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| << | < | > | >> |IndicePresentazione degli autori 7 Francesco Barilli e Sergio Sinigaglia Introduzione: Violenza, verità, giustizia 11 Giovanni De Luna Strano volo di un anarchico 33 Licia Pinelli su Giuseppe Pinelli Quei fiori che non appassiscono 43 Sergio Gattai su Franco Serantini Parma, vecchi e nuovi antifascisti 49 Ettore Manno su Mario Lupo "Tu devi continuare nella mia lotta" 57 Lydia Franceschi su Roberto Franceschi La bomba 71 Manlio Milani su Livia, Giulietta, Clementina, Alberto... Il Sindaco della Falchera 91 Daria Basso su Tonino Miccichè L'agguato 103 Lucia Bruno su Piero Bruno Bologna, marzo '77 111 Giovanni Lorusso e Gabriele Giunchi su Francesco Lorusso I ribelli di Piazza Igea 133 Luigi di Noia e Viviana Manfredi su Walter Rossi Quella voglia di giustizia 145 Maria Iannucci e Danila Angeli su Lorenzo Iannucci e Fausto Tinelli "Gli altri" - Da Paolo Rossi a Valerio Verbano 157 Francesco Barilli e Sergio Sinigaglia Una giustizia strabica 177 Haidi Giuliani Libri citati, siti internet e bibliografia 183 |
| << | < | > | >> |Pagina 7Nell'ottobre del 2007 l'inserto culturale di un importante quotidiano italiano riportava la notizia che sarebbe stato ristampato il libretto rosso di Mao Tse Tung. L'articolo ricordava che tra gli anni Sessanta e la prima metà degli anni Settanta le "massime" del Presidente cinese erano state vendute in tutto il mondo, seconde solo alla Bibbia. Tra le numerose frasi del "Grande timoniere", che affascinarono tanti della generazione ribelle di allora, ce n'era una piuttosto agghiacciante: "Ci sono morti leggere come piume, altre pesanti come montagne". Una sintesi efficace di quella cultura schmittiana basata sul binomio amico-nemico alla base della politica novecentesca e più in generale della politica moderna, che tanti guasti ha prodotto anche all'interno della sinistra mondiale. Il nostro libro trae origine da quella riflessione, una "massima" davvero "minima" e terrificante, proprio partendo da un punto di vista opposto. Il nostro intento non è contrapporre morti a morti, né proporre una ricostruzione dei fatti con un taglio celebrativo. Questo progetto parte invece dalla constatazione che quella frase, per quanto ci riguarda da tempo archiviata e sepolta, paradossalmente è stata fatta propria, di fatto, dal dibattito mediatico di questi anni. Spesso si parla, anche da parte delle massime cariche dello Stato, della necessità di recuperare una memoria condivisa. Per un popolo come il nostro non è cosa semplice. Siamo gente che con la propria storia ha un atteggiamento ambiguo, ci accostiamo ad essa furbescamente, autoassolvendoci o giocando con dimenticanze e revisioni di comodo. Per avere una prova tangibile di questa affermazione basta andare in una libreria e dare un'occhiata agli scaffali contenenti i testi sugli anni '70: per la maggior parte troveremo volumi sul caso Moro o scritti di ex brigatisti. Lavori anche interessanti, ma che denotano una prospettiva limitata, come se quel periodo lo si potesse comprendere solo con la rappresentazione di punti di vista opposti, o con la riproposizione ossessiva delle sue pagine più note e celebrate, invece che con una ricerca di quelle dimenticate. Proprio il dibattito emerso l'anno scorso sull'istituzione della giornata della memoria per ricordare le vittime del terrorismo è stato significativo. Alla fine, come simbolo di quella stagione è stato scelto il 9 maggio (data dell'uccisione di Aldo Moro), ossia un episodio segnato da una matrice (quella brigatista) su cui l'azione di condanna, giudiziaria e politica, è giunta a compimento. E a poco vale l'obiezione che questa commemorazione è rivolta a tutte le vittime: basta guardare come, sui principali media, è stata data la notizia e il rilievo che è stato garantito, come già accennato, al solo caso Moro. Spesso le responsabilità per questa mancanza di memoria sono attribuite alla magistratura. Questa valutazione sembra una semplificazione inaccettabile. Certo, è importante sottolineare che, relativamente a quegli anni, sul lavoro dei magistrati