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| << | < | > | >> |IndiceI batacchi 11 Aqua Granda 17 La peste 23 Le macchie 27 Quattrocentoquarantadue 33 L'infolio 37 La Scuola Grande 41 Servizio psichiatrico 45 Il cuore 51 L'uomo dei gatti 55 Il pesce 59 Alvise Cornaro 63 Cos'è un'autostrada? 69 La panchina del signor Sotuttomì 75 Il rito della meringa 70 Arriva Pietro ma non è Pietro 83 Pierino-Porcospino 87 Il muro dell'Arsenale 91 Meccanica quantistica 95 Gaggiandra 99 La Tesa 103 Privacy 107 La copia perfetta 111 Il Mostro 115 Syncrolift 121 La Prudentia 125 Il Ponte dei Pensieri 129 L'incredibile coincidenza 137 La marmellata tetradimensionale 137 Nobel si è pentito 141 Cenerentola 147 Brube Evoluzione 153 Guadagno = Ricavo - Spesa 157 Lungimiranza 161 La sagoma bianca 167 Un segno della croce 171 Ci fosse stato Pre' Domenico 175 La sanguigna di Tiziano 179 Un carico di bambine, edera e glicine 183 I fuochi del Redentore 187 La sbeccatura del soldato 193 Appunti di viaggio 199 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Il campanile di San Marco ha cinque campane: la Marangona, la Trottier, la Nona, la Mezza Terza o dei Pregadi, la Ringhiera o Maleficio. La più grande delle cinque è la Marangona, unica superstite delle originali. Sono suoi i rintocchi che risuonano sempre a mezzogiorno e a mezzanotte.A Venezia ci sono più di 400 ponti. Ma uno solo è quello che ci interessa, sta nel Sestiere di Cannaregio, è il ponte di San Canciano. Ed è costretto a condividere, come molte altre costruzioni, gli spazi spesso angusti delle isole su cui la città è stata edificata, tanto che buona parte della sua base si ritrova inglobata nel pianoterra di un palazzo. Lì, ad altezza spalla, proprio sulle due pareti ad angolo inserite nel ponte, si notano due antiche maniglie in ferro battuto a forma d'àncora. Una sta sulla facciata rivolta al canale, l'altra guarda l'impiantito. Osservate ora chi dal campo di San Canciano sale i tredici gradini del ponte, per poi scendere i sette che portano in calle, detta della Malvasia, e chi percorre la stessa strada, ma nella direzione opposta. Noterete che molti tra i pedoni in transito sul ponte, che siano vecchi, giovani o bambini, arrivati a sfiorare il palazzo, sollevano la mano e veloci afferrano la prima maniglia che si ritrovano davanti. La fanno tintinnare sul muro e subito, anche se alla cieca, acchiappano l'altra, ancora nascosta dietro l'angolo, e la sbattono con decisione. Faccenda di qualche attimo e la camminata continua. Nessun soffermarsi sui due gesti. La speranza è che, nel ritmo quasi inalterato del passo, la stranezza del movimento non si noti. Se per caso qualcuno se ne accorgesse e non capisse, pazienza. Chi sa invece comprende: lo sbatacchiare dei due batacchi in così rapida successione altro non è che un rito antico di secoli, fatto per attirare la fortuna. E i passanti, quelli consapevoli e scaramantici, non possono che agire; reiterando in perfetta successione gesti tramandati nei secoli e sempre uguali a se stessi. | << | < | > | >> |Pagina 11La Marangona sta suonando. «Come sempre sono in ritardo. E mi sono anche dimenticatà di pestare i batacchi.» Torna indietro e risale il ponte di San Canciano con un balzo, ma il bordo della tunica azzurra si infila sotto allo zoccolo e lei sta per inciampare. Deve stare attenta, oltretutto ha da poco piovuto e per terra è bagnato; il rischio di scivolata è alto. «Questa gonna è un po' lunga, meglio tenerla su quando faccio i gradini.» Sulla spalla ha il peso della sacca a tracolla. Dentro, i documenti da riportare a Palazzo Ducale prima di andare da Pre' Domenico per prepararsi alla processione. «Devo anche incontrare Pietro per farmi dare l'aceto. Con così tante cose da fare, meglio che non salti la mossa porta-fortuna.»
