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| << | < | > | >> |IndiceIntroduzione 7 1. LA PROPRIETÀ TOTALE 11 La seconda accumulazione originaria 13 L'unico e il suo consumo 23 Il donatore e la sua proprietà 29 La fabbrica del vivente 35 Di tutti, di nessuno 51 2. LIBERTÀ ECCEDENTI 61 I pronipoti di Rameau 63 Politica dell'eccedenza 75 L'azienda della formazione 85 La sfida di Condorcet: pubblico contro statale 93 3. NUOVE SERVITÙ 107 Anime salariate 109 I forzati dell'«utilità sociale» 119 Professionisti dell'assurdo 127 II selfmade man di massa 133 INTERMEZZO 139 Il Paese di Cuccagna, un'utopia materialista 4. TEMIBILI PROTEZIONI 145 La solidarietà della paura 147 I diritti della vittima 153 L'ordine pubblico come «variabile indipendente» 159 Congegni della virtù 165 Razzismo e conservazione. Il caso Haider 171 5. GUERRE SENZA RIVOLUZIONE 177 Lontano dal Vietnam (1988) 179 Autodeterminazione del potere 187 Sulla guerra civile planetaria 193 Il paradigma del disertore 211 Moltitudine, popolo, massa 217 |
| << | < | > | >> |Pagina 23L'intera tradizione della filosofìa politica moderna stabilisce un legame forte, quasi indiscutibile, tra l'individuo e la proprietà. A partire da quella proprietà di sé, del proprio corpo e delle sue facoltà (sempre intese come semplice patrimonio personale) che proverrebbe direttamente da Dio, ma i cui contorni restano, ad ogni buon conto, assai variabili nella loro definizione. La stessa ambivalenza insita nel termine proprietà, che designa al tempo stesso il possesso di uomini e di cose, il comando che su di essi si esercita, e le prerogative naturali di una sostanza, (le sue proprietà, appunto), sposta di volta in volta il raggio d'azione derivante dal «possesso di sé». Fino a quel paradosso contemporaneo che estende il diritto proprietario alle proprietà della materia naturale. Max Stirner faceva agire la «proprietà» del suo Unico servendosi spregiudicatamente di questa ambivalenza contro le fallaci promesse del liberalismo borghese, contro un'idea spossessante di libertà, volta a mascherare la rinuncia ad ogni contenuto determinato e contro lo spietato «egoismo» delle istituzioni sovraindividuali: lo stato, un partito, o addirittura l'intera umanità. Quale è l'interesse dell'Umanità? - si chiedeva questo maestro della provocazione ingenua - il proprio - si rispondeva: dunque l'Umanità è egoista. Vista dai tempi delle «guerre umanitarie», la boutade di San Max, come lo chiamava, schernendolo, Marx, assume un aspetto decisamente più inquietante. Nell'enfasi del paradosso, nella superficialità teorica, perfino nell'irruenza retorica da birreria, e nel totale fraintendimento dei rapporti sociali, Stirner coglieva, nel linguaggio della filosofia morale, non solo il grande tema filosofico della trascendenza del potere, ma il problema, assai spinoso, tanto sul piano dell'esperienza storica quanto su quello della riflessione teorica, dell'autonomizzarsi degli apparati, dell'autoreferenzialità dei meccanismi di governo e di controllo, dell'immancabile distacco delle istituzioni e dei sistemi politici dagli individui che li formano e li compongono. Ciò che oggi chiamiamo «crisi della rappresentanza», in Stirner lo troviamo come sua impossibilità a priori. Il superamento degli egoismi individuali non conduceva infatti, nel discorso stirneriano, che al superegoismo di una sorta di superindividuo, che lo si volesse chiamare Stato, Nazione, Socialismo o Umanità, In questione non era solo la sovranità scaturita dalla rinuncia dei singoli a favore di un potere sovraordinato, ma qualsiasi appello a una dimensione sovraindividuale. Nell'ottica di San Max, anche l'interesse di una entità, per così dire extramorale, quale la specie, suonerebbe come una gigantesca truffa. Per l'individuo atomistico, stirnerianamente egoista e strappato a ogni contesto relazionale non restava allora che la vecchia illusione borghese, che non