esistono molte zone d'ombra, ma non è possibile allineare una ricerca storica ai soli effetti giudiziari, perché il giudizio della Storia "va oltre" le sentenze e spesso evita di convalidarle. Processualmente, Mussolini non ebbe responsabilità nella morte di Matteotti, e Sacco e Vanzetti erano colpevoli: le risultanze processuali a volte indicano alla Storia che è bene indagare pure in altre direzioni. Più grave, sul piano di una corretta trasmissione della memoria alle future generazioni, è stato il ruolo dei media. E in questo campo affermiamo che nel nostro Paese c'è stata una grande rimozione. Si sono dimenticati i tanti che in quel decennio di lotte, conflitti sociali, manifestazioni, scelsero l'impegno pubblico, una militanza in prima fila e ci rimisero la vita. Scrive la storica israeliana Idith Zertal in un libro che ha sollevato diverse polemiche dedicato a Israele e la Shoah: "La memoria collettiva è una realtà sociale, un prodotto culturale e politico che si configura nell'ambito di un sistema di variabili sociali e politiche, e degli interessi di una determinata comunità. Trasmessa e inculcata nei diversi gruppi sociali, è – come sostiene Maurice Halbwachs – soggetta a mutazioni nella misura in cui è soggetta a mutazioni la sua funzionalità ai citati interessi con il cambiare dei tempi e, con questi, delle strutture e dei climi politici". Appunto. Anche nel caso degli anni Settanta la memoria storica, gli accadimenti di quel decennio, hanno gradualmente subito l'involuzione sociale e culturale in atto nel nostro Paese. Viceversa con questo nostro lavoro, anche se può sembrare singolare visto che parliamo di giovani, giovanissimi in alcuni casi, rimasti uccisi, abbiamo cercato di proporre una visione diversa di quegli anni. Lo abbiamo fatto attraverso la testimonianza di chi ha vissuto una tragedia. Ma i racconti di questo libro descrivono un'Italia che, al di là degli eccessi ideologici, fu attraversata da una grande stagione di impegno civile, ancora prima che politico e sociale. Quegli anni, che è eccessivo definire "formidabili" visti gli errori (anche tragici) commessi, furono anche una grande scuola di vita per i tanti che decisero di attraversarli in prima persona. Quindi etichettare il decennio che va dal "biennio rosso" 68/69 alla fine degli anni Settanta come "anni di piombo" è sicuramente riduttivo, semplicistico. Nel marzo 2008 a Milano è stato presentato il libro Segreto di Stato (Sperling & Kupfler), di Giovanni Fasanella, Claudio Sestieri e Giovanni Pellegrino. Proprio in quell'occasione Manlio Milani, Presidente dell'associazione dei caduti di Piazza della Loggia (una sua testimonianza è presente nel nostro lavoro), ha ricordato che quando si parla di "anni di piombo" si affronta pressoché solo la violenza brigatista. E ha aggiunto una proposta: che lo Stato trovi il modo per ricordare anche vittime come Giuseppe Pinelli; solo da qui si potrebbero cercare verità e riconciliazione. E nel solco di questa idea che si inserisce il nostro lavoro. La piuma e la montagna raccoglie minibiografie che descrivono anche il lato personale delle vittime, non solo la militanza pubblica. Ci è sembrato giusto proporre un lavoro che mettesse insieme, in un unico testo, coloro che per le loro idee furono uccisi e per le cui morti pressoché nessuno ha pagato (anche questo un aspetto tranquillamente rimosso). Abbiamo tentato di far raccontare chi fossero queste persone da chi le ha conosciute, amate, valorizzando non solo il loro impegno politico e sociale, ma anche il profilo umano, la storia personale, i sentimenti. Per chi ha accettato di parlare si è trattato di un viaggio nel tempo su fatti estremamente dolorosi, che hanno irrimediabilmente cambiato la vita di chi racconta. Ma la scelta di rievocare momenti così drammatici è stata fatta volentieri, perché è stata colta la possibilità di valorizzare la memoria dei propri cari, dei compagni di allora. Purtroppo non è stato possibile proporre un numero maggiore di testimonianze. In alcuni casi non siamo riusciti a rintracciare le persone da intervistare. Per altri abbiamo avuto un cortese