Copertina
Autore Marc Batard
Titolo La via d'uscita
SottotitoloConfessioni intime di un alpinista estremo
EdizioneVivalda, Torino, 2007, I Licheni 84 , pag. 214, ill., cop.fle., dim. 12,5x20x1,6 cm , Isbn 978-88-7480-107-7
OriginaleLa sortie des cimes
EdizioneGlénat, Grenoble, 2003
PrefazioneGianni Vattimo
TraduttoreGabriella Bosco, Paolo Brunati
LettoreLuca Vita, 2008
Classe montagna
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Pagina 15

PROLOGO



Θ notte, ma il cielo è limpido. Farà bello. Attaccheremo la cima oggi o mai più. Dovevano essere circa le due del mattino quando abbiamo lasciato il campo 2, io, la mia cliente e gli sherpa Ang Phurba e Tharke. Procedo in testa, senza zaino, per battere la traccia. Il pendio è dolce, senza alcun pericolo. Camminiamo in fila indiana, slegati. Sprofondo fino a metà coscia nella neve, ma è farinosa, e poi conosco la strada. Sono già stato qui dieci anni fa. Ang Phurba mi segue coni viveri e le bevande. Poi viene Tharke. Porta un grosso sacco dove la cliente, che chiude la fila, ha stivato le sue bombole d'ossigeno.

Per lei è facile: niente carico, la traccia bell'e fatta da me e dagli sherpa. Ciò non le impedisce di lamentarsi e di recriminare: questo non va, quell'altro nemmeno. La conosco bene: una che non è mai contenta, una che crede di avere sempre ragione. Θ qui per scalare il Cho Oyu, una tra le più alte e belle vette dell'Himalaya. L'anno scorso l'ho portata sul Shisha Pangma, in Tibet, 8000 metri di quota e un mucchio di problemi. Avevo giurato di non cascarci mai più, ma fare la guida è il mio mestiere. Devo guadagnarmi da vivere, per me e per i miei figli. E rieccomi qui...

Non si sente altro che il silenzio. Magnifico. E la neve che scricchiola sotto i piedi. E il nostro ansimare (a 7500 metri ogni passo è di per sè un'impresa). Amo profondamente questo tempo fuori dal tempo. Sulla Terra, sì, ma lontanissimo dalla gente, dove tutto sembra sospeso, dimenticato, altrove. Mi piace non aver da pensare che alla cima che mi attende e al modo in cui riuscirò a conquistarla.


Non c'è luna. Ci illumina soltanto la luce blu della notte. Riflessa dalla neve, dà quell'impressione di irrealtà e di incertezza che conosco bene e di cui ho imparato a diffidare. Finché non è giorno fatto, valutare distanze, grandezze e difficoltà è una scommessa, ma è un azzardo che amo: dopo trent'anni di alpinismo sono in grado di procedere comunque, e senza correre troppi rischi.

Arriviamo davanti alla prima barra di rocce, nere e impressionanti. Bisogna aggirarla a destra fino a trovare il passaggio. La cliente pretende un'ennesima sosta. Giusto il tempo per qualche lunga boccata d'ossigeno dalle bombole che porta Tharke. Devo essere drastico.

«Visto che hai bisogno d'ossigeno, portati le bombole da sola. Non ci possiamo permettere di fermarci ogni dieci minuti per aprire il sacco.»

«No, no. Tutto a posto. Continuiamo così.»

Ormai la conosco. Oltre a essere una rompiscatole patentata, è un'imbrogliona. Vuole arrivare in vetta "senza ossigeno" per stabilire un primato. E crede che basti non essersi caricati le bombole sulle spalle perché "sia valido". Stessa storia l'anno scorso. Si fa portare l'ossigeno dagli sherpa e quand'è senza fiato va a tirare lunghe boccate. I suoi trucchetti mi lascerebbero del tutto indifferente — so ormai da un pezzo che il microcosmo della montagna è molto meno affascinante visto dal di dentro che dal di fuori — non fosse che ci ritardano notevolmente. Dobbiamo procedere a tutti i costi se vogliamo essere in vetta e tornare al campo base prima del buio.

«Adesso prendi su la bombola senza fare storie. Ti garantisco che non lo verrà a sapere nessuno, se è questo che ti preoccupa.»

«Non c'è niente che mi preoccupi. Semplicemente non ho bisogno dell'ossigeno, e basta!»

«Benissimo. Allora si torna indietro. Subito.»

Con lei non vale la pena perdere tempo. Il solo modo di spuntarla è di andare giù a muso duro. Faccio dietro front.

«Marc, sei proprio una merda. E va bene, porterò 'ste bombole. Ma non perché ne abbia bisogno. Soltanto perché mi costringi.»

«OK, sarà la versione ufficiale.»