a caso si affacciava per la prima volta sulla scena nella veste di favola (la «favola delle ap» di Bernard de Mandeville) secondo cui il libero gioco degli interessi e degli egoismi individuali avrebbe contribuito, suo malgrado, a un'armonia dell'insieme, suscettibile di progresso e foriera di benessere. Un'utopia potente e desiderabile. | << | < | > | >> |Pagina 75Una premessa. Cosa significa «centralità dell'impresa», la parola d'ordine che da più di vent'anni risuona per ogni dove come l'imperativo categorico dello sviluppo, del benessere e della valorizzazione dei singoli? Ciò che essa designa, oltre a un brutale rapporto di forza, è l'assunzione generale di un modello. Centralità può significare una concentrazione di potere cui tutto il resto è subordinato, pur mantenendo, dovendo anzi mantenere, la sua propria diversità. Il comando è comando, non un modello di comportamento. Non si deve essere come colui che ci comanda, ma semplicemente obbedirgli, l'operaio non deve essere come il padrone, ma eseguire disciplinatamente il compito che gli viene assegnato. La sua «alterità» non è in discussione. Ma centralità può anche significare che il modo di operare di un potere, di un segmento dominante di società, di un comparto produttivo strategico, si impone come razionalità generale, come regola di comportamento, come struttura logica di ogni operare, come forma di pensiero e forma di vita. In questo caso il potere deve essere imitato, ricalcato, introiettato. Noi dobbiamo pensare e agire come il potere che ci governa. Il nostro successo o il nostro fallimento è misurato su questo metro e su nessun altro. Questo si intende quando si invita il lavoratore postfordista a farsi «imprenditore di se stesso», a essere competitivo e capace di adeguamento, a organizzare la totalità della propria vita come «microimpresa». Questo si conferma, quando si definiscono talenti, relazioni, saperi, facoltà dei singoli come «capitale umano», vale a dire come sovrapposizione del soggetto e dell'oggetto dell'accumulazione. Si obbedisce, dunque, imitando, trasformando se stessi in un duplicato subalterno del potere che ci domina. Questi due significati di «centralità» sono diversi, ma non disgiunti. Nel senso che il primo è presupposto del secondo, anche quando, come oggi avviene, quest'ultimo sembra averlo integralmente riassorbito. Cosa distingue quella che una volta fu chiamata la «centralità della fabbrica», da quella che viene oggi definita la «centralità dell'impresa»? Entrambe si propongono infatti di indicare un modello generale di organizzazione della società, un impiego razionale delle risorse, un rapporto ottimale tra sforzo e risultato, un meccanismo garantito di controllo e di sviluppo. Ma mentre la prima seguiva lo schema dell'obbedienza e dell'analogia, per quanto mascherata da «organizzazione scientifica», la seconda diffonde lo schema dell'identificazione o, se si preferisce, dell'interiorizzazione. È una differenza di non poco conto. Comporta infatti il passaggio dalla rigidità della produzione materiale alla flessibilità di quella immateriale e una estensione pressoché illimitata della sfera dello sfruttamento all'insieme delle capacità umane. Secondo il primo schema, quello analogico, si poteva sostenere (e in qualche modo realizzare, come hanno fatto i fascismi e lo stalinismo) che la società dovesse essere organizzata come se fosse una fabbrica, ma , non che potesse essere immediatamente null'altro che una fabbrica. Il secondo schema consente invece di sostenere che la società deve essere, senz'altre mediazioni, un'impresa o, come si dice più frequentemente, un'azienda. L'immediatezza di questa identificazione è stata resa possibile dall'immissione delle più generali facoltà conoscitive, comunicative, relazionali umane, nel processo di produzione della ricchezza ha fatto leva, per così dire, sulla capitalizzazione della soggettività. Il riduzionismo