La mano libera dalla stoffa in automatico va alla maniglia.
La Marangona sta suonando. In bocca il sapore burroso della troppa fregolotta che si era mangiata prima di uscire. Lo sguardo piantato dentro all'iPhone. Le dita sui tasti. «"Gherminèlla (sec. XIII) sost. femminile. Da un più antico guerminella, diminutivo di vermèna 'bacchetta, piccola verga'; attrazione di ghermire nel senso di 'acchiappare, far cadere in inganno, imbroglio'." Molto bene, ecco un'altra parola per la mia lista.»
Si toglie il taccuino di tasca e con la matita che tiene
legata sopra con un elastico, prende nota. Soddisfatta,
si leva le ciocche di capelli che le stanno disordinate sugli occhi, sistema le
bretelle della salopette di jeans che
tendevano sempre a caderle dalle spalle ossute e affronta
i gradini del ponte. La mano libera dall'iPhone in automatico va al batacchio.
Dritta sul primo e poi subito sul secondo dietro l'angolo. È lì alla stessa
altezza, non serve nemmeno guardare.
La Marangona sta suonando. Ci arrivano sicure. Ma non toccano il solito ferro freddo, piuttosto qualcosa di morbido e caldo, un'altra mano? Non ci sarà mica qualcun altro dietro l'angolo che sta facendo lo stesso dalla parte opposta? Il colpo è tale che finiscono per terra. Sugli scalini, due ragazzine: una bionda con una treccia disordinata, una tunica leggera azzurro cielo e una pesante sacca di tela giusto di fianco a lei. Una mora con i riccioli scuri e spettinati sulla faccia, a gambe larghe, con lo smartphone miracolosamente ancora in pugno. «Abbiamo sbatacchiato insieme. Scusami tanto ma è che ero distratta da una nuova bellissima parola.» «Scusami tu, è che è tardi e sono di fretta. Prima di andare a Palazzo Durale, devo correre in campo a prendere l'aceto per Alcide. Che con quella febbre non può farsi vedere da nessuno, altrimenti lo spediscono dritto al Lazzaretto. Ma non voglio che ci vada, proprio adesso che tutto è passato. Quindi devo scovare qualcosa di diverso da 'sta triaca che non so a te, ma a me pare che non serva proprio a niente. Il male di Alcide però non può aspettare. Allora Pietro ieri mi ha parlato di un tipo di aceto che secondo certi frati può servire e me ne sta portando una boccetta. Forse funziona ed è meglio di questo inutile intruglio secco. Pietro è l'acquaiolo delle scoazzere, quello che col suo carico d'acqua dolce va e viene dai conventi ed è sempre con il suo gatto rosso che lo segue ovunque come un cane.» La mora, investita dal fiume di parole, si massaggia la spalla e si accomoda meglio sul gradino del ponte: «Triaca? Cosa cavolo sarà 'sta triaca?» e le dita iniziano a scrivere sullo schermo dell'iPhone: T-r-i-a-c-a: «"Antico medicamento... etim.: dal gr. thēriakē 'rimedio contro i morsi di animali velenosi', deriv. di thērion 'belva', poi 'animale velenoso'." Che parola meravigliosa». «Come fai a non sapere della triaca? Ma dove vivi? La triaca è famosa ma è anche una vera gherminella.» «E tu come fai a sapere cosa vuol dire gherminella? Io l'ho appena scoperto.» «Be', io la conosco perché la uso. Comunque la triaca sarebbe una medicina, ma per me è solo una fregatura, appunto una gherminella. Basta contare i morti per capirlo. Due mesi fa per caso c'eri anche tu quando la stavano preparando davanti alla spezieria, col protomedico? Io non ti ho visto e penso che ti avrei notata di certo con questi capelli spettinati e con queste braghesse da maschio che hai addosso.» «I capelli mi stanno così in confusione da quando li ho tagliati e mi piacciono tanto proprio perché ogni ciuffo va dove vuole lui. E poi se c'è una cosa che odio è la gonna, non la metterò mai. Protomedico?» «Quello che sta sempre insieme allo speziere