ma fermo rifiuto, o saputo da persone vicine alle famiglie che i parenti ancora in vita avevano fatto da tempo la scelta di non rilasciare dichiarazioni. Però per impedire che nascesse un vuoto di memoria, dopo la prima parte dove sono presenti le testimonianze dirette, nella seconda sezione proponiamo un capitolo dove ricordiamo le vittime della violenza squadrista o delle forze dell'ordine. Per completare il lavoro ci è stato utile il prezioso sito "reti invisibili", gestito da Francesco Barilli, dedicato a tutti coloro che, a partire dal dopoguerra, sono rimasti uccisi in nome degli ideali di libertà e uguaglianza. Ideali che, attraverso pratiche e istanze diverse, vengono portati avanti dai nuovi movimenti globali e locali. Proprio in nome di questa doverosa attualizzazione, in appendice trovate un lucido quanto toccante intervento di Haidi Giuliani, dove la mamma di Carlo racconta i suoi anni Settanta e come, dopo i fatti del luglio 2001, ha incontrato i familiari di altre vittime, accomunati dal dolore, dalla volontà di non dimenticare, dalla ricerca di verità e giustizia. | << | < | > | >> |Pagina 111. Franco Serantini, Roberto Franceschi, Piero Bruno, Francesco Lorusso, Walter Rossi, Fausto Tinelli, Lorenzo Iannucci, Giuseppe Pinelli, Mario Lupo, Tonino Miccichè,.... Tutti erano militanti politici di sinistra, tutti furono uccisi negli "anni 68", nessuno era del Pci o del Psi o del Psiup, nessuno era terrorista, nessuno era poliziotto, nessuno era vittima inconsapevole di una strage, tutti sono stati cancellati dalla memoria pubblica di questo paese. Per Tonino Miccichè c'era una lapide alla Falchera, il quartiere torinese dove fu ucciso, ma è stata rimossa. Per Lorusso la famiglia ha creato una Fondazione e ha assegnato borse di studio. Per Serantini, subito dopo la sua morte nacquero numerosi comitati "Giustizia per Franco Serantini"; poi, nel 1982, a Pisa, in Piazza San Silvestro ribattezzata per l'occasione Piazza Serantini, venne collocato un monumento di marmo, donato dai cavatori di Carrara. Per Franceschi, a segnare il posto dove fu ammazzato c'è stata dapprima una lapide, poi un monumento. A ricordare Piero Bruno fu una targa posta da amici e familiari. A Walter Rossi il comune di Roma ha recentemente intitolato una piazza: tranne che in questo caso, intorno alla loro memoria non c'è niente di pubblico, niente di ufficiale, solo la pietà dei familiari e dei vecchi compagni. Il dolore e il lutto restano rinchiusi ancora in spazi prevalentemente privati. Probabilmente è così anche per i morti dall'altra parte, per i fascisti. Anche la loro è una memoria separata e altra rispetto a quella ufficiale. È possibile che venga un giorno in cui le due memorie si integreranno in un unico spazio pubblico. Per adesso manca il presupposto essenziale perché questo avvenga: una giustizia che renda credibile il ruolo di istituzioni virtuose, uno Stato legittimato ad avviare un percorso di inclusione delle diverse memorie nel segno della verità. Nel vuoto lasciato da uno Stato reticente e ambiguo, non ci sono alternative plausibili: quelle memorie restano ancora due ferite aperte e debbono rimarginarsi, ognuna elaborando i propri lutti, cercando per proprio conto la via per spezzare la spirale di rancori e di vendette, per far "passare" definitivamente quel passato. Serantini, Franceschi, Lo Russo, Bruno, furono uccisi da poliziotti o da carabinieri, Pinelli cadde dalla finestra della Questura di Milano. A colpire gli altri non furono le forze dell'ordine: Miccichè fu ucciso da una guardia giurata, Walter Rossi dai fascisti (Cristiano Fioravanti e Alessandro Alibrandi); soltanto per questi due si sono trovati i colpevoli e nel solo caso di Miccichè si è arrivati a una condanna. Per tutti gli altri non c'è stata giustizia. Le sentenze sono balbettanti, contraddittorie, perfino imbarazzanti per chi le ha emesse. Gli assassini che picchiarono a morte Franco Serantini sono rimasti ignoti ("non doversi procedere in ordine di omicidio preterintenzionale in persona di Serantini Franco per esserne ignoti gli autori", è scritto nella sentenza conclusiva