Autore Fabrizio Barca
Titolo Un futuro più giusto
SottotitoloRabbia, conflitto e giustizia sociale
Edizioneil Mulino, Bologna, 2020, contemporanea 291 , pag. 280, ill., cop.fle., dim. 13,5x21,2x1,7 cm , Isbn 978-88-15-28728-1
CuratoreFabrizio Barca, Patrizia Luongo
LettoreRiccardo Terzi, 2020
Classe politica , sociologia , scienze sociali , economia , economia politica , paesi: Italia: 2020












 

| << |  <  |  >  | >> |

Indice


I.   Un progetto per un futuro più giusto                     7

II.  Ingiustizia sociale: i fatti e le cause                 29

III. Disuguaglianza di ricchezza e progetti politici         69

IV.  Un cambiamento tecnologico per la giustizia sociale    103

V.   Un lavoro con più forza per contare                    209

VI.  Un passaggio generazionale più giusto                  237


Appendice. Obiettivi di giustizia sociale                   275


 

 

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 7

1. Un progetto per un futuro più giusto




1. Scrivevamo «prima»


Un divario sempre più grande fra imprese che innovano, esportano e pagano salari dignitosi e imprese che sopravvivono solo grazie a salari da fame e mortificazione della dignità del lavoro. Un forte divario fra buoni lavori e cattivi lavori, con vaste aree di lavoro precario e irregolare, e fra retribuzioni dei vertici manageriali e professionali e tutte le altre retribuzioni. E nel complesso, una disuguaglianza dei redditi peggiore di quella degli anni '80 e una produttività ferma da vent'anni. Un forte incremento della disuguaglianza nella ricchezza privata, che si somma alle disuguaglianze nella qualità ambientale e nella ricchezza comune a cui i cittadini possono accedere. Una progressiva crescita della povertà economica, con un forte impatto, più che in passato, su bambine e bambini, punte molto alte nel Sud e incrementi anche nel resto d'Italia. Divari a sfavore delle donne persistenti e aggravati, in tutte le dimensioni di vita. Aree diffuse di grave povertà educativa ed elevati tassi di abbandono degli studi che hanno fiaccato la capacità del paese di assicurare mobilità sociale e ostacolano il pieno sviluppo di una parte considerevole di ragazze e ragazzi. Contesti di eccellenza nella cura della salute e della persona e luoghi dove di fatto viene negato il diritto a un servizio universale di qualità.

E ancora, le nuove generazioni strette fra la scelta di lasciare il paese senza immaginare un ritorno e la tentazione di assuefarsi alla sola protezione individuale, e dunque ineguale, della famiglia o addirittura del familismo. E al tempo stesso giovani che costruiscono progetti creativi nel privato, nel sociale e anche nel pubblico, esprimendo imprenditorialità, mutualismo, o le due cose assieme. Divari eclatanti fra diffuse isole territoriali di successo e vaste aree marginalizzate, soggette a emorragie demografiche - le aree interne - o degrado - le periferie e le aree deindustrializzate. E dentro le aree marginalizzate, il moltiplicarsi di esperienze di auto-organizzazione, che mirano assieme a giustizia sociale e ambientale, recuperando, valorizzando e tutelando la ricchezza comune; ma accanto, nelle stesse strade, negli stessi condomini, la rabbia nata dalla marginalizzazione, che diviene «muro» e regressione civile. Un alternarsi continuo, a volte schizofrenico, fra segnali di un paese ancora creativo e vitale, che sul piano culturale, scientifico e delle pratiche sociali sa dare un contributo al mondo e inorgoglirci, e di un paese seduto, amaro e cinico dove l'alibi dell'«ineluttabilità» ci autorizza ad atteggiamenti di sfiducia e rassegnazione e a pratiche opportuniste, estrattive ed esclusive. Fra un paese che potrebbe porsi all'avanguardia della svolta energetica e ambientale indicata dalle giovani generazioni, o che, all'opposto, potrebbe precipitare nella retroguardia.

In ogni società, in ogni fase della storia, in ogni modo di produzione, lo sviluppo non è omogeneo ed esistono divari territoriali e fra le persone. Questi divari sono in parte il frutto delle nostre diversità, delle differenze fra aspirazioni o fra innate capacità, della casualità di tutti i processi evolutivi. Ma sono anche frutto di processi sistemici, e di rapporti di forze all'interno della società, della politica e delle politiche che hanno dominato la scena. È attraverso tutto ciò che in una parte importante del mondo «in via di sviluppo», soprattutto nei grandi paesi dell'Asia, centinaia di milioni di persone hanno visto ridursi le disuguaglianze rispetto agli abitanti dell'Occidente industrializzato. È attraverso tutto ciò che in Italia, come in larga parte dell'Occidente, le disuguaglianze hanno interrotto la lunga decrescita postbellica e hanno preso ad aumentare. Meno disuguaglianze medie nel mondo, fra persone e paesi, pure con aree di grande povertà in peggioramento. Più disuguaglianze all'interno dei singoli paesi.

Oggi in Italia, come in larga parte dell'Occidente, la misura, la natura e la permanenza dei divari sono «ingiuste» e percepite come tali. Ne sono il segno: il numero di persone il cui «pieno sviluppo», per dirla con la Costituzione (art. 3), incontra «ostacoli» ingiustificabili nelle molteplici dimensioni di vita; il numero e la condizione di moltissimi soggetti vulnerabili e degli ultimi e penultimi, veri e propri «poveri»; la percezione di non riconoscimento da parte di vaste fasce sociali e dei cittadini dei territori marginalizzati; l'impoverimento relativo o assoluto di una parte significativa del ceto medio; l'assenza di prospettive di cambiamento, confermata dalla modesta mobilità sociale. Permane e si rinforza, senza ancora un'adeguata percezione, il divario di genere, così significativo ancora in ogni parte del mondo: la vita delle donne è pesantemente condizionata dai carichi di cura, da ostacoli nell'accesso al lavoro, da molestie e ricatti nei luoghi di lavoro, da violenza nelle relazioni di intimità e dalla vittimizzazione secondaria quando la violenza approda davanti alla legge. A essere negata per grandi masse di italiani è, con le parole di Amartya Sen , «la capacità di ciascuno di fare le cose alle quali assegna con ragione un valore», una capacità ancora più compromessa per le nostre future generazioni: ingiustizia sociale e ingiustizia ambientale assieme, la seconda parte integrante della prima. E questa violazione della giustizia sociale pesa sulla stessa capacità del sistema economico italiano di produrre e di innovare. È tutt'uno con l'arresto della produttività.

L'ingiustizia sociale e ambientale segna, dunque, in Italia e in tutto l'Occidente, lo stato generale delle cose. È la chiave per comprendere i mali e le vie d'uscita di questa fase storica. Il tema non è la «crisi del capitalismo». Come argomenta Branko Milanović, il capitalismo è oggi «più forte di quanto non sia mai stato». Lo è per estensione geografica. Lo è perché, sfruttando la trasformazione digitale, ha consentito sia di dis-intermediare e re-intermediare lo scambio in moltissimi mercati esistenti (trasporto di persone e merci, cultura, turismo, informazione, credito, ecc.), sia di estendere sistematicamente il suo modus operandi a «cose che storicamente non erano oggetto di transazione e ora sono divenute merci» (dati personali, abitazione, auto, corpo, frammenti di tempo prima dedicati all' otium, ecc.), tanto da farci chiedere: «Quanto perdo se non offro queste cose sul mercato?». II tema è semmai che questo capitalismo è «troppo forte». Ha prodotto squilibri di potere, effetti sulle relazioni umane e sul rapporto con l'ecosistema e una distribuzione sbilanciata dei benefici così forti da suscitare in Occidente paura, risentimento e rabbia profondi, una sfiducia radicata in coloro che governano, negli esperti che li consigliano e nella possibilità che si possa cambiare.