della Testa d'Oro! Possibile che tu non li abbia mai visti quando preparano la triaca? Si mettono all'aperto, di fronte alla spezieria, per mostrare a tutti come lavorano bene. Per prima cosa prendono la vipera, quella dei colli Euganei. Appena sveglia dal letargo e non incinta. Ma te le devo insegnare io queste cose? Tutti gli ingredienti sono esposti per i tre giorni prima della lavorazione. È davvero strano che tu non li abbia mai notati. Il quarto giorno con i mortai di pietra riducono tutto a poltiglia, poi tagliano alla vipera la testa e la coda. Le aprono la pancia, levano le budella e la ficcano in una pentolaccia a bollire nell'acqua con l'aneto.» «Ma che schifo. Povera vipera!» «Non è mica finita qui, perché poi da cotta la schiacciano e la mescolano con le altre sostanze. Impastano con il pane secco e ci fanno le famose palline che a me sembrano delle noci. Le lasciano seccare. E aspettano settantadue mesi prima di darle ai malati. Poi però ti durano un sacco, trentasei anni, dicono. Ci saranno anche a casa tua. Siccome non servono a far guarire proprio nessuno, continuano testardi ad aggiungere ingredienti. Io so solo che c'è l'oppio che deve per forza essere quello di Tebe, la mirra, la cannella, la radice di genziana, il mastice, perfino la gomma arabica, il castoro e le foglie di rose...» «Che intruglio da fattucchiera! Ma tu ce l'hai il bugiardino di questa medicina?» «Mi stai dando della bugiarda?» | << | < | > | >> |Pagina 27Il ponte dei Miracoli guardava storto verso la facciata in marmo della chiesa che spuntava lucente tra le case. Come se un tipo bislacco si fosse divertito a ficcarla là in mezzo. Mirtilla e Nina, scese dalla passerella, erano sulla campata del ponte e quindi ben al di sopra del livello dell'acqua. Decidono di sedersi vicine, con la schiena appoggiata alla spalletta in mattoni della balaustra. Nina ha l'iPhone davanti al naso: «Siri, cerca Macchie di Rorschach test». Il dito scivola sullo schermo e tocca un'immagine in bianco e nero che effettivamente sembra una macchia spiaccicata. Con il pollice e l'indice della mano destra ne sfiora i contorni. La figura, come per magia, si ingrandisce sempre più e arriva a riempire il piccolo schermo. «Ecco qui. Cosa vedi?» «Un can da grembo.» Un colpo col dito e l'immagine cambia. «E questa?» «Due giullari.» «E questa?» «I due moretti.» Così fino all'ottava tavola. «E questa?» «Quanti colori, finalmente. Sembrano quelli che sono sulla carta che devo riportare a Palazzo Ducale.» «Ecco l'ultima. E qui cosa vedi?» «Be', questa è proprio uguale alle tavolozze che vedevo nello studio del vecchissimo maestro, quando andavamo in visita da lui ogni mercoledì.» Nina, perplessa, fissa lo schermo. Le dita in su e in giù per cercare le interpretazioni alle risposte della bionda. «Non trovo nessuna delle tue scelte. Quindi non ci capisco un bel niente. Neanche se sei Ban più o Ban meno. Riconosco solo lo shock al colore. Ma da dove vieni?» «Da Venezia da dove vuoi che venga. Però questa tua tavoletta bellissima, che sembra avere il mondo dentro, dove l'hai presa? Dammi qua.» «Ti piace veramente? È il telefono di mia nonna. È lento e non può fare un sacco di cose. Me l'ha dato perché non me ne comprano più di nuovi fino al mio compleanno. Ne ho rotti e persi troppi. Che ti piaccia mi fa davvero strano, tu così perfettina con questo vestito azzurro e gli zoccoletti, ti facevo una da ultimo modello.» Mirtilla si rigira il cellulare tra le mani e lo guarda attentamente. Lo scuote e lo solleva. Ci mette sotto la lingua. «Cosa fai!» «Non esce acqua da questo buco?» «Ma va là! Qui è dove si infila lo spinotto del caricatore.» «Allora se non c'è acqua ci deve