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| << | < | > | >> |Pagina 9 [ inizio libro ]Allora, signor Klauser, deve morire Mami Jane?- Che vadano tutti a cagare. - E' un si o un no? - Lei che ne dice? Nell'ottobre del 1987, la CRB - casa editrice da ventidue anni delle avventure del mitico Ballon Mac - decise di indire un referendum tra i suoi lettori per stabilire se fosse il caso di far morire Mami Jane. Ballon Mac era un supereroe cieco che di giorno faceva il dentista e di notte combatteva il Male grazie ai poteri molto particolari della sua saliva. Mami Jane era sua madre. I lettori le erano, in genere, molto affezionati: collezionava vecchi scalpi indiani e la sera si esibiva, come bassista, in un complesso blues interamente composto da neri. Lei era bianca. L'idea di farla schiattare era venuta al direttore commerciale della CRB - un signore molto tranquillo che aveva una sola passione: i trenini elettrici. Sosteneva che ormai Ballon Mac era su un binario morto e aveva bisogno di nuove motivazioni. La morte della madre - investita da un treno mentre fuggiva inseguita da uno scambista paranoide - lo avrebbe trasformato in una miscela letale di rabbia e dolore, cioè nel ritratto sputato del suo lettore medio. | << | < | > | >> |Pagina 94Il senso di tutto ciò emergeva abbastanza chiaro - e comunque in forma indubitabilmente curiosa - dalle sue lezioni, e in alcune di esse in particolare, e con inusuale nitore in una, quella nota come lezione n. 11, dedicata, per la precisione, alle Nymphéas di Claude Monet. Com'è noto, le Nymphéas non sono propriamente un quadro, bensì un insieme di otto grandi decorazioni murali che, se accostate, darebbero l'impressionante risultato finale di una composizione lunga novanta metri e alta due. Monet vi lavorò per un numero imprecisato di anni, decidendo, nel 1918, di regalarle al suo Paese, la Francia, in omaggio alla vittoria nella prima guerra mondiale. Continuò a lavorarci fino alla fine dei suoi giorni, e morì, il 5 dicembre 1926, prima di poterle vedere esposte al pubblico. Curioso tour de force, esse ottennero dalla critica giudizi contraddittori, venendo di volta in volta descritte come capolavori profetici o decorazioni buone tutt'al più per ingentilire le pareti di una brasserie. Il pubblico continua ancor oggi a tributare loro un'incondizionata e rapita ammirazione.Come amava sottolineare lo stesso prof. Mondrian Kjlroy, le Nymphéas presentano un tratto clamorosamente paradossale - sconcertante, lui amava dire - e cioè la deprecabile scelta del soggetto: per novanta metri di lunghezza e due di altezza, esse non fanno che immortalare uno stagno di ninfee. Qualche albero, di sfuggita, un po' di cielo, forse, ma sostanzialmente: acqua e ninfee. Sarebbe difficile trovare soggetto più insignificante, e in definitiva kitsch, né è facile comprendere come a una simile baggianata un genio possa pensare di dedicare anni di lavoro e decine di metri quadrati di colore. Un pomeriggio e il dorso di una teiera sarebbero stati più che sufficienti. E tuttavia, proprio in questa assurda mossa inizia la genialità delle Nymphéas. E' così evidente - diceva il prof. Mondrian Kilroy - quel che Monet voleva fare: dipingere il niente. Dovette essere per lui una tale ossessione, dipingere il niente, che, riletti a posteriori, tutti i suoi ultimi trent'anni di vita ne sembrato posseduti - come interamente assorbiti. E precisamente da quando, nel novembre del 1893, acquistò un ampio terreno adiacente alla sua proprietà di Giverny, e concepì l'idea di costruirvi un grande bacino per fiori acquatici - in altri termini, uno stagno pieno di ninfee. Progetto che potrebbe essere riduttivamente, interpretato come il senile imporsi di un hobby estetizzante e che invece il prof. Mondrian Kilroy non esitava a definire come la consapevole, strategica prima mossa di un uomo che sapeva benissimo dove voleva arrivare. Per dipingere il niente, prima doveva trovarlo. Monet fece qualcosa di più: lo produsse. Non dovette sfuggirgli che la soluzione del problema non era ottenere il nulla saltando il reale (qualsiasi pittura astratta è in grado di fare una cosa del genere), ma piuttosto ottenere il nulla attraverso un processo di progressivo decadimento e dispersione del reale. Capì che il nulla che cercava era il tutto, sorpreso in un istante di momentanea assenza. Lo immaginava come una zona franca tra ciò che era e ciò che non era più. Non gli sfuggi che sarebbe stata una faccenda piuttosto lunga. Mi scuso, la prostata chiama -, era solito dire il prof. Mondrian Kilroy giunto a questo punto della sua lezione n. 