Quando usciamo dalla parete è l'alba. La luce lambisce ogni rilievo. Θ d'una bellezza straordinaria. Superato il baluardo roccioso, prendo a sinistra un pendio un po' più sostenuto per avvicinarmi a un secondo muro, anch'esso da superare. Decido di fare una sosta per bere un po' di tè, sgranocchiare due o tre barrette energetiche e guardare il Tibet che si estende a perdita d'occhio nei lucori rossastri dell'alba. Θ uno spettacolo di tale grandiosità che ogni volta lascia sconvolti. Indescrivibile.


Ho incominciato ad arrampicare a diciott'anni, e m'interessava solo il record: andare più veloce, andare meglio, con più facilità degli altri. Una prima ascensione dopo l'altra. Il corpo mi dimostrava che avevo la capacità straordinaria di resistere al freddo, alla quota e alla fatica più di quasi tutti i miei simili. La montagna mi affascinava. Era l'ambiente magico dove finalmente potermi distinguere, uscire dal gregge, essere qualcuno e non semplicemente il piccolo Batard con le orecchie a sventola che a scuola, durante la ricreazione, tutti prendevano in giro. Prestissimo, la bellezza di quei momenti che il mio fisico riusciva a sottrarre allo sforzo mi ha conquistato come un dono prezioso, un risarcimento. Osservare il mondo dall'alto, senza i suoi rumori, le sue divisioni, sotto luci inverosimili... Ricordo di aver visto centinaia di albe e di crepuscoli senza mai riconoscervi gli stessi blu, gli stessi arancione e ori fiammeggianti, le sfumature malva, i verdi, i gialli pazzeschi. Sono sicuro che un giorno, quando non arrampicherò più, la mia pittura si nutrirà di quei colori, quelle trasparenze, quelle luci. So che quando smetterò d'essere alpinista sarò pittore.


Adesso però ci aspetta il Cho Oyu. Prima di rimettermi in marcia valuto attentamente, al chiarore dell'alba, la strada che ci resta da fare. Il tempo è bello, secco, non troppo freddo – soltanto -15 °C – niente vento. Unica preoccupazione, quei lastroni di neve ventata che si incominciano a intravedere un po' più su: sono formati da uno strato di neve farinosa che il vento accumula (ecco il perché del nome) su una base di neve compatta. Se diventa instabile, il lastrone incomincia a scivolar giù e può trasformarsi in valanga. In montagna è un fenomeno classico e ben noto. Non ci sono molti modi di affrontare il problema: o si aggira la placca, ma nel caso specifico è impossibile perché non riesco neanche a determinarne il perimetro; oppure la si tenta camminandoci sopra con circospezione; altrimenti si giudica che è troppo pericoloso e si lascia perdere.

Penso a Yves Pollet-Villard, montanaro prudente e stimato, già sindaco di La Clusaz. Pollet-Villard fu tra i miei insegnanti alla scuola guide di Chamonix. Diceva sempre: «Non fidatevi mai della neve. In montagna è la cosa più pericolosa che ci sia». Dopo una vita da guida, venne preso da una valanga da cui uscì miracolosamente incolume. Quindici giorni dopo, un'altra valanga se lo portò via...


Certo, non c'è mai da giurarci, ma parrebbe abbordabile. Dieci anni fa, eravamo passati di qui senza problemi benché le condizioni fossero ben più delicate. Comunque, preferisco assicurare chi mi segue. Così passo in testa con Ang Phurba, cui mi lego. Chiedo a Tharke di legarsi a sua volta con la cliente e di seguire a una distanza di almeno cinquanta metri. Se mai il lastrone dovesse partire, con un po' di fortuna non dovremmo essere spazzati via. E se per disgrazia lo fossimo, le corde permetterebbero di ritrovarci più facilmente.

La salita diventa un po' più dura, ma ancora si ragiona. Blu intenso del cielo, bianco abbagliante e il bruciore dell'aria a ogni respiro. Malgrado tutto, sono contento d'essere qui. Penso agli sconvolgimenti che attendono la mia vita; al mio progetto di spedizione al Polo Nord, che dopo tre viaggi preparatori ho deciso di sacrificare per consacrarmi ad altri Everest, più interiori. Penso ai miei figli, Cathy, Alan e Sonam che già mi mancano, che mi mancano ancora, che mi mancano sempre. Penso al mio compagno, Yves, che mi aspetta a Ginevra. Ricordo la mia prima salita al Cho Oyu per questa stessa via, un po' più a destra della normale. Era il 1988. Ero solo con un mio amico, lo sherpa Sundare, poi suicida, distrutto dall'alcol, nel torrente del suo villaggio. C'era molta più neve, si sprofondava fino all'ombelico. Avevamo rischiato di mancare la cima, mezzo perduti nella nebbia con un altimetro tarato male che segnava 8000 metri invece di 8200. Per fortuna una schiarita provvidenziale ci rivelò la verità: eravamo certi di trovarci soltanto sul mammellone che precede la vetta e invece eravamo arrivati!