essere il fuoco che lo fa brillare, però non scotta.» «Più che matta sembri proprio arrivare da un altro mondo.» «Io sono veneziana di Venezia, la Serenissima Repubblica, la Reina del mar. E non mi sono mai mossa da qui.» Così dicendo si alza, scende i primi due gradini, tutta impettita fa un giro su se stessa di centottanta gradi e lì si blocca: una gamba piegata sul gradino superiore, l'altra giù a sostenere il peso. La mano destra che tiene leggermente la gonna per non inciampare e la sinistra invece sollevata, le dita rivolte in su, in un gesto certamente molto regale. "In effetti sembra lei la Reina del mar, più che 'sta Venezia qui, svenduta, mezza annegata anche in estate", pensa Nina. In quell'istante tra le nuvole si apre uno spiraglio e un raggio di sole colpisce Mirtilla, immobile nella sua posa. «Scusa, scusa, non muoverti per favore, finalmente ho capito a chi assomigli. Stai ferma così che sei identica a una ragazzina di un quadro che mi è sempre piaciuto tanto. Si chiama la Presentazione di Maria al Tempio. Lei, Maria, così piccola, col suo vestitino azzurro cielo e con quel coraggio, sai quello che certe volte viene a noi femmine quando abbiamo paura. Un coraggio che le fa salire le scale sicura, per affrontare i due vecchi sacerdoti ricoperti di velluti e oro. È una scena grande e antica, del Tiziano. Eccola qui, guarda, te l'ho appena scaricata.» Sullo sfondo un imponente loggiato classico, in primo piano una scena di vita cittadina: donne, bambini, una venditrice di uova, i nobiluomini della confraternita, un cane che sta per addentare una ciambella. Sulla scalinata, circondata da un alone luminoso, una ragazzina incede verso i sacerdoti. Con la treccia bionda, il vestito azzurro, la mano destra che sostiene l'abito, la sinistra sollevata. Davvero identica a Mirtilla. «Anche tu con quella storia. È la mia mamma, che fin da piccola andava a trovare il maestro. Io e lei ci assomigliamo troppo, per questo tutti si sbagliano. Quel dipinto ha una quarantina d'anni. Tiziano, te l'ho già spiegato, è morto la scorsa estate, due mesi prima di suo figlio Orazio, che sarebbe quello che è finito nella fossa comune al Lazzaretto. Se non ci credi, andiamo da Marco, il nipote, che è l'unico della famiglia rimasto in casa. Dài, sbrighiamoci, speriamo che non sia uscito.» Mirtilla scansa il raggio di sole che la abbaglia, si piega e afferra Nina per un braccio, la spinge sulla passerella e via: la fondamenta, il sottoportego, rio Terà del Parsemolo, campo dei Biri, calle del Fumo. «Mi sono persa. Non trovo la casa del maestro. Forse ho sbagliato strada, ma qui non ci sono più gli orti e i prati. Mi viene di nuovo da piangere.» La bocca le ricomincia a tremare e Nina si illumina: «Ma è qui dietro, in calle Larga dei Boteri. Adesso ti accompagno». In breve ci arrivano. «Eccoci. HANC DOMUM COLUIT TITIANUS VECELLIUS, più chiaro di così.» «Ma no. Non ha questo muro alto davanti. Dalle finestre si vede la laguna. Il maestro l'aveva presa soprattutto per la vista e per il giardino: perché nelle giornate senza nuvole poteva scorgere, oltre l'acqua verso terra, i monti dove era nato. Che schifo che mi fa questa Venezia.» «Oh è tornata la Reina del mar! Manca solo che tu dica "Viva le glorie del nostro Leon". La Venezia tua che è bella, con gli orti e le finestre con vista e la Venezia mia che è brutta, con l'acqua alta e senza gli orti. Talmente brutta che ti fa sempre piangere. E poi, scusa, come è possibile che Tiziano abbia dipinto tua mamma che è morto da secoli?» «...» «...» «Scusami tanto: ma tu in che anno sei nata?» «Il 3 ottobre del 1566 e tu?» «Il 25 agosto del 2008.» | << | < | > | >> |Pagina 87Barbaria de le