia, 1974; Frasario essenziale per passare inosservati in società, 1986), Arbasino (Fratelli d'Italia, 1963 e 1993; La narcisata, 1964)... Insieme al drogato suicida Alain Leroy di Fuoco fatuo (1931), autore Drieu La Rochelle; alle figurette lunari delle barocche Storie del bosco boemo (1975) di Ripellino; a Lucio e Beate, spleenetici protagonisti di 1934 (1982), il romanzo forse più bello eppure meno noto di Moravia; al sarcastico "tecnico e artista della filosofia" delineato dal filosofo siciliano Sgalambro in Anatol (1990); al Carmelo Bene di La voce di Narciso (1982), che fenomenologizza in una frase lapidaria la condizione del dandy nella nostra omologata contemporaneità: "Non esisto: dunque sono".
Non solo per il poeta e principe degli attori Bene, ma per
la spettrale schiera dei dandies, vale quanto scrive Balzac
nella sua epopea delle
Illusioni perdute
(1837-43): "C'è un uomo che è insieme principe e attore, e incarna il ruolo
sacro del poeta".
Ma poi, se vogliamo rifletterci, forse scrive R. Kempf, riportando un fulminante pensiero di Baudelaire "esiste solo il dandismo letterario" (Dandies. Baudelaire et C.ie, 1977). Allo stesso modo del dandy, esistente per chi voglia farlo esistere; e, proprio per questo, campione d'un reale da reinventare. Stefano Lanuzza | << | < | > | >> |Pagina 27Anche i sentimenti hanno un loro destino; ma ce n'è uno, la vanità, contro cui ognuno si mostra inflessibile. I moralisti, pure quelli che meglio hanno provato quanta parte essa abbia nel nostro animo, l'hanno denigrata nei loro libri. Gli uomini di mondo, in qualche misura non meno moralisti perché convinti di dover giudicare la vita almeno venti volte al giorno, hanno ripetuto la libresca sentenza contro tale sentimento che a loro avviso è il peggiore di tutti. Certe parole possono essere maltrattate alla stessa maniera degli uomini. Ma sarà vero che, nella nostra gerarchia degli impulsi, la vanità sia l'ultimo dei sentimenti? Ma se è proprio l'ultimo, perché disprezzarla?... Ma poi, è davvero l'ultimo posto? Se i sentimenti sono valorizzati dalla loro importanza sociale, cosa, nella graduatoria dei sentimenti, può essere utile alla società più di questa inquieta ricerca dell'altrui approvazione, di questa inestinguibile sete degli applausi della platea che nelle grandi cose si chiama 'amore della gloria' e nelle piccole 'vanità'? Forse l'amore, l'amicizia, l'orgoglio? L'amore con le sue molte sfumature e i suoi numerosi derivati, l'amicizia e lo stesso orgoglio muovono dalla predilezione per un altro, per molti altri, o per se stessi; e tale predilezione risulta esclusiva. La vanità, invece, tiene conto di tutti. Se talvolta ambisce a particolari consensi, è sua rispettabile prerogativa soffrire quando uno solo di essi le venga negato: né può dormire più su quelle rose cui non fu tolta l'ultima spina. Dice l'amore all'amato: tu sei tutto il mio mondo. L'amicizia dice: tu mi basti; e più spesso: tu mi consoli. Invece l'orgoglio è silenzioso. Esso diceva un uomo di bello spirito "è un re solitario, pigro e cieco che porta sugli occhi il proprio diadema".
La vanità ha un mondo meno ristretto di quello dell'amore; e ciò che basta
all'amicizia, per essa non è abbastanza. Regina così come l'orgoglio è re, essa
è socievole, operosa, chiaroveggente; e porta il suo diadema là dove questo
serve a renderla più bella.