Oggi neanche la minima bruma. Se la cliente si degna di essere ragionevole, l'ascensione sarà bella e senza problemi. Sono quasi ai piedi della seconda parete. Siamo andati spediti alternandoci, Ang Phurba e io. Tharke e la cliente seguono la traccia, lontani cinquanta metri, come avevo detto loro di fare.


Θ un rumore quasi impercettibile, un soffio leggero e furtivo. Θ incominciato quando Ang Phurba mi ha raggiunto e stava per darmi il cambio. Ho riconosciuto immediatamente il gemito caratteristico di quando un lastrone ventato sta per muoversi. Θ prodotto dall'aria che sfiata dall'intercapedine formatasi tra i due strati di neve. L'ho udito spesso. Con un po' di fortuna, non succede niente. Le due superfici rimangono aderenti. Ma adesso, in una frazione di secondo, vedo la neve davanti a me gonfiarsi e incominciare a muoversi. Come un'onda che corre verso di noi. Un'onda enorme che sta per travolgerci e farci piroettare al di là delle rocce che abbiamo appena superato. Magnifico trampolino per l'aldilà. Ci involeremo nella valanga e tutto sarà finito...

Finito. Prima di partire avevo detto ai miei figli che stavolta non avrei corso alcun rischio perché il Cho Oyu l'avevo già fatto. Penseranno che ho raccontato loro una bugia.

C'è neve dappertutto. Sopra, sotto, di fianco, in bocca, nel naso. Come se fossi tra le onde dell'Atlantico, lotto con tutte le mie forze per stare a galla. Non so più dove sono, se in piedi o a testa in giù, se morto o vivo. La valanga sembra non finire più. Se esco vivo di qui, cambio vita. Se esco vivo di qui, non arrampico mai più. Smetto di mentire, di mentirmi. Smetto di cercare in cima a stupide montagne una verità che sfioro da mesi, da anni, senza osare affrontarla. Non è vero! Non morirò qui, per una pazza che vuole aggiungere una vetta al suo curriculum. Se me la cavo, basta. Basta con la paura. Basta con le menzogne. Basta far finta. Basta questa vita insensata. Finito.

Tutto è immobile. Un silenzio assoluto che dura un istante brevissimo, ed ecco che sento Ang Phurba agitarmisi contro, la corda stringermi le gambe nelle sue spire. Vedo la luce filtrare attraverso la neve. In due bracciate, entrambi ci ritroviamo fuori. Ci guardiamo. Siamo vivi. La placca ci ha trascinati giù per un centinaio di metri, ma ha avuto il buon gusto di fermarsi prima del salto finale. Muovo braccia e gambe, nulla di rotto. Ho soltanto perduto la piccozza, gli occhiali e il fiato a forza di agitarmi per rimanere a galla come uno che sta per annegare. Anche Ang Phurba sembra illeso. Siamo vivi. VIVI!

«Beh, allora cosa facciamo?»

Ha l'aria esasperata dei giorni no. Mentre la guardo avvicinarsi, legata dietro Tharke, cerco di elaborare in tutta fretta un piano d'emergenza. Senza dubbio vorrà continuare a ogni costo. Il mestiere di guida implica dei rischi che non sempre vengono dalla montagna. A volte vengono dal cliente. Il cliente che esige. Che paga. Il cliente che induce a continuare, semplicemente perché è meno complicato andare avanti che rifiutarsi di farlo.

Era così contenta di aprire la via per tutti quelli in attesa al campo base. Una via speciale, un po' più tecnica di quella precedente, una via che sarebbe diventata la via dell'anno ora che l'avevamo tracciata... E non con uno qualunque: la signora può permettersi Marc Batard, il "velocista dell'Everest", un divo della montagna.

Bisogna giocare d'astuzia perché accetti di tornare al campo base senza aver scalato quella cima fottuta. Evitare soprattutto di dire che ho deciso di rinunciare e che non sarò mai più la sua guida in nessun posto. Procedere per gradi.

«Per oggi basta. Si torna al campo 2.»

«Che cosa? Ridiscendere? E perché mai? State bene, fa bello. Ci riposiamo un po', tanto per riprendere fiato, e ripartiamo.»

«Decido io. Torniamo al campo 2 e non si discute.»

Siamo ridiscesi al campo 2. E poi al campo base. In seguito ha fatto il Cho Oyu senza di me. Ma è un'altra storia, non più la mia.