Tole non è una calle stretta dove si può stare al massimo appaiati, ma è sufficientemente larga da permettere a quattro persone di procedere una di fianco all'altra. Mirtilla a destra, con la sacca a tracolla dalla parte di Nina che preferisce starle accanto perché non si sa mai. Alla sinistra di Nina l'uomo dei gatti e poi Pietro, che camminando allunga il collo; un po' per non perdersi la treccia della bionda e un po' per seguire il discorso dello zio alle due bambine: «Senti tu, ragazzina in salopette, anche se i tre gatti dell'ospedale li hai fatti arrabbiare con quelle tue ruote, devo riconoscere che hai usato davvero un bel modo per entrare in scena. Mi hai ricordato le ginnaste magre magre che saltano come grilli sul tappeto azzurro alle Olimpiadi. Non manco mai le dirette in streaming quando ci sono loro. Brava. E comunque tra te che hai fatto quei salti e lei che ha recitato le parole di Cristoforo Sabbadino, non potevo fare finta di niente. È stato naturale mettermi in mezzo mentre vi lambiccavate il cervello sul pesce, sul cuore e su quel pezzo mancante della coda. Che adesso per l'appunto vi porterò a visitare. È sempre bene, quando ti è dato, passare dalla teoria alla pratica». Nina riflette: proprio una passeggiata che arrivava al momento giusto. Avrebbe almeno rimandato di un po' un brutto pensiero: il rientro a casa della bionda. "Per fortuna fino ai fuochi ho il permesso di stare fuori. Ma poi se non scopriamo come farla tornare a casa sua, dove me la metto? Andrà a finire che mi toccherà ficcarla sotto al letto. E alla mamma cosa dico se la vede?" La voce di Pietro la risveglia: «Guarda che la tua amica è rimasta indietro. È ferma alla vetrina delle Strasse. Aspettiamola».
La bionda si è incantata a fissare quei mucchi di vestiti
usati che sembrano essere arrivati lì per puro caso.
«Abbiamo gli stessi gusti, perché quel negozio è anche
la mia passione. Esattamente da quel Carnevale di tanti
anni fa, quando la mia baby-sitter mi aveva portata a cercare una blusa rossa
per vestirmi da Pierino-Porcospino.»
A Nina basta nominarlo che, immancabile, la filastrocca le
riaffiora in testa. Una cantilena prepotente che non riesce
a fare a meno di recitare a se stessa.
«E allora, ci muoviamo che il sole mangia le ore? Di questo passo non raggiungeremo mai l'Arsenale.» Lo zio di Pietro sembra davvero spazientito e, per farsi capire meglio, socchiude gli occhi e batte le mani affusolate una contro l'altra, producendo due sonori clap. Il risultato è immediato: Mirtilla stacca il naso dalla vetrina e Nina molla la filastrocca. Entrambe, richiamate all'ordine, tornano subito da lui. «Vediamo da adesso in poi di usare il passo nostro, quello veneziano. Diamoci dentro che in dieci minuti arriviamo alla Celestia.» Lo zio becca Pietro per un braccio e parte con la falcata decisa degli indigeni, così tipica e così diversa da quella di qualsiasi altro cittadino del mondo. Lunga, ben distesa e senza ripensamenti: la camminata di chi confida nelle proprie gambe come unico e infaticabile mezzo di locomoziohe. Il passo di chi sa qual è la sua meta e come raggiungerla. Magari imboccando le sconte più inaspettate, spesso perfino labirintiche, eppure sempre capaci di accorciare i tempi e di evitare gli ingorghi. Le due bambine si accodano. Ma anche se il ritmo è il medesimo, rispetto a zio e nipote restano distanziate di un paio di metri. «Questo è il modo di camminare che si impara subito, appena scesi dal passeggino e serve per non farsi risucchiar da tutti quegli umani che ti hanno travolta alle Fondamente Nuove.» «Guarda che anche da me c'è un sacco di gente foresta. Ne capitano tanti perfino per imbarcarsi verso la Terra