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| << | < | > | >> |Indice1 Scrittura o calligrafia? 11 2 Scrivi come un bambino! 23 3 Perché scrivo? 39 4 L'atto della scrittura 65 5 La scrittura è viva! 79 6 Calligrafia e design 101 7 I materiali: storia d'amore e di alchimia 119 8 Cambiare punti di vista 143 9 Lasciare il segno 167 10 La calligrafia oggi 181 Ringraziamenti 197 Bibliografia 201 Indice delle illustrazioni 205 |
| << | < | > | >> |Pagina 11Molti non ci fanno neanche più caso. Solitamente viene sistemato vicino alla porta, all'uscita di un museo o di una chiesa, è sospeso su un leggio, con le pagine aperte e la penna legata a un filo che penzola tra i fogli. A volte, quando non sono costretto a correre da qualche parte, mi fermo a dare un'occhiata a quei libroni rilegati, ai guestbook. È un esercizio divertente, che da un lato misura il polso all'abitudine della scrittura a mano contemporanea, dall'altro porta con sé decine di interrogativi su chi ha scritto quel messaggio e perché. La maggior parte tende a scrivere solo il nome, il cognome e l'indirizzo e-mail, al massimo la data. Compie quel gesto rapidamente, in modo spontaneo, senza soffermarsi troppo.
Ci sono maiuscole aggrovigliate, fatte senza staccare
la penna, altre con gli occhielli piccoli piccoli e le aste lunghissime; parole
con una serie di cerchi consequenziali, che
assomigliano a delle molle; altre sembrano delle rilevazioni sismiche; scritture
indecifrabili e criptiche, scritture che
sembrano quelle di un bambino, oppure lettere minuscole
piccolissime e molto distanziate, del tutto simili ai caratteri
di una macchina da scrivere. C'è chi cerca di essere preciso, di
apparire diligente, chi lo fa quasi correndo, svogliato, come
spinto da un inspiegabile senso del dovere. Capisci chi è abituato a farlo, a
scrivere a mano (sempre meno) e chi invece ha ormai perso l'abitudine.
Anni fa, mentre perdevo tempo nella hall di un albergo, presi a sfogliare il guestbook: non aveva molti fogli compilati e le date che apparivano nelle prime pagine erano solo di qualche mese prima, segno che lo avevano cambiato da poco. Tra le varie scritte una attirò la mia attenzione. Era stata fatta con un tratto forte, che quasi incideva il foglio, piena di spigoli. Erano tre righe firmate e datate. Da quello che riuscivo a capire seguendo i tratti a dir poco nervosi di quella grafia, era un messaggio per qualcuno. Non riuscii a interpretare tutto, ma mi feci l'idea che contenesse la speranza di essere letto dal referente. Nonostante ciò, risultava essere quasi completamente illeggibile, o quantomeno "particolare", e non parlo di problemi di disgrafia o dei "disturbi della scrittura", ma del l'incapacità di mettere in fila delle lettere decifrabili e quindi utili al loro scopo. Possiamo parlare per ore di quale sia la e minuscola perfetta, ma se la confondo con una a, nell'economia di un indirizzo e-mail, il risultato sarà quello di non poterti raggiungere con la mia missiva elettronica. E se questo si ripete molto spesso, significa che scrivere è una capacità che stiamo progressivamente perdendo. Una pessima calligrafia, penserete voi, facendo il verso alla vostra maestra e riportando la memoria molti anni indietro. In realtà non è proprio così e anzi, per cominciare questo libro, dobbiamo subito confutare un modo di dire. Una delle prime distinzioni da fare è quella tra la scrittura quotidiana, e la "bella scrittura", tra la grafia e la calligrafia. La prima è la capacità di trasporre dei segni in sequenza con uno strumento qualsiasi, una penna, una matita o un pennarello, sulla carta, in modo che siano comprensibili e quindi leggibili. Lo scopo della scrittura è comunicare un messaggio. Possiamo scrivere una lunga lettera, un breve testo, un appunto o un numero di telefono, non importa, il fine principale è che il destinatario riesca a comprendere quello che abbiamo scritto. Per scrivere utilizziamo le informazioni a cui abbiamo accesso già in età prescolastica: impariamo a riconoscere lettere e parole, a ripeterne il suono, a riscriverle in maniera che gli altri possano leggerle. Calligrafia invece è una parola di origine greca, che significa "bella scrittura" ( kàllos "bellezza" e gràphein "scrivere"). Quando parliamo di calligrafia ci riferiamo a quella disciplina che si occupa dell'estetica della scrittura: sarebbe quindi ridondante dire di avere una "bella calligrafia". Tecnicamente è scorretto, ma è un modo di dire talmente utilizzato che nel tempo ha sostituito la parola grafia: parliamo quindi spesso di calligrafia come sinonimo di scrittura e, nonostante l'etimo non dia ragione a questa pratica, dobbiamo altrettanto riconoscere come la nostra lingua sia da sempre in balia di un costante cambiamento messo in atto da chi utilizza la lingua stessa, quindi noi tutti. | << | < | > | >> |Pagina 39L'ho trovato in una libreria nel centro di Firenze mentre cercavo una frase da scrivere per una performance che avrei dovuto fare l'indomani in una galleria, su una grande parete. La costa del libro sporgeva in fuori rispetto a tutte le altre, perfettamente