implicito nella vecchia organizzazione manufatturiera escludeva troppi ambiti e troppe potenzialità per consentire una così piena identificazione tra fabbrica e società, sottraeva tempo di lavoro al tempo di vita, evitando, tuttavia, accuratamente di confonderli. Solo la compiuta sovrapposizione tra agire comunicativo e agire strumentale, la nuova qualità «politica» dell'impresa, rende interamente praticabile questo passaggio. L'azienda sussume l'insieme delle qualità sociali nel suo processo di riproduzione e di crescita per riproporsi, a sua volta, come una qualità sociale, anzi come la sintesi razionale di ogni qualità sociale. In concreto, l'identificazione tra azienda e società significa che tutti i sottosistemi che compongono quest'ultima, come piace chiamarli ai sociologi, devono essere trasformati in aziende che rispondano a un criterio di competitivita sul mercato - che ne costituisce, alfine, la qualità sociale unificante, il denominatore comune - e che i singoli devono rapportarsi ad essi come clienti o come fornitori di un'azienda. | << | < | > | >> |Pagina 187Nel celebre dialogo tucidideo dei Meli e degli Ateniesi, vi è un passaggio - la premessa stessa dell'intero dibattito - in cui gli uni, sostenitori delle ragioni della giustizia e del diritto, e gli altri, sostenitori delle ragioni della forza, concordano e applicano una medesima logica e parlano lo stesso linguaggio. Gli Ateniesi, pronti a sferrare l'attacco contro Melo, che rivendica una condizione di leale neutralità nel conflitto tra Atene e Sparta inviano i propri ambasciatori, latori di un ultimatum. Racconta Tucidide: «I governanti di Melo però non li portarono dinanzi al popolo, ma ordinarono loro di parlare dinanzi ai magistrati e agli oligarchi sulle ragioni per cui erano lì». Gli Ateniesi non solo accettano questa condizione ma ne condividono lo spirito e l'intento. In questo frangente, la logica e l'interesse dei contendenti - che nel corso del dibattito divergerà fino all'irrimediabile rottura - sono i medesimi: quelli dei governanti nei confronti dei governati. Nel 701 a.C. gli Assiri assediano Gerusalemme. Eliakim, portavoce degli assediati, così si rivolge al comandante nemico: «Ti prego, parla in aramaico, perché noi intendiamo la tua lingua; ma non ci parlare in lingua giudaica, poiché il popolo, che è sopra le mura, ascolta». L'assiro, diversamente dagli ambasciatori ateniesi, non accetta la richiesta e grida le sue minacce nella lingua degli assediati. Ben intuendo la contraddizione tra la «ragion di stato» e l'interesse particolare dei sudditi insita nella richiesta di riservatezza da parte dell'avversario cerca di farla agire in proprio favore. Non v'è dubbio che la vana resistenza dei Meli, conclusasi nel massacro e nella schiavitù, debba tuttavia collocarsi nella storia dell'autodeterminazione dei popoli. E il modo in cui venne decisa la dice lunga sulle insidie di questo principio.
La storia dell'autodeterminazione dei popoli si sovrappone e si confonde con
la storia della «ragion di stato» nell'interpretazione indiscussa dei ceti
dominanti. È infatti l'autoconservazione dello stato o la sua fondazione a
costituire l'oggetto e il soggetto di questa autodeterminazione, l'esito
obbligato della scelta. Una scelta che è sottratta necessariamente al giudizio
dei singoli, i quali,una volta giunti al bivio tra pace e guerra, devono essere
ormai interamente annullati nell'unità della nazione, riassorbiti senza residui
nella trascendenza della patria. La scelta tra la pace e la guerra è prerogativa
intrasferibile dei governi al riparo di qualsiasi pronunciamento della sfera
pubblica, è la prerogativa più classica della sovranità, protetta, quanto
all'esame delle ragioni che la determinano, dal segreto. Il linguaggio della
sovranità non può essere inteso e, proprio per questo, deve essere
necessariamente obbedito.
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