Santa e spesso restano un sacco di giorni a bighellonare e a curiosare in città. Anche per noi è importante saperli schivare. Ma a proposito di passi, tu lo sai di quanti piedi è fatto un passo? Io l'ho studiato da poco. Me lo ha spiegato bene Fortunio. Anche se non è stato facile, mi pare di averlo capito e credo di ricordarmi tutto a memoria. Te lo dico piano, così quelli là non mi sentono: 5 piedi fanno un passo, 6 piedi fanno la pertica grande. La pertica piccola vale 4 piedi e mezzo. E se poi si passa ai liquidi, so anche quelli: un mastello si divide in 7 secchie, la secchia in 4 boccali. 8 mastelli fanno invece un'anfora e 10 mastelli una botte. 60 botti fanno un burchio. E il burchio serve a portare l'acqua ed è quello dove ogni tanto va il mio Pietro col suo gatto che però si imbarca più spesso nella scoazzera che si chiama così perché oltre all'acqua porta anche le scoazze. Quando Fortunio mi interrogherà sarà felice.» «Ma se dici scoazze invece di spazzature il tuo maestro sarà contento lo stesso?» «A lui basta che io mi ricordi le misure complicate che ti ho detto. Il resto non gli interessa.» Nina ripensa a quei numeri e a quelle strampalate equivalenze: peccato che a lei tocchi usare i metri e i litri. È molto più divertente misurare le cose pensando a dei piedi in fila che diventano una corda e a delle botti che si trasformano in una barca. Nel frattempo i due davanti a loro, ignari di tutti questi discorsi, hanno girato l'angolo e stanno per sbucare in campo San Francesco della Vigna. | << | < | > | >> |Pagina 99«Spiacente. Non ho trovato nessuna informazione per Cajun Bra.» «G-a-g-g-i-a-n-d-r-a.» «Ecco cos'ho trovato su Internet su Garage Ambra.» «Siri non capisce niente. Sembra proprio stupida, non trova Gaggiandra. Ma io voglio sapere qualcosa di questa parola per metterla nella mia lista.» «Se chiedevi a me che a casa ho il vecchio dizionario Boerio, ti avrei detto che vuoi dire tartaruga.» «Zio sei sicuro? Cosa c'entrano le tartarughe con questa assurda costruzione che ha l'acqua al posto del pavimento?» Mirtilla a questo punto è proprio irritata. Passi la bambina e la sua tavoletta parlante, passi il Signore dei gatti con la spiega del vocabolario, ma quest'ultimo discorso di Pietro la fa sbottare. Si alza, appoggia a terra la sacca, si mette in ordine il vestito, fa un respiro e decide di farsi sentire o meglio di far sentire quello che aveva rubato dai discorsi dei grandi. «Ne sapete ben poco, cari miei.» Li squadra e prosegue: «Ascoltate. Le gaggiandre sono le vasche coperte dove vengono armate le navi. Lì dentro avviene la fase finale di tutto il processo di costruzione. È il momento in cui ogni pezzo preparato negli altri reparti viene messo al suo posto esatto nello scafo nudo, secondo regole rigidissime. Un po' come quando tanti strumenti si uniscono per suonare la stessa musica. Gli arsenalotti in questo sono i migliori, si sa. Ma l'ammiraglio responsabile, per essere certo che non si distraggano mai ed eseguano gli ordini, si tiene sempre vicino un capitano e due guardie. Per prima cosa a prora viene fissata la palmetta, un piccolo ponte che serve per le manovre di ormeggio e per tenere le tre àncore. Poi vengono montati gli alberi, i pennoni, il sartiame, il ferrame, le vele e i remi. Per quelle da guerra arrivano anche i cannoni, i proiettili e i barili della polvere. E alla fine di tutto, caricano l'acqua». Nina, rapita dal racconto e presa da una curiosità insopprimibile, per un attimo dimentica i quattrocentoquarantadue anni che la separano dall'amica e chiede: «Ma tra tutti questi arsenalotti neanche una femmina? Voglio dire, ci sono anche delle arsenalotte?» «Fammi pensare, i