Occorreva chiarire tutto ciò prima di parlare del dandismo, frutto della troppo diffamata vanità, e del Gran Vanitoso George Brummell. | << | < | > | >> |Pagina 46Poiché il dandismo non fu l'invenzione d'un uomo, ma la conseguenza di certe forme sociali esistenti ancora prima di Brummell, sarebbe forse utile riconoscerne la presenza nella storia dei costumi inglesi e precisarne l'origine. Tutto farebbe credere che tale origine sia francese. Con la restaurazione di Carlo II, la Grazia entrò in Inghilterra tra le braccia di quella che a volte fu creduta la sua sorella Corruzione. Sarcasticamente, essa prese a intaccare il tremendo e imperturbabile sussiego dei puritani di Cromwell. I costumi, sempre ben radicati in Gran Bretagna quale che sia la loro tendenza, buona o cattiva , esageravano in severità. Davvero occorreva, per respirare, sottrarsi alla loro prepotenza, sfibbiare quel pesante cinturone; e i cortigiani di Carlo II, che nei calici da champagne francese avevano bevuto un loto capace di far dimenticare le abitudini tristi e religiose della patria, tracciarono la tangente per la quale si poté evadere. Molti vi si precipitarono: "Gli stessi discepoli superarono ben presto i loro antichi maestri; e, come assai acutamente disse uno scrittore (Amédée Renée nell'introduzione alle Lettere dí Lord Chesterfield, Parigi 1842), la loro disponibilità a essere corrotti fu tale che i Rochester e gli Shaftesbury anticiparono d'un secolo i costumi francesi del tempo balzando direttamente fino alla Reggenza". Non parliamo di Buckingam, di Hamilton o dello stesso Carlo II, né di tutti coloro per i quali i ricordi dell'esilio furono più forti degli effetti del ritorno. Riferiamoci piuttosto a quanti, rimasti inglesi, furono indirettamente colpiti dalla folata straniera e inaugurarono il regno dei Beaux, come Sir George Hewett, Wilson (ucciso dicono da Law in duello) e Fielding, la cui bellezza fermò lo scettico sguardo dell'ímperturbabíle Carlo II; e che, dopo avere sposato la famosa duchessa di Cleveland rinnovò la leggenda di Lauzun con la Grande Mademoiselle. Il loro stesso nome, come si può notare, denota l'influsso francese. Al pari della loro grazia, che non era abbastanza autoctona e non abbastanza partecipe dell'originalità di quel popolo da cui nacque Shakespeare, di quell'intimo vigore che l'avrebbe in seguito permeata. Non si fraintenda: Beaux non sono i dandies, ma i loro precursori. In realtà, sotto quella superficie, il dandismo non appare ancora: esso dovrà emergere dal profondo della società inglese. Fielding muore nel 1712; e, dopo di lui, il colonnello Edgeworth evocato da Steele (anch'egli, in giovinezza, un Beau) dà seguìto all'aurea catena d'oro cesellato dei Beaux, interrotta con Nash e riavviata da Brummell, che segnerà l'inizio del dandismo. | << | < | > | >> |Pagina 51George Bryan Brummell nacque a Westminster, da W. Brummell, esquire, segretario particolare di quel Lord North, talora pure lui un po' dandy, che in segno di spregio dormiva sul suo seggio di ministro durante i più virulenti attacchi degli oratori dell'opposizione. North fece la fortuna di W. Brummell, efficiente uomo d'ordine e d'azione. I libellisti, che gridano alla corruzione e intanto sperano d'essere corrotti, chiamavano Lord North il 'signore degli emolumenti' (the God of emoluments). Ma è pur vero che, pagando Brummell, egli ricompensava dei servizi. Caduto il ministero del suo benefattore, il signor Brummell divenne alto sceriffo del Berkshire. Stabilitosi nei paraggi di Domington-Castle, luogo celebre per essere stato la residenza di Chaucer, visse praticando quella ricca ospitalità di cui gli inglesi, unici al mondo, hanno il sentimento e la potenza. Aveva conservato importanti relazioni e, fra le altre celebrità contemporanee, riceveva frequentemente Fox e Sheridan. Perciò, una delle prime impressioni del futuro dandy fu sentire su di sé il soffio di quegli uomini potenti e affascinanti. Costoro furono le sue buone fate, ma gli dotarono soltanto la metà delle loro forze, le più fugaci tra quelle di cui disponevano.