Nasce qui la disponibilità di un numero sempre maggiore di persone a farsi convincere che l'unica soluzione sia di erigere muri sui propri confini, nazionali o di comunità, muri che proteggano dalla diversità e sanzionino comportamenti «devianti», anche al costo di comprimere le libertà. Nasce qui, dal dolore prodotto dalla questione sociale e dal convincimento che non sia risolvibile, la disponibilità a trovare sollievo nella questione identitaria, in una qualche artefatta «purezza». La diffusione in tutto l'Occidente di questa «dinamica autoritaria» è il segno che le cause primarie hanno carattere generale e non nazionale. In Italia, poi, a queste cause se ne aggiungono altre più specifiche, e così alla gravità delle disuguaglianze si accompagna una stagnazione assoluta della produttività, la misura ultima del successo e del consenso del capitalismo, una stagnazione fonte di ulteriori ingiustizie. E si uniscono manifestazioni particolarmente minacciose della dinamica autoritaria.


***



Quelle che precedono sono le parole che il 9 marzo 2020 aprivano le pagine introduttive di questo libro nelle bozze pronte per la stampa. A fine aprile, nel riprendere in mano il testo dopo la pausa imposta dall'aggravamento della diffusione del Covid-19, ci è sembrato giusto non toccarle. Quella appena descritta è infatti la «normalità» pre-virus, esposta senza le emozioni e le lenti di queste terribili settimane. Quelle parole, allora, rendono subito chiaro che non è a quella «normalità» che vogliamo tornare. Che è necessario piegare lo sconquasso prodotto dalla crisi, il cambiamento brutale intervenuto, a un cambiamento di rotta verso un «futuro più giusto», come recita, e già prima recitava, il titolo del libro, e come è descritto dalla diagnosi e dalle proposte che presentiamo. Sono diagnosi e proposte a cui la crisi Covid-19 dà un nuovo e ancor più forte significato.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 11

2. La crisi Covid-19: disuguaglianze, effetti, opzioni strategiche


La crisi globale Covid-19 ha fatto emergere molte disuguaglianze e ingiustizie che segnavano quella «normalità» e le scelte infauste che le hanno prodotte. Possiamo immaginarla come l'interfaccia tra due crisi. Da un Iato, ci sono la crisi ecologica del pianeta, la perdita di biodiversità, la crisi climatica, il consumo di natura, l'inquinamento, la deforestazione, l'invadenza dei sistemi agroindustriali: non conosciamo le cause dell'insorgenza di questo virus, ma per precedenti epidemie è stato accertato il contributo di sovrappopolazioni geneticamente omogenee, specie se contigue alla fauna selvatica; e andrà analizzata la relazione fra effetti e letalità del Covid-19 e la diffusione delle malattie croniche dell'apparato respiratorio, notoriamente assai influenzate dall'inquinamento atmosferico che ogni anno produce nel mondo centinaia di migliaia di decessi prematuri. Dall'altro lato, ci sono le fragilità e le disuguaglianze preesistenti che hanno amplificato la diffusione e gli effetti sanitari, economici e sociali del virus. In particolare, la crisi globale Covid-19 ha messo in forte evidenza gli aspetti illustrati di seguito.

• Assoluta impreparazione globale alla pandemia, connessa ai processi di privatizzazione della conoscenza. Il rischio era noto da tempo, ed era stato reiterato nel settembre 2019 dal Rapporto A World at Risk del Global Preparedness Monitoring Board, che descriveva la «minaccia assolutamente reale di una pandemia altamente letale e in rapida diffusione prodotta da un agente patogeno delle vie respiratorie» e denunziava l'impreparazione di fronte a questa minaccia, attribuendola fra l'altro al fatto che «le tecnologie impiegate per la produzione di vaccini contro l'influenza sono sostanzialmente immodificate dagli anni '60»: una situazione dovuta alla non convenienza degli investimenti per le case farmaceutiche.

• Fallimento della cooperazione politica internazionale, legata all'erosione del ruolo degli organismi internazionali come luogo di scontro e di compromesso fra opzioni politiche diverse. Latitanza di quasi ogni forma di alleanza politica internazionale. Incapacità dell'Unione europea di agire all'altezza della situazione - si pensi alle sue prime mosse e poi ai tempi e alle esitazioni per costruire l'ipotesi di un Fondo europeo dedicato - perché dominata da una logica intergovernativa. Fa eccezione la Banca centrale europea, interprete di una logica federale.

• Immediata traslazione dello shock economico (di domanda e di offerta) sul lavoro a seguito della diffusione del lavoro precario, a tempo, a chiamata, pseudo-autonomo o irregolare - in Italia 1/3 dei 21 milioni di lavoratori e lavoratrici privati/e.

• Scarsissima possibilità di reazione di vaste fasce della popolazione - in Italia, almeno 10 milioni di adulti non dispongono di risparmi liquidi necessari a reggere un periodo di tre mesi di mancate entrate.

• Forti divari territoriali in termini di capacità di connessione (aree interne) o di qualità di altri servizi fondamentali, a cominciare da salute, scuola e servizi di cura della persona.

• Specificamente in Italia: polarizzazione del sistema delle piccole e medie imprese, con un terzo circa di esse che, sopravvivendo solo grazie a bassi salari o irregolarità, non è resiliente allo shock.

• E ancora: una sanità indebolita da forti disinvestimenti e da un «paradigma ospedaliero» che ha penalizzato i presidi territoriali che combinano salute e servizi sociali. Più in generale, l'arcaicità e le debolezze delle amministrazioni pubbliche, disincentivate all'esercizio della discrezionalità, all'attenzione al risultato, alla pratica dell'intesa fra Stato e Regioni propria di un'organizzazione federale, a governare processi partecipativi coerenti con l'articolo 118 della Costituzione.

Ora, queste e altre fragilità e disuguaglianze sono davanti agli occhi di tutti. Ciò dovrebbe rappresentare, può rappresentare, uno sprone a cambiare rotta. Per di più, in una crisi così grave, i parametri del possibile non sono più gli stessi, si possono aprire nuovi spazi. «Decisioni che in tempi normali richiederebbero anni per essere prese - ha scritto Yuval Noah Harari - sono approvate nel giro di ore». Ma queste decisioni e il cambiamento possono essere orientati in direzioni assai diverse. Non c'è nulla di automatico. Possiamo intravedere tre diverse opzioni strategiche, che si contenderanno l'egemonia culturale e delle decisioni nel costruire l'uscita dalla crisi. Tutte si cimentano con le «disuguaglianze» - come evitarlo? -, ma lo fanno in modo radicalmente diverso. Una prima opzione, a cui dare l'accattivante titolo di normalità e progresso, proporrà come obiettivo la «normalità» dell'ultimo quarantennio «con più attenzione alle disuguaglianze», e lo farà affidandosi agli stessi principi e dispositivi che hanno prodotto e amplificato quelle disuguaglianze, presentando la «digitalizzazione» come un processo univoco di progresso, promettendo «semplificazioni» e inibendo tanto la discrezionalità strategica e sperimentale del «pubblico», quanto la partecipazione strategica del lavoro e della società civile.

Una seconda opzione, che potremmo definire sicurezza e identità, offrirà alle disuguaglianze, alle sofferenze e all'incertezza per il domani la compensazione di uno «Stato accentrato», che prenda decisioni senza la pretesa di un pubblico confronto, controlli e sanzioni i comportamenti «difformi», impedisca contaminazioni, combatta presunti nemici ed elevi barriere a difesa di comunità chiuse, anche a costo di ridurre le libertà: è il rilancio della dinamica autoritaria, già in atto prima della crisi.

A queste due opzioni e al rischio che esse trovino un compromesso, può rispondere un altro progetto che metta al centro del futuro la giustizia sociale e ambientale - diamole questo nome - e persegua questi obiettivi modificando gli equilibri di potere e i dispositivi che producono le disuguaglianze, orientando il cambiamento tecnologico digitale, creando spazi di confronto acceso, aperto e informato dove lavoro e società civile possano pesare sulle scelte strategiche, territorio per territorio, e producendo un salto di qualità del «pubblico» e delle sue amministrazioni capace di ricostruire fiducia. È in questo modo che possiamo raggiungere i risultati a cui tutti abbiamo diritto di aspirare: lavori stabili e di qualità, una libera circolazione della conoscenza, una drastica riduzione della povertà educativa, filiere energetiche e alimentari pulite e di prossimità, rilancio del sistema delle PMI sulla base dell'innovazione, abitazioni dignitose e sicure, servizi fondamentali a misura dei luoghi, riequilibrio nel rapporto fra i generi, una vita in sintonia con l'ecosistema.