11. Guadagnava il bagno e ne tornava pochi minuti dopo, visibilmente sollevato. Riferiscono le cronache che Monet, in quei trent'anni, passò molto più tempo a lavorare nel suo parco che a dipingere: ingenuamente, scindono in due un gesto che in realtà era unico, e che lui compì con ossessiva determinazione ogni istante dei suoi ultimi trent'anni: fare le Nymphéas. Coltivarle o dipingerle erano solo nomi diversi per una stessa avventura. Possiamo immaginare che ciò che aveva in mente fosse: aspettare. Aveva avuto l'astuzia di scegliere, come punto di partenza, una frangia del mondo in cui il reale si dava con un elevato grado di evanescenza e monotonia, prossimo a un insignificante mutismo. Uno stagno di ninfee. Da lì, il problema era portare quella porzione di mondo a scaricare qualsiasi residua scoria di significato, arrivando a dissanguarla e svuotarla e dissiparla fino al punto da farle sfiorare la più completa scomparsa. Il suo deprecabile esserci sarebbe allora divenuto poco più che la presenza simultanea di assenze diverse, e svaporate. Per ottenere un simile, ambizioso, risultato, Monet si affidò a un trucco piuttosto banale, ma collaudato - un marchingegno la cui devastante efficacia è testimoniata da qualsiasi vita matrimoniale. Nulla può diventare così insignificante come qualsiasi cosa se ti ci svegli di fianco tutte le mattine della tua vita. Quello che fece Monet fu portarsi, in casa, la porzione di mondo che intendeva ridurre a nulla. Creò uno stagno di ninfee nel preciso punto in cui gli sarebbe stato impossibile evitare di vederlo. Solo un coglione - argomentava il prof. Mondrian Kilroy nella sua lezione n. 11 - potrebbe credere che imporsi una simile, quotidiana intimità con quello stagno fosse un modo per conoscerlo e capirlo e rubargli il suo segreto. Era un modo di smantellarlo. Si può dire che a ogni sguardo posato su quello stagno Monet si avvicinasse di un passo all'indifferenza assoluta, bruciando ogni volta residui di stupore e rimasugli di meraviglia. Si può perfino ipotizzare che quel suo inesausto lavorare sul parco - testimoniato dalle cronache - ritoccando qui e là, mettendo e togliendo fiori, tracciando e ritracciando bordi e linee, altro non sia stato che un accurato intervento chirurgico su tutto ciò che resisteva al logorio dell'abitudine e si intestardiva a increspare la superficie dell'attenzione, incrinando il quadro di assoluta insignificanza che si andava formando negli occhi del pittore. Cercava la rotondità del nulla, Monet, e dove l'abitudine si dimostrava impotente non esitava ad intervenire con la ruspa. | << | < | > | >> |Pagina 152Il prof. Bandini pensò che il mondo era pieno di pazzi. Poi continuò da dove aveva interrotto.Di solito - disse - il porch, o "veranda", è collocato sulla parete frontale della casa. E' costituito da una tettoia di profondità variabile - ma di rado superiore ai quattro metri - che poggia su una serie di montanti e copre un assito la cui sopraelevazione rispetto al suolo oscilla generalmente tra i venti centimetri e il metro e mezzo. Una ringhiera e i necessari gradini di accesso ne completano il profilo. Da un punto vista puramente architettonico, il porch rappresenta uno sviluppo abbastanza elementare dell'idea classica di facciata, espressione di una povertà abbiente, e di un lusso rudimentale, primitivo. Da un punto di vista psicologico, se non morale, si tratta invece di un fenomeno che mi fa sbiellare e che risulta, a un'attenta analisi, commovente, ma anche ripugnante e, in definitiva, epifanico. Da epipháneia, greco: rivelazione. Shatzy approvò con un leggero cenno del capo. Nel West, in effetti, quasi tutti avevano una veranda davanti a casa. L'anomalia del porch - continuò il prof. Bandini - è evidentemente quella di essere, al contempo, un luogo dentro e un luogo fuori. In certo modo, esso rappresenta una soglia prolungata, in cui la casa non è più, e tuttavia ancora non si è estinta nella minaccia del fuori. E' una zona franca in cui l'idea di luogo protetto, che ogni casa sta lì a testimoniare e realizzare, si sporge oltre la propria definizione, e si ripropone, quasi indifesa, come per una postuma resistenza alle pretese dell'aperto. In questo senso esso sembrerebbe luogo debole per eccellenza, mondo in bilico, idea in esilio. E non è escluso che proprio questa sua identità debole concorra al suo fascino, essendo incline, l'uomo, ad amare i luoghi che sembrano incarnare la propria precarietà, il proprio essere creatura allo scoperto, e di confine. In privato, il prof. Bandini riassumeva questo suo ragionamento con un'espressione che riteneva