Nessun dubbio che, vedendo e frequentando quegli spiriti gloria dell'umano
pensiero, capaci di condurre la
conversazione come un discorso politico e nei quali l'arguzia uguagliava
l'eloquenza , il giovane Brummell non
abbia sviluppato facoltà già possedute e che più tardi, in
Inghilterra, lo resero (ricorrendo a un termine usato dagli
inglesi) uno dei primi
conversationnistes.
Quando suo padre morì (1794), egli aveva sedici anni. Nel 1790 era stato mandato a Eton e, al di fuori dell'ambito studentesco, cominciò a farsi notare per le cose che tanto prestigiosamente lo distinsero in seguito. La cura nel vestire e il freddo languore dei modi gli procurano presso i condiscepoli un appellativo allora molto in voga. Poiché il termine 'dandy' non era ancora di moda e i dominatori dell'eleganza erano detti bucks o macaronies, egli fu chiamato buck Brummell (buck, in inglese, significa 'maschio': ma non la parola, bensì il suo senso, risulta intraducibile). A parte, forse, George Canning, nessuno, come testimoniano i contemporanei, esercitò sui compagni di Eton un'influenza superiore alla sua; ma l'influenza di Canning era originata da un ardore intellettuale ed emotivo, mentre quella di Brummell derivava da facoltà meno esaltanti. Egli interpretava quella massima di Machiavelli secondo cui "il mondo appartiene agli spiriti freddi". Da Eton passò a Oxford, dove riscosse quel successo particolare cui era destinato. Piacque per gli aspetti più esteriori del suo spirito: la sua superiorità non si segnalava nelle ricerche laboriose del pensiero, ma nelle relazioni sociali. Tre mesi dopo la morte del padre, uscendo da Oxford entrò come alfiere nel Decimo Ussari comandato dal principe di Galles. Si sono molto ingegnati a spiegare la forte simpatia che Brummell ebbe subito a ispirare al principe; e furono raccontate storielle che non occorre citare perché non c'è bisogno di certi pettegolezzi. C'è di meglio. In realtà, conoscendo Brummell, era impossibile che egli non attirasse l'attenzione dell'uomo il quale dicono era più orgoglioso e soddisfatto della distinzione dei suoi modi che non della superiorità del proprio rango. Conosciamo, peraltro, lo splendore della giovinezza che, inutilmente, egli tentò d'eternare. | << | < | > | >> |Pagina 55Da qualche parte, Byron parla d'un ritratto di Napoleone raffigurato nel manto imperiale, aggiungendo: "Sembrava che vi fosse nato dentro". Altrettanto si può dire di Brummell e del celebre frac da lui inventato.Con fiducia e consapevolezza, egli diede inizio al suo regno senza timore né esitazione. Tutto favorì il suo singolare potere, contro cui nessuno s'oppose. Laddove le relazioni contano più del merito e gli uomini, per sopravvivere, devono attaccarsi come granchi, Brummell aveva dalla sua parte, ammiratori piuttosto che rivali, i duchi di York e di Cambridge, i conti di Westmoreland e di Chatam (il fratello di William Pitt), il duca di Rutland, Lord Delamere: ossia, politicamente e socialmente, quanto di meglio. Le donne, che come i preti stanno sempre dalla parte della forza, suonarono con le loro labbra vermiglie le fanfare dell'ammirazione. Furono araldi della sua gloria ma restando araldi, e in ciò consiste l'originalità di Brummell. Per tale aspetto, egli si distingue da Richelieu e da pressoché tutti gli uomini impegnati a sedurre. Lui non era uno di quelli che si dice un libertino. Richelieu, al contrario, imitò troppo quei conquistatori tartari che si facevano un letto intrecciando i corpi delle donne. Brummell rifiutò quelle prede o trofei di vittoria: la sua vanità non si riscaldava col sangue bollente. Le sirene figlie del mare, dalla voce irresistibile, avevano fianchi coperti d'impenetrabili scaglie, tanto più affascinanti, ahimè, quanto più pericolose!
La sua vanità non ebbe a scapitarne: tutt'altro. Essa non
si scontrò mai con un'altra passione che la frenasse o soltanto l'assecondasse:
regnò solitaria e incontrastata.