È questo il progetto che muove noi del Forum Disuguaglianze Diversità (ForumDD), nel lavoro svolto e nel portare ai lettori queste pagine. Siamo un'alleanza culturale e politica autonoma, che riunisce conoscenze di mondi diversi: cittadinanza attiva e ricerca, persone (47 membri e 36 partner di progetto) e organizzazioni (8 organizzazioni di cittadinanza attiva e 3 fondazioni sostenitrici); prassi e teoria; sperimentazione e aspirazione sistemica. In cui persone e soggetti collettivi differenti per competenze, sensibilità, storie e appartenenze investono tempo e sono pronte a mettere in discussione le proprie convinzioni per costruire ponti e nuove idee, attraverso un confronto acceso, informato, aperto e ragionevole.

Siamo mossi dalla convinzione che, da noi come altrove nell'Occidente, lo stato di cose che precedeva la crisi e che ne ha amplificato gli effetti è modificabile: difficile ma possibile. Perché quello stato di cose non dipende, come spesso si sostiene, da fenomeni ineluttabili - globalizzazione, tecnologia, «società liquida» - ma è in gran parte frutto di scelte politiche e delle politiche dell'ultimo quarantennio: la svolta neoliberista - definiremo poi con precisione questo termine - avviata a fine anni '70, che ha segnato il modo in cui quei fenomeni si sono sviluppati, e che ha squilibrato i poteri. Compiendo altre scelte politiche e adottando politiche diverse possiamo allora prendere oggi un'altra strada, intervenendo su quei fenomeni e riequilibrando i poteri. Come? Come la nostra Costituzione chiede alla Repubblica di fare. Perché il risentimento e la rabbia se, da un lato, possono alimentare una dinamica autoritaria, che usa la questione identitaria per sviare dalla questione sociale, dall'altro, possono promuovere ed evolvere in forme nuove di impegno, mobilitazione, auto-organizzazione e partecipazione capaci di rianimare la democrazia e, appunto, di rimuovere gli ostacoli. Forme che ovunque, sotto le ceneri, rappresentano, anche in Italia, un formicolio sociale e politico di grande, potenziale forza e sempre più visibile. E che durante la crisi sono venute in forte evidenza. Mettendo assieme i saperi e i sentimenti che queste diverse forme di impegno producono, trasformando la rabbia in conflitto, che è l'anima della democrazia, è possibile costruire proposte e azioni di cambiamento per riequilibrare i poteri e per intraprendere una nuova strada di emancipazione sociale.

L'incertezza creata dalla crisi Covid-19 è radicale. Non sappiamo quando verrà sviluppato un vaccino né la sua efficacia. Non sappiamo se alla rimozione dei divieti alla mobilità e alle attività produttive dovranno poi seguire nuove restrizioni. E dunque non conosciamo l'entità delle perdite di prodotto e di capacità produttiva a cui andiamo incontro. Ma per agire, collettivamente e individualmente, dobbiamo rischiare previsioni. Possiamo dunque immaginare che la crisi Covid-19, mentre crea sofferenza, povertà e incertezza, distrugge capacità produttiva e indebolisce la competitività del paese, al tempo stesso, modifichi comportamenti e attivi tendenze che un progetto di emancipazione deve sapere cogliere e utilizzare. Possiamo allora prevedere per i prossimi mesi e anni effetti di segno assai diverso. Da un lato, oltre all'impoverimento (già visibile) della parte più vulnerabile della popolazione, una minore circolazione delle persone e dei beni, la rottura di alcune catene internazionali del valore con effetti territoriali diversificati, l'uscita dal mercato della fascia meno resiliente del sistema delle PMI, minacce significative alla competitività di una parte de11a nostra industria esportatrice, l'ulteriore rafforzamento del potere monopolistico delle megaimprese del settore digitale, crescenti rischi nell'utilizzo improprio di dati sui nostri movimenti e comportamenti, il ricorso al lavoro a distanza come fonte di controllo e isolamento delle persone.

Dall'altro lato, l'accelerazione nell'utilizzo del digitale può aprire opportunità nell'insegnamento - se tutti e tutte avranno accesso agli strumenti e alle competenze necessari per fruire e indirizzare il cambiamento -, nel lavoro stesso - se si darà vita a riorganizzazioni del lavoro che accrescano responsabilità e autonomia di lavoratrici e lavoratori -, nello sviluppo di vaccini, nella costruzione di mutualismo, nell'identificazione dei beneficiari della protezione sociale; e può sollecitare l'affermazione e la soddisfazione di diritti alla disconnessione o alla riparazione. Mentre la modifica delle preferenze e dei bisogni, dettata da un principio di precauzione e da altri fattori, può suscitare modifiche permanenti nei comportamenti e lo sviluppo di nuove attività a elevata intensità di buon lavoro: in tutti i servizi fondamentali, in produzioni agro-silvo-pastorali di filiera corta, nella produzione di energia decentrata, nella cultura, nel turismo in aree a bassa densità di popolazione, nella sicurezza del lavoro, oltre ovviamente che nella salute e nel welfare.

E poi ci sono gli effetti sulle pubbliche finanze. Certo è il forte incremento del debito pubblico. Il suo balzo dovuto alle spese emergenziali adottate potrà essere assorbito dai mercati, se proseguirà l'azione di accompagnamento da parte della Banca centrale europea. Viceversa, ulteriori spese pubbliche necessarie per il rilancio dello sviluppo e per riformare sistemi di protezione sociale mostratisi inadeguati dovranno trovare copertura in nuove entrate: si porrà quindi (già si pone) il problema di come reperirle, di come modificare il sistema impositivo, in presenza di forte evasione, di notevoli iniquità orizzontali (redditi simili tassati con modalità assai diverse a seconda dei soggetti) e di una forte disuguaglianza nella distribuzione della ricchezza. Se, poi, un ritorno nella diffusione del virus costringesse a rinnovare per molti mesi i provvedimenti restrittivi della mobilità e delle attività, sarebbero necessarie ulteriori misure straordinarie volte a redistribuire temporaneamente i redditi da chi ne ha in eccesso a chi ne ha in difetto rispetto a quanto necessario per sostenere le spese essenziali di vita. Si aprono quindi molteplici alternative per l'azione pubblica.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 16

3. Giustizia sociale e giustizia ambientale per lo sviluppo


Ancora una volta, e più ancora che in condizioni ordinarie, il futuro non è segnato. Dipenderà anche dalle nostre scelte. È possibile, dunque, cambiare rotta. Ma non è facile, per il coacervo di conoscenze che le scelte giuste richiedono, e perché il cambio di rotta ha molti avversari: lo stato delle cose in cui il virus è esploso era sì ingiusto per moltissimi, ma era conveniente per molti altri, che resisteranno al cambiamento. Ecco perché è necessario che ogni proposta nasca attraverso un confronto acceso, informato e aperto e sia sostenuta da una mobilitazione sociale robusta. Ecco il nodo dove noi del ForumDD lavoriamo, unendo le conoscenze del fare e dell'agire.