del giudice Nicastro). Per Tinelli e Iannucci nel dicembre del 2000 il Gup di Milano, Clementina Forleo, ha disposto l'archiviazione dei fascicoli: "Pur in presenza di significativi elementi indiziari a carico della destra eversiva ed in particolare degli attuali indagati (Massimo Carminati, Mario Corsi e Claudio Bracci), appare evidente allo stato la non superabilità in giudizio del limite appunto indiziario di questi elementi, e ciò soprattutto per la natura de relato delle pur rilevanti dichiarazioni (quelle di ben sei pentiti n.d.r.)". La Questura di Milano parlò di una "faida fra i gruppi della nuova sinistra, o inerente il traffico di stupefacenti". In realtà era vero che Fausto e Iaio stavano svolgendo indagini sullo spaccio di droga nel quartiere Casoretto e sui rapporti tra spacciatori e fascisti, ma furono proprio le indagini della Magistratura a liquidare quella versione come infondata. Il giudice Armando Spataro, a proposito degli assassini, disse: "Non potevano essere solo spacciatori di eroina. C'era dell'altro. Le prime indagini si erano mosse proprio in questa direzione ma ben presto mi accorsi che era un omicidio politico". Nel caso di Piero Bruno le armi dei poliziotti che spararono furono sequestrate molti giorni dopo i fatti; tre dei possibili uccisori furono individuati e indagati ma, alla fine, applicando la "legge Reale", non si arrivò nemmeno al processo: "Se per gli interessi superiori dello Stato, congiuntamente alla difesa personale, si è costretti a una reazione proporzionata all'offesa, si può compiangere la sorte di un cittadino la cui vita è stata stroncata nel fiore degli anni, ma non si possono ignorare i fondamentali principi di diritto", era scritto nella sentenza. Tramontani, il carabiniere che uccise Lorusso, fu prosciolto in base alla stessa legge. Per scoprire i colpevoli dell'uccisione di Roberto Franceschi fu avviato un iter giudiziario durato 26 anni: la Questura fornì tre versioni diverse, dapprima ammettendo due soli spari attribuiti all'agente Gallo, poi parlando di quattro spari dello stesso agente (di cui due in aria), poi di quattro spari e due sparatori (Gallo e il vicebrigadiere Puglisi) e poi ancora di quattro spari con tre sparatori (Gallo, Puglisi e un altro agente). Alla fine, la versione "ufficiale" fu che a sparare era stato solo Gallo, in un raptus; a quel punto le pistole di Gallo e di altri poliziotti risultavano manomesse, alcuni dei rapporti dei responsabili del III Celere erano palesemente falsi, si appurò che gli sparatori erano stati almeno cinque, i bossoli raccolti più di dieci. Venne incriminato il vicequestore Paolella, poi assolto. Del vero sparatore non si seppe mai il nome: "in base alle emergenze penali" – è scritto testualmente nella sentenza conclusiva – "può ritenersi pienamente provato che il proiettile estratto dalla nuca di R.F. fu esploso dalla pistola in dotazione all'agente di polizia Gallo Gianni, che la pistola fu impugnata e il colpo sparato da una persona appartenente alle forze dell'ordine e che l'uso dell'arma, lungi dall'essere un episodio isolato, si inquadrava in un ricorso generalizzato all'impiego delle armi da fuoco nei confronti dei manifestanti che si stavano allontanando..." Ed è proprio questo vuoto giudiziario a lasciare tutte le ferite aperte e a rendere comunque inquieta la memoria di quegli anni. Gli episodi di violenza delle organizzazioni terroristiche di sinistra o quelli in cui sono stati coinvolti solo i fascisti dello squadrismo eversivo hanno trovato una loro chiara configurazione giudiziaria e, bene o male, hanno definito un quadro di certezze processuali: sono stati individuati i colpevoli, sono state ricostruite con esattezza le modalità con cui si svolsero i fatti. Questi successi giudiziari sono stati conseguiti non grazie alla efficacia degli interventi repressivi delle forze dell'ordine, ma attraverso uno strumento quasi privatistico di "contrattazione", utilizzando i pentiti, terroristi in carcere che confessavano i propri crimini e davano informazioni sui complici in cambio di pene detentive ridotte. Nonostante questi percorsi