segantini, gli appontadori, i despontadori, gli aseri, i pastecanti, i pegolotti. No, tra loro no. Ma alle vele sì che ci sono delle signore. Si chiamano velere. Stanno dall'altra parte della darsena in un soppalco lunghissimo. Tessono, tagliano e cuciono sedute a gambe incrociate. Il loro è un lavoro talmente duro che devono proteggersi le mani con uno speciale guanto di cuoio. Alcide mi ha detto che ce ne sono più di quaranta.» Pietro non vuole certo far capire quanto tutta questa sapienza lo abbia colpito. Ma non riesce a trattenersi, almeno una domanda gliela deve fare: «Chi è Alcide?» «Sta parlando della sua maestra, Marisa Alcide.» Nina si è intromessa con la prontezza di spirito che le è propria, inventandosi su due piedi una bufala perfetta. «Per un anno intero a scuola hanno lavorato su un progetto speciale per ricostruire la storia e l'organizzazione della Venezia del Cinquecento. Quindi adesso lei sa tutto.» «Ecco perché nel chiostro dell'ospedale recitavi a memoria l' Opinion di Sabbadino.» Mirtilla lancia un sorriso riconoscente all'amica. La loro favola per ora era salva. E grazie a questo alibi, poteva anche arrischiarsi di raccontare del re, della galea e del banchetto. Anzi, tutti la incoraggiano a continuare. «Era il 1574 quando qui arrivò anche Enrico III di Valois, re di Polonia, appena incoronato re di Francia. In poche ore gli arsenalotti sono riusciti a varare e armare una galea davanti ai suoi occhi increduli. Ma questo è niente rispetto a tutto quello che in città hanno fatto per lui in quei giorni. 60 senatori lo hanno accolto a Marghera sulle loro gondole rivestite di raso. Il corteo ha raggiunto Murano dove a riceverlo c'erano i 60 alabardieri della guardia d'onore, vestiti di seta a spicchi arancione, celeste e turchino. Bei colori, eh?! Il doge Mocenigo in persona è andato a prenderlo per accompagnarlo sulla Galea del Capitano in golfo condotta da 400 rematori schiavoni vestiti di taffettà giallo e blu. Insieme a un codazzo infinito di galee e barche, sono passati per San Nicolò di Lido. Dopo la messa del Patriarca, hanno remato fino al Canal Grande e hanno portato il re a riposare a Palazzo Foscari che per l'occasione era stato adornato di cuori d'oro e stoffe rare. Giorni e giorni di spettacoli, canti e balli. Poi la sontuosa festa finale dove mi sarebbe piaciuto tanto esserci. A Palazzo Ducale, nella sala del Maggior Consiglio, il grande banchetto per tremila invitati. Pensate che hanno costruito apposta una credenza alta fino al soffitto che serviva per far ammirare il vasellame d'oro e d'argento. Ma il bello viene adesso: posate, piatti, pietanze, perfino i tovaglioli erano fatti di zucchero. Alcide», Nina le lancia un'occhiataccia, «ha detto che lo speziale all'insegna della Pigna è stato talmente bravo a confezionare il tutto da ingannare perfino il re che, udite udite, ha cercato di aprire il tovagliolo come se fosse di stoffa. Gli si è sbriciolato tra le dita, con grande sorpresa sua e divertimento degli ospiti.» "Dove avrà mai trovato la maestra tutta 'sta cronaca mondana, che a quei tempi i giornali da parrucchiere non si usavano?" si chiede stizzito lo zio di Pietro alzandosi dalla bitta. Quindi dà le spalle ai bambini, alla darsena, alle Gaggiandre e inizia a camminare parlando da solo: «Si è persa in questi particolari frivoli e magari nemmeno conosce il motivo politico di un'accoglienza tanto trionfale: evitare l'isolamento e recuperare in fretta nuovi alleati dopo la pace di Lepanto e la caduta della Lega Santa». Un soliloquio che i tre bambini ignorano completamente. Sono ancora rapiti dall'idea di quel re sprovveduto, perfino più divertente dell'imperatore della