Si tratta di traguardare il medio-lungo termine. Ma sempre partendo dal breve termine. A maggior ragione quando sei dentro una crisi. Ad aprire (o chiudere) i primi possibili spiragli di un cambio di rotta sono infatti le stesse azioni pubbliche per l'emergenza, a cominciare dai provvedimenti di protezione sociale delle persone e di offerta di liquidità alle imprese e dai piani di riavvio in sicurezza delle attività. Assicurare con tempestività - che ancora manca, al momento di chiudere queste pagine - che la protezione sociale non escluda i 6-7 milioni di lavoratori privati che sono precari o irregolari (3,3 milioni), cogliendo anche l'occasione per costruire con questi ultimi un rapporto con lo Stato che, grazie al ruolo delle organizzazioni di cittadinanza attiva opportunamente sostenute, possa successivamente avviare un percorso di regolarizzazione e di accesso ai nuovi lavori. Prevedere che il credito agevolato alle imprese, necessario per impedire il collasso del sistema produttivo - e dunque disegnato per accrescere la liquidità delle imprese, non per trasformare debiti esistenti con le banche in debiti garantiti dallo Stato -, favorisca anche un ricambio manageriale indispensabile per molte PMI, e si accompagni all'assunzione di impegni sull'impatto sociale e ambientale di quei mezzi finanziari. Realizzare i piani di ripresa delle attività attraverso forme di governance estesa a tutti gli stakeholders, con forti investimenti nella sicurezza e un rafforzamento dei sistemi ispettivi.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 20

4. Le nostre proposte concrete: lo schema del libro


Gli esempi sopra richiamati per illustrare come gli interventi per la giustizia sociale e ambientale siano forieri di innovazione e sviluppo non sono casuali. Danno il senso delle proposte che abbiamo costruito per offrire un contributo operativo a questo diverso paradigma e mettere alla prova la nostra diagnosi delle cause delle disuguaglianze e la tesi che esista un'alternativa: alla prova di azioni collettive e pubbliche concrete. Nel marzo 2019, dopo due anni di lavoro, assieme ad altri cento ricercatori, abbiamo prodotto il Rapporto 15 proposte per la giustizia sociale (d'ora in poi «Rapporto»), che affronta la fonte primaria di molte disuguaglianze: la disuguaglianza di ricchezza privata e comune. Abbiamo articolato la strategia in tre direzioni, corrispondenti a tre processi di formazione della ricchezza: cambiamento tecnologico; equilibrio di potere fra lavoro e capitale (o, meglio, chi lo controlla); passaggio generazionale. Nel disegnare le proposte, abbiamo incrociato di continuo l'altra decisiva disuguaglianza, la disuguaglianza di istruzione, o povertà educativa, che abbiamo messo al centro del secondo biennio di attività del ForumDD.

[...]

L'esposizione si apre con una mappa delle disuguaglianze (opportunamente definite), una diagnosi delle loro cause, risalendo fino alle determinanti della svolta neoliberista della politica e delle politiche a fine anni '70, e una descrizione di tali politiche, con attenzione alle specificità italiane (cap. 2). E prosegue, poi, con una valutazione degli effetti politici di quella svolta e con un'analisi del formicolio politico e sociale che potrebbe ridare vita a una stagione di emancipazione sociale e che sta già oggi dietro le nostre proposte, proposte di cui vengono riassunti i tratti comuni (cap. 3). Questa prima parte dà senso e consente di affrontare nel resto del volume le quindici proposte che abbiamo elaborato. La loro esposizione si articola secondo l'impianto dei tre processi di formazione della ricchezza che segnano dimensione e natura delle disuguaglianze: un cambiamento tecnologico per la giustizia sociale (cap. 4); un lavoro con più forza per contare (cap. 5); un passaggio generazionale più giusto (cap. 6). Per ogni proposta, vengono presentate l'ingiustizia da combattere, le sue cause, l'obiettivo desiderato e lo strumento con cui perseguirlo, per poi chiudere descrivendo il modo in cui, e gli alleati con cui, in questi tredici mesi abbiamo «messo a terra» la proposta, e con quali esiti.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 22

5. La chiave di lettura del dopo Covid-19


Apparirà chiaro dalla lettura quanto le quindici proposte siano più valide e necessarie che mai dopo la crisi Covid-19. E come esse configurino una parte significativa di ciò che sarebbe oggi necessario fare per costruire il «dopo», per superare le distruzioni e orientare i cambiamenti prodotti dalla crisi. Ma ci è sembrato utile rendere tutto ciò esplicito in modo compatto a chiusura di questa introduzione, proponendo una chiave di lettura alternativa delle nostre proposte che faccia diretto riferimento al dopo Covid-19. Muovendo dalle tendenze e dai cambiamenti messi in moto dalla crisi, nel lavoro di queste turbolente settimane abbiamo così individuato cinque obiettivi strategici, fortemente interconnessi, sulla cui base a nostro parere andrebbe costruito il dopo Covid-19. Per ogni obiettivo, indichiamo una o più delle nostre 15 proposte che possono aiutare a conseguirlo - una sorta di percorso alternativo del contenuto dei capitoli 4, 5 e 6 - e altre possibili linee di azione.


I. Accrescere l'accesso alla conoscenza e indirizzare la trasformazione digitale alla giustizia sociale e ambientale.

[...]

II. Orientare e sostenere servizi fondamentali, nuove attività e buoni lavori, prima di tutto nei territori marginalizzati.

[...]

III. Dignità, tutela e partecipazione strategica del lavoro, in un nuovo patto con le imprese.

[...]

IV. Accrescere la libertà dei giovani nel costruirsi un percorso di vita e contribuire al futuro del paese.

[...]

V. Qualità e metodo delle amministrazioni pubbliche: una «rivoluzione» operativa.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 69

3. Disuguaglianza di ricchezza e progetti politici




1. Ricchezza privata e comune


Abbiamo scelto di partire dalla disuguaglianza di ricchezza per due ragioni. Perché è cresciuta in modo significativo e perché, influenzando altre disuguaglianze, essa è un forte fattore generativo di ingiustizia sociale.

La crisi attuale ci sta mostrando ancor più chiaramente che se non puoi fare affidamento su uno zoccolo di ricchezza privata, tuo o familiare, non puoi reagire agli imprevisti. Ma c'è molto di più, e non solo in tempo di crisi. In assenza di ricchezza privata, per quanto tu ti sia impegnato nello studio, non puoi scegliere l'università più adatta; ti è assai più difficile rifiutare un lavoro inadeguato, rischioso o addirittura illecito; diventa praticamente impossibile realizzare un progetto creativo o imprenditoriale; cresce il rischio di dover vivere in un'area degradata e si riduce la possibilità di impegnarti per il suo risanamento; e molto altro. Effetti altrettanto profondi derivano da una cattiva qualità della ricchezza comune, dell'ambiente, del paesaggio e dei luoghi in cui risiedi, studi, incontri gli altri, ti curi, ozi, pensi: essa riduce la qualità e le opportunità della tua vita, apre un divario mortificante rispetto a chi può accedere a una ricchezza comune di qualità, riduce alla lunga la tua ricchezza privata. Queste due disuguaglianze si alimentano l'una con l'altra. Ingiustizia ambientale e sociale si cumulano.

Affrontando la disuguaglianza di ricchezza abbiamo continuamente intersecato l'altra grande disuguaglianza, quella di istruzione, a cui il ForumDD dedicherà il secondo biennio di attività. È un'altra dimensione fondamentale dell'ingiustizia sociale, di particolare gravità in Italia. Arrivare a trattarla avendo chiari i tratti di un progetto di emancipazione sociale sul piano della ricchezza aiuterà. E soprattutto sono emersi già ora, in molte proposte, i nessi fra le due dimensioni: a parità di doti naturali e di istruzione, due persone con e senza ricchezza hanno prospettive di vita diverse; a parità di ricchezza posseduta e di doti naturali, due persone con un divario di istruzione hanno prospettive di vita diverse.

Nell'affrontare le disuguaglianze di ricchezza ci siamo concentrati sui tre principali processi che influenzano formazione e distribuzione della ricchezza stessa: cambiamento tecnologico; equilibrio di potere fra lavoro e impresa; passaggio generazionale. Il cambiamento delle politiche e del senso comune dell'ultimo quarantennio ha fortemente influenzato questi tre processi, concorrendo alle attuali disuguaglianze.




1.1. Gli effetti sul cambiamento tecnologico


L'effetto composto delle tre inversioni di rotta del progetto neoliberista sulla direzione presa dal cambiamento tecnologico è di particolare rilevanza.