decisamente anomali, alla fine i risultati conseguiti sono stati senza dubbio notevoli. Non è stato così per nessuno degli episodi di quella che riassuntivamente viene indicata come la strategia della tensione, quelli, per intenderci, in cui si sono presentati insieme tre elementi: i neofascisti come esecutori materiali, gli apparati dello Stato in un ruolo ambiguo, se non direttamente colpevole, un attentato di tipo stragista, che puntava cioè semplicemente a "sparare nel mucchio" al fine di alimentare una sensazione diffusa di insicurezza e di disordine sociale da attribuire ai comunisti e alla debolezza dello Stato democratico. Proviamo a ricordarli: dopo Piazza Fontana, il 12 dicembre del 1969, il 17 maggio 1973, davanti alla Questura di Milano un ordigno causò 4 morti e 45 feriti; il 28 maggio 1974, bomba in Piazza della Loggia, a Brescia, con 8 morti e 103 feriti; il 4 agosto 1974, attentato al treno Italicus con 13 morti e 48 feriti; e così via in un tragico crescendo, sfociato nell'orrore della bomba esplosa alla stazione di Bologna, il 2 agosto 1980, che fece 85 morti. Tutto questo durò 15 anni, dal 1969 al 1984: alla fine si contarono 150 morti, 652 feriti, 11 stragi. Lo ripetiamo: per nessuna di queste stragi, (così come per le uccisioni di Serantini, Bruno, Franceschi, ecc.) è stato trovato un colpevole in chiave giudiziaria. La prima spiegazione di una realtà così inquietante viene suggerita da una constatazione puramente fattuale: in tutti questi episodi sono implicati uomini dello Stato; lo Stato ha rinunciato a fare giustizia ogni volta che si profilava un coinvolgimento dei suoi apparati. Quale sia stato veramente il ruolo delle istituzioni in quelle vicende lo diranno gli storici del futuro, quando avranno a disposizione le carte e gli archivi. In questo senso, il decreto varato in extremis dal governo Prodi che stabilisce in trent'anni la durata massima del "segreto di stato" è destinato a incidere in profondità sui nodi che si sono aggrovigliati in questi decenni intorno all'intreccio tra verità e giustizia. Il nuovo regolamento (entrato in vigore il 20 aprile 2008), previsto dalla legge di riforma dell'intelligence, in pratica obbliga i vari "servizi", Dis (ex Cesis), Aise (ex Sismi) e Aisi (ex Sisde) e le forze di polizia a "organizzare le consultazioni dei loro archivi" "per quanti lo richiedano". In attesa che la ricerca storica faccia il suo corso, è comunque già chiaro quali furono allora le conseguenze politiche di quelle scelte. L'impunità garantita allo stragismo e agli apparati dello Stato coinvolti in episodi criminosi rimise in discussione la capacità dell'opinione pubblica di penetrare all'interno dei segreti del Potere, di rendere tutto trasparente, percepibile, controllabile, dentro la logica di una democrazia compiuta. C'è una lunga litania di tentativi di colpi di stato, depistaggi, insabbiamenti che accompagna la storia dei servizi segreti nell'Italia repubblicana. Ricordiamo i 150 mila dossier del Sifar scoperti nel 1974 (poi distrutti, ma ritrovati anche nelle carte di Licio Gelli); i 20 mila fascicoli illegali prodotti dai servizi di sicurezza e di informazione venuti alla luce nel 1999; le migliaia di documenti, frutto di indagini clandestine e illecite condotte – attraverso l'utilizzo di banche date istituzionali –, da un'associazione a delinquere che comprendeva impiegati della Telecom insieme a servizi segreti nazionali e internazionali, ritrovati ancora nel 2006. È una sorta di "cuore nero" della nostra Repubblica, dove il "segreto" assume contorni inquietanti. E a ogni scandalo che coinvolge i nostri servizi sembra che la storia si ripeta, che si tratti di una sorta di eterno ritorno di un qualcosa che ormai appartiene alle nostre istituzioni, ne connota irreversibilmente le identità e il funzionamento. Non si tratta di un "doppio stato" o di una "doppia lealtà", anche se a lungo quest'ipotesi è stata resa plausibile dalla logica della guerra fredda. In realtà, anche negli anni '70 nessuno pensava a strutture tipo "Gladio", a una duplicazione cioè degli apparati, a un meccanismo per cui a uno palese