imprudente usare in pubblico, ma che considerava felicemente sintetica. "Gli uomini hanno case: ma sono verande." Una volta aveva provato ad enunciarlo alla moglie, e la moglie aveva riso fino a starne male. La cosa l'aveva piuttosto colpito. In seguito la moglie l'aveva lasciato per andare a vivere con una traduttrice di ventidue anni più vecchia di lei. E' curioso, tuttavia - proseguì il prof. Bandini -, come questo statuto di "luogo debole" si dissolva non appena il porch cessa di essere inanimato oggetto architettonico e viene abitato dagli uomini. Su una veranda, l'uomo medio dimora spalle alla casa, seduto, e per lo più seduto su una sedia provvista di apposito meccanismo atto a farla dondolare. Talvolta, componendo il quadro nella sua più accecante esattezza, l'uomo tiene in grembo un fucile carico. Sempre, guarda davanti a sé. Se ora voi ritornate a quell'immagine di precarietà che era il porch inteso come semplice oggetto architettonico, e la arricchite della presenza di quell'uomo - spalle alla casa, basculante sulla sua sedia a dondolo, con un fucile carico in grembo - quell'immagine virerà sensibilmente verso un senso di forza, sicurezza, determinazione. Si potrebbe dire addirittura che quel porch cessa di essere un'eco fragile della casa a cui si appoggia, e diventa validazione finale di ciò che la casa appena accenna: sanzione definitiva del luogo protetto, soluzione del teorema che la casa si limitava ad enunciare. A Shatzy piacque particolarmente il dettaglio del fucile carico. In definitiva - proseguì il prof. Bandini - quell'uomo e quel porch, insieme, costituiscono un'icona laica, eppure sacra, in cui si celebra il diritto dell'umano al possesso di un luogo suo proprio, sottratto all'indistinto essere del semplicemente esistente. Di più: quell'icona celebra la pretesa dell'umano a essere in grado di difendere quel luogo, con le armi di una metodica viltà (il basculare della sedia a dondolo) o di un attrezzato coraggio (il fucile carico). Tutta la condizione umana è riassunta in quell'immagine. Giacché esattamente questa appare la dislocazione destinale dell'uomo: essere di fronte al mondo, con alle spalle se stesso. Era una cosa a cui il prof. Bandini credeva, al di là di qualsiasi necessità accademica - lui, semplicemente, credeva che le cose stessero esattamente cosi, lo credeva anche quando era in bagno. Lui pensava, davvero, che gli uomini stanno sulla veranda della propria vita (esuli quindi da se stessi) e che questo è l'unico modo possibile, per loro, di difendere la propria vita dal mondo, giacché se solo si azzardassero a rientrare in casa (e ad essere se stessi, dunque) immediatamente quella casa regredirebbe a fragile rifugio nel mare del nulla, destinata ad essere spazzata via dall'ondata dell'Aperto, e il rifugio si tramuterebbe in trappola mortale, ragione per cui la gente si affretta a riuscire sulla veranda (e dunque da se stessa), riprendendo posizione là dove solo le è dato di arrestare l'invasione del mondo, salvando quanto meno l'idea di una propria casa, pur nella rassegnazione di sapere, quella casa, inabitabile. Abbiamo case, ma siamo verande, pensava. | << | < | > | >> |Pagina 186Sarebbe tutto più semplice se non ti avessero inculcato questa storia del finire da qualche parte, se solo ti avessero insegnato, piuttosto, a essere felice rimanendo immobile. Tutte quelle storie sulla tua strada. Trovare la tua strada. Andare per la tua strada. Magari invece siamo fatti per vivere in una piazza, o in un giardino pubblico, fermi li, a far passare la vita, magari siamo un crocicchio, il mondo ha bisogno che stiamo fermi, sarebbe un disastro se solo ce ne andassimo, a un certo punto, per la nostra strada, quale strada?, sono gli altri le strade, io sono una piazza, non porto in nessun posto, io sono un posto. Magari mi iscrivo in palestra, pensò. Ce n'era una lì vicino, che era aperta anche di sera. Perché mi piace fare tutto di sera? Si guardò le scarpe, e i piedi nudi nelle scarpe, e le gambe nude sopra i piedi, fino al bordo della gonna, corta. Le calze, autoreggenti di seta, le aveva appallottolate nella borsa. Non riusciva mai a rimettersele, quando si alzava dal letto per rivestirsi e andarsene. Era come ricaricare le pistole dopo un duello. Stupido. Cosa ne dici vecchio Bird? Anche tu le rimettevi nella fondina scariche, le tue pistole, dopo aver sparato? Le appallottolavi e le cacciavi nella borsa? Vecchio Bird. Ti farò morire in un modo bellissimo.| << | < | > | >> |Pagina 206Gould lavava le ruote. più di ogni altra cosa gli piaceva lavare le ruote. Gomma nera lucida insaponata. Un godere.