La tecnologia dell'informazione ha in sé il potenziale per ampliare l'accesso alla conoscenza, per promuovere innovazione imprenditoriale, per facilitare relazioni e soluzioni cooperative a cavallo di classi sociali e luoghi, per produrre buoni posti di lavoro, per migliorare la qualità di vita di tutti e nelle aree marginalizzate. Insomma, ha il potenziale per accrescere la giustizia sociale. E invece, nonostante indubbi effetti positivi in molti campi, sta avvenendo il contrario. La tecnologia dell'informazione ha aperto una biforcazione, e noi stiamo prendendo la strada sbagliata. Questo paradosso è spiegato dalle scelte compiute nell'ultimo quarantennio.

Il passo indietro dello Stato e la sua tendenziale rinuncia a esercitare una funzione strategica, da una parte, e l'indebolimento del potere di confronto e di negoziazione dei sindacati, dall'altra, hanno impedito di muovere il cambiamento tecnologico nelle direzioni sopra indicate e hanno permesso uno straordinario processo di concentrazione della conoscenza, e quindi del potere e della ricchezza. Questa duplice concentrazione è ben colta dal fatto che fra le prime dieci imprese del mondo per valore di mercato sette si basano sulla tecnologia dell'informazione: le nuove «sette sorelle» che hanno preso il posto delle compagnie petrolifere.

All'uso incontrollato dei nostri dati, collettivi e personali, si accompagna quello dei dispositivi digitali e segnatamente degli algoritmi di apprendimento automatico. Si tratta di un mezzo potenzialmente capace di accrescere la giustizia sociale in molteplici campi della vita umana. Ma, in assenza di un suo governo collettivo o pubblico, la ripetibilità e scalabilità delle correlazioni che ne sono l'essenza, l'apparente oggettività delle decisioni che esso suggerisce, la sua natura di scatola nera si prestano all'uso opposto (ci torneremo). È quanto avviene nelle selezioni o nel controllo discriminatorio sul lavoro, nella fissazione di prezzi monopolistici sul mercato, nel ridisegno perverso dei prodotti assicurativi, nella disumanizzazione dei rapporti di cura, nella selezione oscura dei messaggi politici o pubblicitari rivolti a tutti noi.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 75

2. Rabbia e progetto autoritario


Rabbia e risentimento. In Italia come in tutto l'Occidente sono questi i sentimenti amari prodotti dalle disuguaglianze e dalle ingiustizie sociali di cui abbiamo descritto natura e cause.

Catalizzati dalla crisi iniziata nel 2008 e mai davvero conclusasi, rafforzati dalla crisi Covid-19, questi sentimenti hanno in realtà radici profonde, che travalicano di gran lunga le crisi. È vano ricercarne la correlazione con la dinamica congiunturale di singoli indicatori o le condizioni di singoli gruppi sociali. A costituirne la base sono la natura sistemica dell'arresto di quell'incremento continuo di giustizia sociale che aveva caratterizzato il trentennio postbellico; l'impoverimento di molti e l'aggravamento della povertà di altri; l'incertezza e i crescenti divari di opportunità delle giovani generazioni; la delusione del ceto medio per il non concretizzarsi delle promesse di «arricchimento» fatte dal neoliberismo, avendo la globalizzazione portato benefici ad altri (il nuovo ceto medio dell'Asia e i più abbienti del nostro Occidente) e a loro una nuova vulnerabilità; il mancato riconoscimento delle aspirazioni di intere fasce sociali, contrapposto al riconoscimento quotidiano, su carta patinata, di una borghesia urbana cosmopolita, sia essa di «destra finanziaria» o di «sinistra acculturata»; la forte concentrazione territoriale delle disuguaglianze. In questo quadro, il credo neoliberista secondo cui non ci sarebbe alternativa, anziché come una gioiosa promessa, è apparso come una pesante condanna.

Ma c'è altro. Il progetto neoliberista ha reso invisibile il popolo. Ha esaurito nel voto il ruolo politico dei cittadini, dando rilievo e valore, invece, al loro ruolo di consumatori-migranti: che esprimono il gradimento verso la gestione dei servizi fondamentali e del proprio territorio come fossero consumatori nel mercato, girando le spalle a una scuola o a un ospedale, oppure migrando dai loro luoghi di vita.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 89

4.2. Le quindici proposte in sintesi


Abbiamo spiegato le ragioni per cui si è scelto di dare priorità al contrasto della disuguaglianza di ricchezza, privata e comune: la sua estrema gravità, la sua pervasività, l'urgenza di un intervento. E abbiamo anticipato i tre terreni su cui le nostre proposte contrastano questa disuguaglianza: cambiamento tecnologico, rapporto lavoro-imprenditori, passaggio generazionale. Su ognuno di questi terreni le proposte avanzate derivano dalla diagnosi che abbiamo ora esposto. La loro accresciuta rilevanza di fronte alla crisi Covid-19 è riassunta dalla chiave di lettura proposta nel capitolo 1.

Undici delle quindici proposte sono rivolte a orientare il cambiamento tecnologico alla giustizia sociale. Abbiamo visto che le politiche e il senso comune del neoliberismo hanno orientato il cambiamento tecnologico verso una forte concentrazione della conoscenza, nuove forme di monopolizzazione e quindi una concentrazione della ricchezza e del potere, e di fronte alle biforcazioni aperte dalla tecnologia dell'informazione stanno spingendo nella direzione sbagliata, con grandi rischi in tutti i campi della nostra vita. Si tratta allora di riprendere il governo di questa trasformazione, per fargli imboccare una strada che accresca la libertà sostanziale di tutti, eroda le posizioni di monopolio, offra opportunità.

Le proposte rivolte a questo primo obiettivo affrontano tutti i principali aspetti della questione. Perseguono il libero accesso alla e la sovranità collettiva sulla conoscenza: cambiando la gerarchia internazionale dei principi del libero accesso alla e della tutela della proprietà intellettuale, prima di tutto con una rinegoziazione dell'accordo TRIPs, e promuovendo in molteplici forme, nella cornice europea e con un forte ruolo delle città, la gestione pubblica e la sovranità collettiva sui dati e sugli algoritmi di apprendimento automatico, e un sussulto di consapevolezza in tutta la società. Tornano ad assegnare missioni strategiche alle imprese pubbliche: in Italia, sia valorizzando il vasto patrimonio tecnologico e di ricerca oggi sottoutilizzato, sia creando uno o più grandi hub tecnologici europei, che operino sul mercato in concorrenza con le grandi corporation. Riattivano potenti leve trascurate dell'amministrazione quotidiana: la domanda pubblica e gli appalti con cui attuarla, dando certezze e orientamenti al mercato, e il finanziamento pubblico di spese private per Ricerca e Sviluppo (R&S), dove prevedere clausole sociali e ambientali.

E ancora, riconoscono e valorizzano il ruolo delle università per la giustizia sociale, lungo le tante dimensioni indicate in queste pagine, tutte riconducibili all'articolo 3 della Costituzione: modificando il modo di definirne e valutarne l'impatto sociale (la cosiddetta terza missione) e dando visibilità e forza a mille esperienze oggi trascurate; promuovendo l'alleanza delle università con il sistema delle piccole e medie imprese, necessario a queste per accedere a una conoscenza altrimenti oggi fortemente concentrata. Curano il reinvestimento dei profitti del cambiamento tecnologico, strumento primario di diffusione dei suoi benefici: attraverso strategie per le aree marginalizzate fondate su visioni di lungo termine, partecipazione, modifica permanente delle politiche settoriali ordinarie. Promuovono interventi per la giustizia ambientale al servizio dei ceti deboli: assicurandosi che le misure urgenti per la transizione energetica, per la tutela dell'ambiente e per lo sviluppo delle «produzioni verdi» in cui l'Italia ha un vantaggio comparato favoriscano in primo luogo le loro opportunità di lavoro e di vita. E infine imprimono una scossa alle pubbliche amministrazioni: che le renda capaci e motivate ad attuare le nuove missioni strategiche con un metodo di governo flessibile e attento ai contesti, curando il reclutamento e l'inserimento delle vaste leve di giovani che in circa tre anni rinnoveranno almeno il 15% del personale, valorizzandone la «missione pubblica» e incentivandone la discrezionalità.