famosa fiaba. Quello che credeva di essere vestito e invece era nudo come un verme. Riescono a frenare la ridarella e a darsi un contegno solo quando sentono l'uomo battere le mani per richiamarli nuovamente all'ordine: «Muovetevi che il sole tra un po' si mangia anche le ore che restano. Direzione: lobo della coda». | << | < | > | >> |Pagina 137«Come abbiamo fatto a scontrarci? Cosa può averci spinto una contro l'altra?» «Magari lo capiamo provando a rifare tutto alla rovescia. Sarà capitato anche a te di trovarti in una stanza senza ricordarti cosa stavi cercando e di aver rifatto al contrario il percorso per rinfrescarti la memoria.» «Ma scherzi? È troppo tardi per tornare all'Arsenale, rifare Barbaria de le Tole e sbucare in campo San Giovanni e Paolo. E poi mica abbiamo perso qualcosa. Piuttosto, ragioniamo punto per punto. Diamoci cinque minuti.» Nina scende dal gradone, si distende per terra, si prende la caviglia destra tra le mani e inizia a tirare la gamba in su per fare arrivare il piede all'orecchio. Mirtilla invece decide di concentrarsi sulle nuvole: interpretare le loro forme la aiuta a capire meglio il senso delle cose. Nina è la prima a dire la sua: «Non so ancora perché ma non riesco a non pensare alla storia dei tre fisici che si sono presi il Nobel due anni fa, la conosco bene perché in quei giorni nessuno parlava d'altro. Noi avevamo appena iniziato la quarta elementare e la nostra maestra ci ha voluto spiegare la faccenda, dicendoci che non si poteva fare finta di niente perché eravamo dentro a un evento di grande importanza, che cambiava il modo di considerare il mondo e l'universo che lo contiene. Vuoi che te lo racconti? Forse potrebbe aiutarci.» «Io non so di cosa stai parlando, so solo che Fortunio mi ha fatto un discorso molto simile a quello della tua maestra raccontandomi di un certo Copernico. Vai avanti.» «Allora questi tre scienziati sono stati i primi a scoprire le onde gravitazionali. Insieme a molti altri colleghi hanno inventato una macchina che capta le onde create nello spazio-tempo dallo spostamento di corpi molto pesanti. Non ti spiego come funziona perché se non lo ho capito io, figurati tu; da voi mi sa che non c'è ancora nemmeno Galileo.» «No, mai sentito.» «Guarda qui cosa dice la tavoletta. "Galileo Galilei, fisico, astronomo, filosofo e matematico italiano, data di nascita 15 febbraio 1564." Per forza non lo conosci, al momento per te è un ragazzo. Non voglio toglierti la sorpresa, ma il 21 agosto del 1609 ricordati di andare in piazza San Marco, precisamente sulla cima del campanile. Lì capirai. E ora torniamo alle onde. La nostra maestra ci ha detto che essere riusciti a vederle significa aver finalmente dimostrato che quello che pensava un altro gran bel personaggio del secolo scorso era vero. Se ho capito giusto, mentre tutti erano convinti che attorno a noi ci fosse il vuoto, questo signor Albert Einstein ha detto che no, che il vuoto non era vuoto ma era lo spazio-tempo. Senti qui cosa ha beccato Siri: "Spazio e tempo sono rimescolati in una marmellata tetradimensionale chiamata spazio-tempo che la materia può stirare e deformare. E la materia in movimento deve seguire le curve spaziotemporali, una geometria segreta che noi conosciamo come gravità. Le onde gravitazionali sono infinitesimali increspature del tessuto dello spazio-tempo che si verificano quando si spostano oggetti dotati di massa".» «Scusa, ma per me tutta questa roba è davvero oscura, non capisco.»
«Anche per noi non era facile, così per aiutarci la maestra ha preso in
Internet un fumetto; una specie di disegno con la spiega che adesso ti mostro.»
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