Ci ho pensato, ci ho pensato a lungo, Gould, e con tutta
la durezza di cui sono stato capace, ma alla fine ho capito
che per quanto osceno sia il modo con cui gli uomini
abbandonano la verità dedicandosi alla maniacale cura di
idee artificiali con cui sbranarsi a vicenda, per quanto mi
faccia schifo ormai qualsiasi cosa che puzza di idee, e per
quanto io non riesca obbiettivamente a non vomitare di
fronte alla quotidiana esibizione di questa lotta primitiva
travestita da onesta ricerca della verità - per quanto
sconfinato sia il mio disgusto io devo dire: è giusto
così, è schifosamente giusto così, è semplicemente
umano,
è quello che deve essere, è la merda che ci spetta, l'unica
merda di cui siamo all'altezza. L'ho capito guardando i
migliori. Da vicino, Gould, bisogna avere il coraggio di
guardarli da vicino. Li ho visti: erano disgustosi e
giusti, lo capisci cosa voglio dire?, disgustosi ma
inesorabilmente innocenti, volevano solo
esistere,
puoi togliergli questo diritto?, volevano
esistere.
Prendi quelli degli alti ideali, quelli con le idee nobili,
quelli che delle loro idee hanno fatto una missione, quelli
al di sopra di ogni sospetto. Il prete. Prendi il prete.
Non quello qualunque. L'altro, quello che sta dalla parte
dei poveri, o dei deboli, o degli esclusi, quello con
il maglione e le Reebok, quello lì, avrà iniziato con una
qualche accecante apparizione caotica di infinito, qualcosa
che nella penombra della sua giovinezza gli avrà dettato
vagamente l'imperativo di prendere posizione, e il
suggerimento della parte in cui stare, tutto sarà iniziato
come deve iniziare, in un modo onesto, ma poi, santo Iddio,
quando te lo ritrovi adulto e famoso, cristo, famoso, fa
senso già a dirlo,
famoso,
con il nome sui giornali e le foto, con il telefono che
squilla in continuazione perché i giornalisti gli devono
chiedere la sua, su questo e quello, e lui risponde, porca
troia,
risponde,
e partecipa, e sfila in testa ai cortei, il telefono dei
preti non squilla, Gould, voglio dirtelo con tutta la
crudeltà necessaria, tu non lo puoi sapere ma il telefono
dei preti non squilla perché la loro vita è un deserto, è
programmaticamente un deserto, una specie di parco naturale
protetto, dove la gente può guardare ma da lontano, loro
sono animali da parco naturale, nessuno li può toccare, puoi
immaginare questo, Gould?, per i preti è un problema anche
solo farsi toccare, l'hai mai visto un prete che bacia un
ragazzino o una signora, solo per salutarli, mica per altro,
una cosa da nulla, normale, ma lui non lo può fare, la gente
intorno immediatamente avrebbe come un senso di disagio e di
imminente violenza, e questa è la quotidiana durissima
condizione del prete in questo mondo, lui che pure sarebbe
un uomo come gli altri, e invece si è scelto quella
solitudine vertiginosa, che non avrebbe via d'uscita, nulla,
se non fosse che un'idea, un'idea perfino giusta, cade da
fuori a mutare quel panorama, a restituirgli un tepore di
umanità, un'idea che, usata per bene, raffinata,
revisionata, tenuta al riparo da rischiosi confronti con la
verità, conduce il prete fuori dalla sua solitudine,
semplicemente, e poco a poco fa di lui quell'uomo che è
adesso, circondato di ammirazione, e voglia di avvicinarsi,
e perfino desiderio allo stato puro, un uomo con il maglione
e le Reebok, mai solo, si muove imbacuccato di figli e
fratelli, mai disperso perché costantemente collegato a
qualche terminale dei media, ogni tanto tra la folla
acchiappa al volo gli occhi di una donna carichi di
desiderio, pensa cosa può significare questo per lui, quella
vertiginosa solitudine e questa vita esplosa, c'è da
stupirsi se è disposto a
morire
per la sua idea?, lui
esiste
in quell'idea, cosa significa