Riprendere l'indirizzo del cambiamento tecnologico è tutt'una con il secondo obiettivo generale: dare al lavoro più forza per contare, sia nella negoziazione delle condizioni di lavoro, retributive e non, sia nelle scelte strategiche e organizzative delle imprese. È questa la condizione, in primo luogo, per assicurare dignità al lavoro. E poi per assicurarne l'autonomia, ossia per accrescere la libertà di ogni lavoratrice e lavoratore di scegliere come utilizzare le proprie abilità nella sfera del lavoro: libertà positive, che implicano pretese valide di non esclusione e di partecipazione. Nell'esercizio di questa partecipazione non deve esservi distinzione fra tipologie di lavoro, stabile o precario. Inoltre, assieme a lavoratrici e lavoratori devono concorrere anche le comunità territoriali che risentono delle ricadute ambientali dell'attività d'impresa.

Gli obiettivi di giustizia sociale e ambientale non possono essere raggiunti solo attraverso una recuperata capacità di indirizzo dello Stato e delle politiche pubbliche. Queste, da sole, non sono in grado di correggere la sproporzionata disuguaglianza nei redditi e nella ricchezza che nasce anche dalla diseguale distribuzione dei diritti di controllo e di presa delle decisioni nelle imprese. Se dunque si vuol porre freno alle disuguaglianze bisogna operare sulle capacità e sui diritti (di proprietà, di decisione o di partecipazione) con i quali gli individui entrano nelle attività di mercato - le imprese prima di tutto. La strategia della predistribuzione non si limita a dare maggior forza contrattuale ai lavoratori, ma influisce anche sul modo in cui sono distribuiti í diritti di decisione che ammettono o escludono dall'accesso alle risorse dell'impresa.

Vanno in questa direzione tre proposte. La prima mira a ridare dignità retributiva al lavoro, e segnatamente a garantire retribuzioni dignitose per tutti, indipendentemente dalla natura del contratto, con tre mosse contemporaneamente: estendere a tutti i lavoratori e lavoratrici l'efficacia dei contratti firmati da organizzazioni rappresentative; introdurre un salario minimo legale; rafforzare la capacità dei centri di ispezione di contrastare le irregolarità. La seconda proposta vuole permettere a lavoratrici e lavoratori e a cittadine e cittadini la possibilità di contare sulle scelte imprenditoriali, dando vita a Consigli del lavoro e della cittadinanza che, a livello di impresa o di area territoriale, raccolgano la rappresentanza sia dell'intera filiera del lavoro stabile e precario, sia dei residenti, consentendo di riconciliare e far pesare davvero obiettivi di giustizia sociale e ambientale nelle scelte di gestione delle imprese. La terza proposta intende valorizzare e potenziare i «workers buyout», modalità di acquisizione delle imprese da parte dei loro lavoratori organizzati in cooperativa, che consente la risoluzione di crisi aziendali o di trasferimenti generazionali di impresa senza successo, e la tutela della capacità accumulata da lavoratrici e lavoratori.

Il terzo e ultimo obiettivo generale è quello di rendere più giusto il passaggio generazionale. La libertà sostanziale di ragazze e ragazzi di realizzare il «pieno sviluppo della propria persona» (per parafrasare la nostra Costituzione) è oggi fortemente condizionata dalla «lotteria della nascita», ossia dalle condizioni economiche e sociali della famiglia di origine, oltre che dal contesto territoriale. La scarsa mobilità sociale dell'Italia, inferiore oggi rispetto al passato, e in generale la vera e propria crisi generazionale in atto ne sono la manifestazione. Pesano i seri limiti del sistema di istruzione (di cui, come si è detto, ci occuperemo nel secondo biennio di attività del ForumDD) e pesano i mezzi finanziari della famiglia su cui ragazze e ragazzi, nell'avvicinarsi all'età adulta, sanno di poter contare: per acquistare beni e servizi, per investire, per disporre di un «paracadute» che consenta di rischiare. La maggiore disuguaglianza di ricchezza e le politiche adottate hanno accresciuto questa discriminazione. È necessario ridurne con decisione l'impatto.

Per raggiungere questo risultato proponiamo due interventi fra loro complementari volti a rendere progressiva l'imposta sui vantaggi ricevuti e introdurre un'eredità universale. L'imposta, sostitutiva di quella attuale e relativa a tutte le eredità e le donazioni ricevute nell'arco della vita, dimezzerebbe il numero dei contribuenti, accrescendo progressivamente le aliquote al di sopra di soglie assai elevate. L'eredità universale (ipotizzata pari a l5mila euro) sarebbe erogata al raggiungimento dei 18 anni, avrebbe natura universale e incondizionata, e sarebbe accompagnata da un servizio abilitante, offerto attraverso la scuola e l'intera comunità sin dalla più giovane età a supporto delle decisioni di libero impiego della somma. Circa il 60% del costo del secondo intervento potrebbe essere coperto dal primo.

Ogni singola proposta che avanziamo è attuabile separatamente dalle altre. Ma le proposte sono fra loro profondamente connesse, rispondono a una diagnosi unitaria, accrescono l'una l'efficacia dell'altra. Inoltre toccano e quindi mettono assieme una molteplicità di interessi: è questo che dà al tutto il connotato di una proposta politica generale, non della rappresentanza di specifici interessi. Il loro grado di affinamento è assai differenziato, e sono comunque aperte e bisognose di confronto e di altro lavoro, quello che si è avviato con la «messa a terra». Tuttavia configurano parte significativa di un progetto possibile di emancipazione che potrebbe davvero cambiare rotta rispetto allo stallo e alle ingiustizie del paese. E che potrebbe, al tempo stesso, produrre un effetto rivitalizzante sull'efficienza dinamica del nostro sistema produttivo. Obiettivi resi ancora più urgenti di fronte all'impoverimento, alla distruzione di capacità produttiva e alle incertezze sistemiche prodotti dalla crisi Covid-19. Lo abbiamo chiarito nelle pagine introduttive. La tesi secondo cui sarebbe la crescita a produrre giustizia sociale è stata respinta dai fatti. Il recupero di competitività dell'Italia passa per interventi che servono alla giustizia sociale. Abbiamo bisogno di «giustizia sociale e ambientale per lo sviluppo».

La forza delle proposte sta nell'unitarietà della diagnosi e nella compattezza degli obiettivi a cui mirano. E sta anche in alcuni tratti che esse condividono e che di seguito riassumiamo.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 103

4. Un cambiamento tecnologico per la giustizia sociale


Ricerca scientifica e innovazioni tecnologiche non hanno un effetto predeterminato sulla giustizia sociale e sulle disuguaglianze. Questo effetto dipende dall'utilizzo che se ne fa, dai problemi che si chiede loro di risolvere, dai cambiamenti dell'organizzazione sociale e istituzionale e delle forme di mercato che le accompagnano. Nello sviluppo delle scoperte scientifiche e delle nuove tecnologie si aprono quindi di continuo biforcazioni: fra un uso che accresce e un uso che riduce la giustizia sociale, nella definizione pluralista e fondata sulla nostra Costituzione che ne abbiamo dato (cfr. cap. 2, par. 1.1). La scelta che si compie dipende dai rapporti di potere e culturali che prevalgono in ogni fase e dà vita a un dato cambiamento tecnologico, ossia a un particolare processo di trasformazione sociale, che non è neutrale. Oggi, lo shock della pandemia Covid-19 accelera il cambiamento tecnologico. «Tecnologie immature e anche pericolose sono messe di corsa al lavoro perché il rischio di non farlo è più grande», ha scritto Yuval Noah Harari. La biforcazione fra buoni e cattivi usi della tecnologia si accentua. E con essa l'urgenza di indirizzare il cambiamento tecnologico alla giustizia sociale e ambientale.