allineate sullo scaffale. L'autore era George Orwell, il titolo che campeggiava in testa alla copertina era Why I write?. Era una di quelle edizioni economiche della Penguin disegnate da David Pearson, che riproduceva sul piatto, in rilievo, una frase emblematica del senso del libro, una frase sul linguaggio politico e sul suo utilizzo scorretto per «far sembrare le bugie verità e l'omicidio rispettabile». Fu una folgorazione. Era il classico caso in cui è il libro che aveva trovato me. Scrissi quella frase in grande, con lettere gotiche, usando un pennello piatto e della tempera nera. Cominciai con un pennello largo dieci volte la grandezza di quello usato per il testo, con cui scrissi un'enorme P gotica, la cui discendente aveva la tipica forma appuntita, come una lama di un fendente. La domanda del titolo era così semplice, eppure così fondamentale: Perché scrivo? Facevo calligrafia già da diversi anni, e mi ero semplicemente raccontato che era la cosa che più mi veniva naturale, che lo avevo sempre fatto e che, oltretutto, sembrava venirmi anche bene. Non sapevo però che in seguito mi sarei ritrovato parecchie volte a indagare sul vero motivo che spingeva a scrivere non solo me, ma l'umanità intera, e che la spinta che mi motivava a tracciare lettere di continuo sarebbe cambiata e addirittura cresciuta con me. Ma torniamo alla domanda iniziale: Perché scrivo? Sappiamo che fin dai primi insediamenti in gruppi di persone, l'essere umano ha sentito la necessità di lasciare il proprio segno. Con la comparsa della socialità, che seguiva le ancora più primarie necessità di trovare riparo e nutrimento, gli esseri umani hanno cominciato a sentire anche il bisogno di esprimersi, tracciando segni sulle pareti delle caverne - a volte incidendole o dipingendole - di cui vengono preservati dei meravigliosi esempi, come nelle grotte di Lascaux o sulle rocce della Valcamonica. Non si parla ancora di scrittura, per la quale dovremo aspettare l'avvento dei Sumeri, autori dei primi esempi di scrittura cuneiforme. Erano piuttosto tentativi di descrivere attraverso dei simboli scene di caccia e di vita quotidiana, incidendo le pareti con chiodi o scalpelli rudimentali. Sulle mura interne di Pompei, o del Colosseo, le tracce si fanno ancora più complesse: compaiono il sarcasmo, le lodi, i calcoli, disegni caricaturali e oscenità, i luoghi di provenienza degli schiavi, testimonianze di episodi dell'epoca. Contenuti molto simili ai graffiti del nostro tempo. | << | < | > | >> |Pagina 167Esiste una forma di scrittura che non può certamente passare inosservata, soprattutto per chi abita in città. È quella dei muri che parlano, e sui quali tra la moltitudine di scritte delle pubblicità che dicono cosa comprare e quale sia la migliore marca di dentifricio per noi, ci sono firme spesso complicate e indecifrabili, ma altre volte leggibilissime, i cui nomi dicono poco alla gente che ci passa davanti. Sono fatte con lo spray, con un tappo che fa un tratto sottile e sporco o con quello che ne fa uno enorme e vaporizzato, come fosse esplosa una bombola piena di argento. Oppure sono scritte piccole e inclinate perché fatte in un angolo scomodo su una centralina dell'elettricità, sulla pensilina di un autobus, su una panchina o un cartello stradale. Qualcuno le nota, a qualcuno fanno arrabbiare, ad altri piacciono e addirittura si fermano per leggerle, ma quello che è certo è che dove esistono degli individui esiste anche la necessità di lasciare il segno, e la firma rimane il modo più immediato e istintivo per farlo, da sempre. Una volta un mio professore di tipografia dedicò una lezione intera alle scritte sui muri che aveva fotografato. Di primo acchito mi stupii di quello che stavo vedendo; ero quasi eccitato perché mi sembrava che, in qualche modo, il fatto che un signore così esperto in materia parlasse anche di firme fatte per strada significasse legittimarle. Mi accorsi che, nonostante le reputasse un atto vandalico (cosa con cui mi trovavo del tutto in disaccordo), riusciva in qualche modo a vedere al di là di questo: lo sentivo descrivere il tratto enorme e circolare dato da un fat cap e decantare in modo totalmente inedito le colature di una tag fatta con uno squeezer. Ci vedeva cose che i writer non avevano neanche immaginato; era meraviglioso ascoltare qualcuno che non fosse un writer passare in rassegna gli strumenti più disparati: marker larghi con la punta spappolata, spray che scrivono finissimo o larghissimo e con tappi costruiti artigianalmente, dal tratto tondo o a scalpello, rulli da imbianchino ed estintori di inchiostro che, se caricati, danno vita a scritte enormi, ma anche acidi per scrivere sui vetri, o graffi che li segnano per far sì che le firme non possano essere cancellate in nessun modo. Prima di essere un calligrafo sono stato un writer, e ho sempre pensato che questo bisogno non fosse molto diverso da quello di chi scrive sui muri un messaggio, che si tratti di esprimere amore per una persona o per la propria squadra, o di frasi più articolate o scritture codificate come il linguaggio del Graffti Writing. | << | < | |