morire per quell'idea?,
lui sarebbe comunque
morto
se gliela togliessero, lui si
salva
in quell'idea, e il fatto che in essa salvi centinaia e
magari migliaia di suoi simili non cambia di una virgola la
faccenda, e cioè che lui salva innanzitutto se stesso, con
l'alibi accessorio di salvare gli altri, rapinando al suo
destino quella necessaria dose di riconoscimento e
ammirazione e desiderio che lo rende vivo, vivo, Gould,
capisci bene questa parola, vivo, vogliono solo essere vivi,
anche i migliori, quelli che costruiscono giustizia,
progresso, libertà, futuro, anche per loro è tutta una
faccenda di sopravvivenza, vagli più vicino che puoi, se non
ci credi, guarda come si muovono, chi hanno intorno,
guardali e prova a immaginare cosa sarebbe di loro se per
caso un giorno si svegliassero e cambiassero idea,
semplicemente, cosa rimarrebbe di loro, prova a estorcergli
una risposta una che non sia una istintiva
autolegittimazione, vedi se riesci anche una sola volta a
sentirli pronunciare la loro idea con lo stupore e
l'esitazione di uno che la scopre in quel momento e non con
la sicurezza di uno che ti sta mostrando orgoglioso la
devastante efficacia dell'arma che impugna, non farti
fregare dall'apparente mitezza del tono, dalle parole che
scelgono, astutamente miti, stanno lottando, Gould, lottano
con i denti per la sopravvivenza, per il cibo, la femmina,
la tana, sono animali, e sono i migliori, capisci?, cosa
puoi aspettarti di diverso dagli altri, dai piccoli
mercenari dell'intelligenza, dalle comparse della grande
lotta collettiva, dai piccoli guerrieri vili che
sgraffignano detriti di vita ai margini del grande campo di
battaglia, commoventi spazzini di salvezze irrisorie, ognuno
con la sua ideina artificiale, il primario a caccia di
finanziamenti per pagare il college del figlio, il vecchio
critico a lenire l'abbandono della sua vecchiaia con
quaranta righe a settimana scagliate dove facciano un po'
rumore, lo scienziato e il suo purè di Vancouver con cui
cibare di orgoglio moglie figli amanti, le penose comparsate
in televisione dello scrittore che ha paura di scomparire
tra un libro e l'altro, il giornalista che pugnala a
casaccio in prima pagina per essere sicuro di esistere
almeno per 24 ore ancora, stanno solo lottando, lo capisci?,
lo fanno con le idee perché non sanno usare altro, ma
la sostanza non cambia, è lotta, e sono armi le loro idee, e
per quanto faccia schifo ammetterlo, è nel loro diritto, la
loro disonestà è una logica deduzione da un bisogno
primario, e dunque necessario, il loro schifoso quotidiano
tradimento della verità è la naturale conseguenza di uno
stato naturale di indigenza che va accettato, non si chiede
a un cieco di andare al cinema, non si può chiedere a un
intellettuale di essere onesto, non credo, veramente, che
glielo si possa chiedere, per quanto sia deprimente
ammetterlo, ma il concetto stesso di onestà intellettuale è
un ossimoro
- Qualcosa che non va, professore? - Mi stavo chiedendo... - Dica professore. - Di preciso, cosa sto lavando? - Una roulotte. | << | < | > | >> |Pagina 259Rivede Pat Cobhan che scende da cavallo, dopo giorni di viaggio, raccoglie una manciata di polvere, la lascia scivolare piano tra le dita e pensa: niente vento, qui. E lì finalmente si concede la morte.Non c'era vento dove lo sceriffo Wister si arrese a Bear. Deserto, sole. Niente vento. Wittacher pensa. Sono sei giorni che è in quel paese, e il vento non ha smesso di tirare un attimo, come una furia. Polvere dappertutto. - Perché? -, chiede Phil Wittacher. - Il vento è la maledizione -, dice Melissa Dolphin. - Il vento è una ferita del tempo -, dice Julie Dolphin. - quello che pensano gli indiani, lo sapevate? Loro dicono