La tecnologia dell'informazione e la trasformazione digitale consentono straordinari incrementi nella capacità di raccogliere, accumulare, elaborare, trasmettere e utilizzare dati al fine di produrre, selezionare, decidere, mettere in connessione, comunicare. La crisi Covid-19 ha reso ancora più evidenti questi tratti. Al tempo stesso diventa possibile scambiare sul mercato ciò che non lo era, creare relazioni secondo comunanze che non dipendono dai luoghi, e modificare il linguaggio e il senso comune. È dunque evidente che le biforcazioni fra emancipazione e regressione sociale, fra aumento e riduzione della giustizia sociale, sono straordinariamente marcate. È utile esemplificarlo rispetto a quanto è già avvenuto, per dare il segno di ciò che potrà avvenire.

I progressi realizzati dal cambiamento tecnologico sono indubbi e riguardano in molti casi anche i ceti deboli. I progressi nel campo della salute consentono di prevenire e contrastare molte malattie croniche e di promuovere stili di vita sani. I dati personali immessi in rete hanno permesso di dare un'identità a milioni di essere umani che prima non potevano accedere ai loro diritti. Sono state automatizzate attività produttive pericolose e dannose per la persona umana. È cresciuta la possibilità di produrre energia senza causare danni irreversibili all'ambiente. Masse di informazioni che fino a ieri erano prerogativa di pochi sono divenute accessibili a tutti, ed è cresciuta in modo esponenziale la tempestività dell'informazione. Ciò rende possibili forme nuove di reciprocità o la costruzione di solidarietà e scambi anche fra soggetti senza potere e fisicamente distanti. E poi, possiamo conoscere all'istante le opzioni disponibili di un prodotto desiderato e acquisirlo nell'immediato, mentre sono esplose le possibilità di intrattenimento (due terzi dei byte in rete): due benefici sui quali si è costruito e cementato il nostro consenso, spesso incondizionato, al cambiamento tecnologico.

Ma c'è un'altra faccia della medaglia che minaccia soprattutto i ceti deboli e crea rischi crescenti per la giustizia sociale. Larga parte della conoscenza scientifica e delle informazioni raccolte attraverso la rete è utilizzata da un numero limitato di imprese, spesso in posizione di monopolio, che ne traggono alti rendimenti e che possono esercitare un'influenza forte e crescente sulle nostre preferenze di mercato e politiche. Nel campo della salute, per esempio, la tutela della proprietà intellettuale ha concorso al consolidamento di posizioni di monopolio che limitano la produzione di medicine indispensabili per molti popoli, mettono in crisi la sostenibilità finanziaria dei sistemi sanitari pubblici e scoraggiano progressi che non sono convenienti per le grandi corporation, come nel caso delle tecnologie per lo sviluppo e la produzione di nuovi vaccini contro l'influenza, sostanzialmente immodificate dagli anni '60.

Le decisioni sui processi di automazione, che sono spesso il risultato della ricerca pubblica e dell'apprendimento realizzato nell'interazione con il lavoro, vengono assunte senza che il lavoro stesso abbia una voce. E ancora, una massa crescente di decisioni concernenti il lavoro (assunzioni, carriera), il consumo (accesso al credito o altri servizi) e la stessa erogazione di servizi pubblici viene assunta sulla base di algoritmi di apprendimento automatico che seguono criteri non noti e utilizzano dati, anche personali, fuori dal nostro controllo. Gli stessi algoritmi consentono di segmentarci in microgruppi, inviandoci poi messaggi pubblicitari o politici mirati che ci sottraggono al confronto con chi la pensa diversamente da noi.

La bilancia degli effetti appare decisamente squilibrata a sfavore della giustizia sociale. La fortissima concentrazione della conoscenza, e quindi della ricchezza e del potere che ne è la conseguenza (e poi la fonte), non solo sta dietro le disuguaglianze economiche, sociali e di riconoscimento, ma concorre all'indebolimento della democrazia, nei suoi fondamenti di uguaglianza, pubblico confronto e sovranità popolare. È uno squilibrio che potrebbe aggravarsi per effetto della crisi Covid-19: se prevalesse l'uso della tecnologia per sorvegliare i cittadini, anziché per dare loro maggiori strumenti per contare; se l'intensificazione nell'uso della rete accrescesse la concentrazione delle attività nelle corporation digitali o rafforzasse la natura gerarchica dei rapporti di lavoro, anziché promuovere imprenditorialità diffusa e metodi innovativi di formazione e confronto; se di fronte a molte altre biforcazioni aperte dall'accelerazione della trasformazione digitale venisse presa la strada sbagliata.

Nel capitolo 2 abbiamo esaminato le scelte politiche che hanno concorso all'attuale squilibrio, a imboccare molte strade sbagliate. È arrivato ora il momento di esplicitare come correggere quelle scelte.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 168

4.2. L'alleanza con il sistema delle piccole e medie imprese


L'ingiustizia da combattere e le sue cause: una collaborazione insufficiente


Per le piccole e medie imprese innovare è tradizionalmente difficile perché non hanno la scala sufficiente per investire in R&S o le risorse finanziarie per acquistare le nuove tecnologie sul mercato. Come abbiamo illustrato, questi ostacoli sono fortemente cresciuti con il processo di concentrazione della conoscenza, legato al modo in cui la trasformazione digitale è avvenuta.

Negli anni '90 l'accelerazione del cambiamento tecnologico e il maggior peso dato alla tutela della proprietà intellettuale hanno messo in difficoltà il modello di sviluppo e di relazioni che aveva caratterizzato le PMI italiane negli anni '70 e '80. In quel periodo esse si erano sviluppate grazie alla combinazione di una molteplicità di fattori: una ricca tradizione artigiana; la capacità di costruire relazioni di fiducia tra imprese e all'interno delle imprese; l'organizzazione in rete; l'acquisizione delle nuove conoscenze incorporate nelle macchine attraverso il loro acquisto. A partire dagli anni '90 la conoscenza diventa un asset a sé, scorporata dalle macchine e fortemente concentrata: il suo acquisto è troppo costoso e le PMI non hanno le competenze per utilizzarla.

Restavano due strade. Dare vita, assieme e con l'intervento delle politiche pubbliche, a centri di competenza comuni, in grado di realizzare ricerca e acquisire brevetti, a beneficio di tutti i «consorziati». Ovvero, stabilire con i centri di competenza e di ricerca esistenti rapporti forti di collaborazione. La prima strada, scelta sin dagli anni '70 (con solo un 30% di finanziamento pubblico) dalla Germania - altro paese europeo caratterizzato dalla forte presenza di PMI -, non è stata percorsa. La seconda è stata percorsa in alcuni contesti, e anche con risultati significativi, ma senza un approccio di sistema che diventasse un metodo di riferimento per tutte le PMI.

Il risultato lo abbiamo descritto fotografando nel capitolo 2 le disuguaglianze del paese. Una grave polarizzazione del sistema italiano delle PMI fra una parte che tiene, anche per il rapporto con centri di competenza privati e pubblici, e una larga parte che ha visto mortificata la creatività imprenditoriale e che tiene sui mercati solo grazie a bassi salari e lavoro precario. Un deterioramento, questo, della condizione delle PMI che le rende estremamente fragili e che le espone in misura assai grave alla crisi Covid-19. Anche da qui viene l'urgenza di agire.