L'affettazione produce freddezza. Intanto un dandy, seppure abbia tanto garbo da porsi con semplicità, è sempre un po' affettato. E l'affettazione raffinatissima del talento assai artefatto di Mlle Mars. I passionali sono troppo veri per essere dei dandies. Alfieri non lo sarebbe mai stato, e Byron non lo era che in certi casi. Amare, anche nel senso meno alto della parola, desiderare, è sempre un dipendere, un essere schiavi del proprio desiderio. Anche le braccia che più dolcemente vi avvincono sono una catena, e se si è Richelieu, o lo stesso don Giovanni, quando spezziamo la catena di quei teneri abbracci, non spezziamo che un anello. Ecco la schiavitù cui Brummell seppe sottrarsi. I suoi trionfi ebbero l'insolenza del disinteresse: lui non subì mai la vertigine delle teste che faceva girare. In un Paese come l'Inghilterra, dove orgoglio e viltà insieme scambiano l'ipocrisia col pudore, provocò scandalo vedere un uomo, un giovane uomo che riassumeva in sé tutte le seduzioni di maniera e tutte le seduzioni naturali, fermarsi ai confini della galanteria punendo le donne nei loro falsi pudori, che loro stesse non hanno nessuna voglia siano rispettati. Ma Brummell agiva così, senza nessun calcolo e senza il minimo sforzo. Ciò, per chi conosce le donne, raddoppiava il suo potere: di quelle altere signore, lui feriva l'orgoglio romantico e illudeva l'orgoglio corrotto.
Re della moda, non ebbe amanti ufficiali. Dandy ben
più prudente del principe di Galles, non si legò a nessuna
Madame Fitz-Herbert. Fu un sultano senza fazzoletto.
Nessuna illusione sentimentale, nessun subbuglio dei sensi influì, per stancarlo
o fermarlo, sui motti che escogitava.
Questi, perciò, restavano indiscussi. A quel tempo, un
giudizio di elogio o di biasimo di George Bryan Brummell
era tutto. Egli dominava la pubblica opinione.
Se, per ipotesi, un simile uomo e un simile potere potessero esistere in Italia, quale donna pure passionale vi farebbe caso? Ma, in Inghilterra, l'innamorata più passionale, mettendosi un fiore o provando un abito nuovo, pensava assai più al giudizio di Brummell che al piacere del proprio amante. Una duchessa (si sa quanta alterigia conferisca un titolo nei salotti di Londra), durante un ballo e rischiando di farsi udire, raccomandava alla figlia di vigilare accuratamente ogni comportamento, gesto, risposta nel caso in cui il signor Brummell si fosse degnato di rivolgerle la parola. Ciò perché, nella prima fase della sua vita, egli si mischiava ancora alla folla dei ballerini durante quelle feste dove le più belle mani rimanevano in attesa della sua mano. In seguito, data la singolare fama che aveva riscosso, rinunciò al ruolo di ballerino, per lui oramai troppo volgare. Soffermandosi solo per pochi minuti all'ingresso d'un ballo, lo valutava con un'occhiata, lo giudicava con una parola e si dileguava, applicando così il famoso principio del dandismo: "Restate in società il tempo appena necessario per far colpo; raggiunto lo scopo, andatevene". Per lui, far colpo non era più una questione di tempo.
Con la sua vita splendida, il pubblico consenso, la giovinezza che accresce
la gloria e quel suo fascino crudele dalle donne maledetto e adorato, non c'è
dubbio che, senza clamori, egli abbia ispirato passioni contrastanti profondi
amori e odi inesorabili , ma niente di ciò è trapelato. Si
parlò d'una Lady J...y
rubata
al reggente con una leggerezza, come dire, degna di nota. Ma Lady J...y rimase
sua amica, anche se gli amori finiti nell'amicizia sono più chimerici delle
belle donne che finiscono con una coda di pesce. Si ricorre a un bel colpo di
scure, dato con poetica mano sulle illusioni dei mortali cuori generosi:
"Fintantoché si è amanti, non si può essere amici; e quando non si è più
amanti, si può essere tutto tranne che amici".
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