che quando si alza il vento significa che si è strappato il grande manto del tempo. Allora tutti gli uomini perdono la propria pista, e finché tira il vento non la ritroveranno mai. Restano senza destino, sperduti in una tempesta di polvere. Gli indiani dicono che solo alcuni uomini conoscono l'arte di strappare il tempo. Li temono, e li chiamano "assassini del tempo". Uno di loro ha strappato il tempo di Closingtown: è successo trentaquattro anni, due mesi e sedici giorni fa. Quel giorno, mister Wittacher, ognuno di noi ha smarrito il suo destino in un vento improvvisamente alzatosi, nel cielo della città, e mai più finito. Bisognava sentirla, Shatzy, quando spiegava quella faccenda. Diceva che bisognava immaginarsi Closingtown come un uomo sporto fuori dal finestrino di una diligenza, con tutto il vento in faccia. La diligenza era il Mondo, che faceva il suo bel viaggio nel Tempo: andava avanti macinando giorni e chilometri, e se tu ci rimanevi dentro, bene al riparo, neanche sentivi l'aria e la velocità. Ma se per una qualunque ragione ti sporgevi fuori dal finestrino, zac, finivi in un altro Tempo, e allora era polvere e vento fino a farti perdere il senno. Diceva proprio "perdere il senno": e da queste parti non è un'espressione qualunque. Diceva che Closingtown era una città sporta fuori dal finestrino del Mondo, col Tempo che le soffiava in faccia, e la polvere dritta negli occhi a complicare tutto in testa. Era un'immagine che non era semplicissima da capire, ma piaceva molto a tutti, aveva fatto il giro dell'ospedale, credo che in qualche modo tutti ci trovassero una storia che vagamente conoscevano, o una cosa del genere. Lo stesso prof. Parmentier, una volta, mi disse che, se questo mi aiutava, potevo immaginare quello che mi succedeva in testa come qualcosa di non molto diverso da Closingtown. Succede che qualcosa strappa il Tempo, mi disse, e non si è più puntuali con niente. Si è sempre un po' altrove. Un po' prima o un po' dopo. Hai un sacco di appuntamenti, con le emozioni, o con le cose, e tu stai sempre a inseguirli o arrivare stupidamente prima. Diceva che quella era la mia malattia, volendo. Julie Dolphin la chiamava: smarrire il proprio destino. Ma quello era il West: si potevano ancora dire, certe cose. Lei le diceva. - Trentaquattro anni, due mesi e sedici giorni fa, mister Wittacher, ognuno di noi ha smarrito il suo destino in un vento improvvisamente alzatosi, nel cielo della città, e mai più finito. Pat Cobhan era giovane e i giovani non sanno vivere senza destino. Salì a cavallo e non si fermò fino alla terra dove il suo lo stava aspettando. Bear era un indiano: lui sapeva. Portò lontano lo sceriffo Wister fino ai margini del vento, e lì lo consegnò al destino che si meritava. Bird è un vecchio che non vuole morire. Bestemmia ma se ne sta acquattato in questo vento dove il suo destino di pistolero non lo troverà mai. Questa è una città a cui qualcuno ha rubato a tempo, e il destino. Volevate una spiegazione: vi basta? | << | < | > | >> |Pagina 321 [ fine libro ]- Tutto bene, Goidd?- Da dio. - Stai buono, eh? - A domani. Usci dal supermercato. Era buio e tirava un vento gelido. Ma l'aria era pulita, di vetro pulito. Si tirò su il bavero del cappotto e attraversò la strada. Diesel e Poomerang lo stavano aspettando, appoggiati a un cassonetto della spazzatura. - Com'era la merda? - Abbondante. - E' la stagione, cagano che è un piacere, d'inverno -, nondisse Poomerang. Avevano tutti e tre le mani sprofondate nelle tasche. Odiavano i guanti. Se ci pensi, di tutte le cose belle che puoi fare con le mani, non ce n'è una che puoi fare se ti sei messo i guanti. - Andiamo?
- Andiamo.
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