Obiettivi


L'obiettivo della proposta è quello di dare natura sistematica alla collaborazione fra le PMI e i centri di competenza e di ricerca pubblici e privati che producono conoscenza.

| << |  <  |  >  | >> |

Pagina 209

5. Un lavoro con più forza per contare


Negli ultimi quarant'anni il lavoro ha progressivamente perso potere: il potere di negoziare le condizioni della propria attività e il potere di pesare sulle scelte delle aziende. Questa, come scrive Anthony Atkinson , è una delle grandi cause dell'attuale ingiustizia sociale. Una crescita delle retribuzioni inferiore a quella della produttività, la polarizzazione fra buoni e cattivi lavori con un forte aumento di questi ultimi, una diffusione progressiva del lavoro precario e addirittura «a chiamata», una progressiva riduzione dei salari all'inizio della vita lavorativa, l'abbassamento per molte persone della retribuzione e delle condizioni di lavoro al di sotto dei livelli di dignità, la permanenza e il peggioramento delle condizioni di lavoro di una vasta fascia di lavoro irregolare, con forme di subordinazione arcaica del lavoro migrante: sono tutte manifestazioni di questa perdita di potere. Il fortissimo incremento delle retribuzioni dei manager e di altre professioni, soprattutto quelle che offrono servizi alle stesse imprese, conferma che solo la detenzione di una posizione individuale indispensabile al processo produttivo - o percepita o resa tale - consente di accedere in misura crescente alla distribuzione del reddito. A queste disuguaglianze economiche si aggiunge la fondata percezione in larghe parti del mondo del lavoro che i propri valori e il proprio contributo alla società non siano riconosciuti.

Sono fenomeni di squilibrio di potere fra il lavoro, da un lato, e chi controlla il capitale, dall'altro, venuti in evidenza in modo eclatante nella crisi economica e sociale che ha fatto seguito alla diffusione del Covid-19. Sono stati i moltissimi lavoratori precari (gli irregolari, i saltuari, i somministrati, i titolari di contratti atipici, ecc.), circa i/3 dell'intera forza lavoro privata del paese, a pagare immediatamente le conseguenze della crisi, essendo in larga misura privi di qualsiasi forma di tutela sociale e collettiva. Nel momento in cui chiudiamo queste pagine tarda a essere attuato il provvedimento del Reddito di cittadinanza di emergenza proposto proprio dal ForumDD assieme ad ASviS per assicurare loro una doverosa tutela.

Lo squilibrio fra il lavoro e chi controlla l'impresa è congenito al sistema capitalistico di produzione, in cui il potere ultimo del lavoro è quello di far mancare il proprio contributo (licenziarsi), mentre il potere ultimo di chi controlla l'impresa è anche di far mancare il contributo del capitale controllato (licenziare, delocalizzare, chiudere). Il meccanismo di determinazione dei salari attraverso la domanda e l'offerta non assicura dunque che il salario raggiunga un livello di dignità, specialmente per lavoratori e lavoratrici con modeste qualifiche, né che essi possano utilizzare in modo adeguato le proprie abilità. Per tutelare le condizioni di lavoro e l'autonomia decisionale sono da sempre a disposizione due strumenti, fra loro complementari, di riequilibrio dei poteri: la negoziazione svolta in forma organizzata e la partecipazione del lavoro alle decisioni strategiche dell'impresa. La negoziazione è stata storicamente una delle missioni dei sindacati. La partecipazione è una forma di riduzione dello squilibrio, che ha assunto forme assai diverse a seconda dei paesi: dalla partecipazione di lavoratrici e lavoratori agli organi di amministrazione o agli organi di sorveglianza (dove esistono) a strutture parallele di governo dell'impresa (Consigli) che interagiscono con tali organi, a forme di proprietà cooperativa in cui lavoratrici e lavoratori possono direttamente esercitare il controllo.

La globalizzazione, con lo straordinario aumento dell'offerta di lavoro competitivo, e la tecnologia dell'informazione, con l'opportunità di una nuova intensa fase di sostituzione di capitale a lavoro, di disintermediazione di molte attività di servizio e di promozione di nuovo lavoro individuale attraverso piattaforme digitali, hanno frammentato le filiere del lavoro e reso più difficile la sua organizzazione. Ma come abbiamo argomentato, questi fenomeni, anziché essere presidiati al fine di costruire strumenti di riequilibrio a favore del lavoro, sono stati sistematicamente accentuati nei loro effetti dall'inversione delle politiche pubbliche e dal cambiamento del senso comune.

Tutte le politiche pubbliche sono andate in questa direzione, dalla liberalizzazione dei movimenti di capitale senza più attenzione agli impatti sociali, alla rinunzia all'obiettivo della piena occupazione, ma soprattutto hanno pesato misure di regolamentazione del mercato del lavoro che hanno trasformato l'aspirazione alla flessibilità nell'offerta del proprio lavoro in una sistematica e generalizzata diffusione del lavoro precario. Ha pesato molto anche il progressivo cambiamento del senso comune. Il convincimento che le nuove molteplici forme di lavoro occasionale fossero autonome, quando invece esse dipendono dall'accesso a un capitale (spesso fatto di dati di proprietà del «committente»), o addirittura che la separazione «di classe» fra lavoro e controllo del capitale sia superata. Il riconoscimento di merito a chi dispone di un patrimonio, non a chi quel patrimonio ha accumulato accrescendo benessere e giustizia sociale. L'affermarsi del «valore azionario o patrimoniale» dell'impresa come unico metro di giudizio del successo imprenditoriale. Questi fattori hanno spinto a relegare in posizione marginale il concetto di responsabilità sociale d'impresa impedendo che essa fosse elevata a un modello di governance in cui le responsabilità dell'imprenditore-manager verso gli azionisti vengono estese ad altri stakeholders, in primo luogo lavoratrici e lavoratori, ma anche consumatori e consumatrici, e tutte le persone su cui ricadono gli impatti ambientali.

Pure in questo scenario, che ha investito in misura diversa i paesi dell'Occidente, hanno continuato a operare, e in alcuni casi si sono espanse, forme di partecipazione dei lavoratori alle decisioni aziendali. In alcuni casi la partecipazione riguarda l'organizzazione della produzione ed è stata incoraggiata, e talora richiesta, dalle nuove tecnologie. In altri casi si tratta di una partecipazione strategica a scelte aziendali. La forma più significativa resta, in Italia, quella dell'impresa cooperativa, sia nella sua forma tradizionale, sia nelle forme emergenti di impresa sociale o di comunità. Nonostante le criticità che ne hanno caratterizzato la storia anche recente, queste forme hanno la potenzialità di garantire il diretto coinvolgimento di una pluralità di portatori di interesse nella proprietà e nel controllo dell'impresa.

Su entrambi i piani ora richiamati, potere di negoziazione e potere di partecipazione del lavoro, è necessaria dunque una svolta, che, ove possibile, parta dalle esperienze migliori esistenti. Non è certo con singoli interventi che si ridà al lavoro più forza per contare. E infatti a questo risultato concorrono pressoché tutte le nostre proposte, da prospettive diverse. Ma sono anche necessari interventi diretti al mondo del lavoro.

Noi avanziamo tre proposte, che prendono a riferimento due blocchi di principi sanciti dalla Costituzione. In primo luogo il «diritto al lavoro» (art. 4) e a una retribuzione che consenta «un'esistenza libera e dignitosa» (art. 36), e, ancora, alla donna lavoratrice, «a parità di lavoro, le stesse retribuzioni che spettano al lavoratore» (art. 37). In secondo luogo, la rimozione degli ostacoli che impediscono «l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione [...] economica» (art. 3).

Un lavoro dignitoso, nella retribuzione, nelle condizioni in cui è svolto, nell'autonomia di decisione e nell'assenza di discriminazioni, è per ogni persona un risultato di vita in sé, una realizzazione e, assieme, la condizione per raggiungere altri risultati. La partecipazione di lavoratrici e lavoratori alle decisioni strategiche dell'impresa è, nel medio-lungo periodo, la condizione di quel lavoro dignitoso e di un impiego della tecnologia e di un disegno dell'organizzazione del lavoro che considerino la giustizia sociale un valore: associata alla partecipazione degli altri stakeholders, in primo luogo le comunità che risentono delle ricadute ambientali della produzione, è una strada maestra per attuare davvero la «responsabilità sociale d'impresa» e dare concretezza all'aspirazione di democratizzare l'economia. Raccogliamo dunque queste proposte sotto le parole chiave, rispettivamente, di «dignità» e «partecipazione».

| << |  <  |