se ne affiancava uno occulto; quello che si percepiva era una "zona d'ombra" che gravava sul funzionamento degli organi dello stato che agivano secondo modalità in cui gli aspetti visibili e legali erano strettamente intrecciati con quelli invisibili e illegali. Intendiamoci. Esiste una fisiologia nel segreto e negli arcana imperii; nessun potere, nemmeno quello democratico, potrebbe funzionare adeguatamente vivendo interamente alla luce del sole, senza nessun tipo di attività segreta. Con una sorta di rassegnata consapevolezza Norberto Bobbio ha parlato di una tendenza naturale e quindi ineliminabile "di ogni forma di dominio a sottrarsi allo sguardo dei dominati nascondendosi e nascondendo, ovvero attraverso la segretezza e il mascheramento". Il potere politico si è sempre avvalso del segreto come mezzo di potenza. Il problema è che la logica della segretezza e il prevalere della ragion di Stato, portati oltre limiti ragionevoli possono non solo condurre alla menzogna e all'inganno dell'opinione pubblica, ma anche provocare danni e guasti per l'azione degli stessi governanti. La divaricazione tra i fatti reali che vengono nascosti e la loro rappresentazione ufficiale provoca fenomeni di autoinganno e conduce a decisioni politiche errate. In uno scenario molto più rilevante per la storia del mondo, la pubblicazione dei Pentagon Papers da parte del "New York Times" nel 1971 rese evidente, ad esempio, come l'intera catena di decisioni che portò all'intervento americano in Vietnam nasceva dall'ostinata volontà del Pentagono di ignorare i fatti e la realtà per inseguire l'ottusità burocratica dei servizi. Nel caso italiano oggi sono chiare le conseguenze politiche di quelle scelte. Dopo Piazza Fontana, la campagna di stampa avviata dalla sinistra extraparlamentare contro la "Strage di Stato", con i suoi effetti dirompenti, aveva rafforzato la consapevolezza che in democrazia l'opinione pubblica ha la forza di illuminare i lati oscuri del Potere. I risultati furono molto efficaci; si smontò un paradigma accusatorio contro Valpreda e gli anarchici e si rafforzò la fiducia nella dimensione "virtuosa" di una mobilitazione politica in grado di allargare gli spazi di verità e di democrazia nel funzionamento delle istituzioni. Poi, la successiva, inarrestabile sequenza delle stragi si rivelò esiziale, alimentando la sensazione che a contare in quella fase fosse solo l'effettivo esercizio dell'autorità tramite la violenza, rendendo irrilevante qualunque aspetto etico nell'azione politica. Sotto i colpi dello stragismo impunito andava in frantumi quel "patto di cittadinanza" sulla base del quale lo Stato garantiva verità e giustizia in cambio di lealtà e fiducia. Assumere "il sospetto" come regola di comportamento nei confronti dell'operato dello Stato determinò una sorta di fuga dalla responsabilità; se c'era un complotto segreto non ci si poteva fare niente e tanto valeva rassegnarsi. La mancanza di verità ripristinò insomma la certezza che c'erano alcune cose che non potevano essere conosciute: fu questa l'anticamera psicologica del passaggio dalla curiosità, dalla partecipazione, dal protagonismo alla passività, alla rassegnazione, alla subalternità. Così, lo scenario storico entro cui si collocano le stragi dal 1974 in poi è segnato dall'inizio di una progressiva divaricazione tra il mondo della politica e quello della società civile.
Cominciò allora il ritrarsi dei movimenti collettivi dalla politica: il
rendersi conto che la politica era fatta di stragi, di un vasto e
impenetrabile sottofondo fangoso ebbe conseguenze devastanti.
Da una parte favorì la tendenza del sistema dei partiti a rinchiudersi in se
stesso, a diventare sempre più accentuatamente un
meccanismo che promuoveva uomini e non idee o programmi;
dall'altra produsse la deriva di una società civile progressivamente
abbandonata a se stessa, quella stessa società che lungo gli anni '80
si strutturerà attorno a nuovi strumenti di riconoscimento identitario come
l'appartenenza territoriale e la coincidenza dei "valori" con gli "interessi".
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