*



Per quanto mi riguarda, sono andato a Katmandu e poi sono ritornato in Francia. Avevo smesso di arrampicare. Per sempre. Finalmente avevo trovato la mia strada. Dopo trent'anni di alpinismo, dopo centinaia di cime, di paure senza nome, di vittorie senza parole, di rischi senza ragione, finalmente sapevo chi ero. Marc Batard, quarantasette anni, padre di tre splendidi figli, già nonno di due nipotini, Warren e Naomi. E omosessuale da sempre. Senza saperlo, senza vederlo, senza volerlo, senza ammetterlo. Fino a quando quella placca ventata del Cho Oyu ha rischiato di spedirmi troppo lontano dalla vita per poterne approfittare.

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Spesso anch'io ho avuto paura. A dire il vero non ho mai smesso di avere paura durante tutti i miei trent'anni di montagna. Paura al punto di aver rinunciato dozzine di volte, ai piedi di una parete, senza una ragione, con tempo splendido e in piena forma fisica. Paura al punto di vomitare, di non mangiare, di fuggire per non affrontare quelle cime che tuttavia finivo per scalare. Di solito gli alpinisti parlano soltanto della gioia della vittoria, della bellezza delle vette, delle difficoltà tecniche della prova. Ma credo che della montagna non si debba dimenticare il lato oscuro. La morte, i morti. A centinaia. A migliaia. Le dita e le cornee congelate, gli alluci perduti, le membra senza vita, le famiglie spezzate, i corpi dispersi, le assenze eterne. I lutti, i dolori. E la paura.

Sono sicuro che tutti gli atleti d'alto livello abbiano uno strano rapporto con la morte. Spingono il loro fisico tanto oltre i limiti che spesso la sfiorano, consciamente o inconsciamente che sia. Lo sport a dosi massicce non sempre fa bene alla salute. A volte rappresenta una forma nascosta o palese di suicidio. Avrei potuto suicidarmi a quindici armi, nei Pirenei, quando percorrevo in un giorno ottanta chilometri di strade di montagna, sotto un sole a picco, perché quello era uno sforzo eccessivo per un ragazzino. E anche perché sicuramente quel ragazzino di quindici anni si sentiva smarrito e legami troppo deboli lo tenevano attaccato alla vita.

Avrei potuto uccidermi molte altre volte, e non precipitando o beccandomi un sasso sulla testa — questi sono i cosiddetti rischi oggettivi, prevedibili, presenti in qualsiasi sport: un ciclista può morire per una caduta, un corridore d'auto per un guasto meccanico. Voglio alludere invece a tutte quelle altre volte in cui la mia vita è rimasta appesa a un filo e conservarla o meno non è dipeso che da me. Ridiscendere perché fa troppo freddo e perché si è sfiniti quando non mancano che cinquanta metri alla vetta. Accettare il rischio di camminare su un lastrone ventato quando sai perfettamente che può staccarsi e trascinare via tutto. Passare con il cuore in gola sotto una seraccata e, talora, anche correre su una vecchia valanga di seracchi cercando di non pensare a quelli che sono sepolti lì sotto e aspettano d'essere trovati da soccorritori coraggiosi.

Per trent'anni ho flirtato con quella morte, con quella paura, così come si accarezza la canna di una pistola sapendo benissimo che può farti saltare le cervella. Sono forse il solo a dire queste cose — e ho impiegato più di trent'anni per capire e riuscire a trovare le parole — ma so di non essere il solo a viverle. Se spesso sono salito in alto pur sapendo che avrei potuto cadere è perché la vita in basso era troppo difficile.

Ho a lungo creduto che fosse la terribile ferita infertami da mio zio a spingermi verso questa vertigine. Ma oggi so che là in alto — tanto in alto! — volevo sfuggire al vero me stesso. Il giorno in cui me ne sono reso conto ho smesso di arrampicare. Ma quanti ancora non l'hanno compreso?

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Θ stata un'impresa infernale. Il mio amico Sundare non poteva venire con me: le scalate del Pumori e del Dhaulagiri l'avevano rimesso in sesto così bene che si trovava sull'Everest con una spedizione nepalo-cino-giapponese. Così ho reclutato gli sherpa Imam Gurung e Onggel, due formidabili professionisti che mi hanno accompagnato fino al campo 2, annidato in una grotta di ghiaccio e di neve a 7350 metri di quota. Con il loro aiuto, e sostenuto dall'amicizia che non ha tardato a unirci, ho impiegato diciotto giorni per attrezzare il pilastro ovest. E poi, al momento dell'assalto finale, ho temuto che il meteo non m'avrebbe mai regalato la schiarita indispensabile per arrivare al termine delle mie tribolazioni. In seguito a un anomalo e inspiegabile aumento della temperatura, si è messo a nevicare, cosa che ha reso pericolosa la parete per più giorni. Ho dovuto aspettare, aspettare, aspettare...

Essere costretto ad attendere è una delle prove peg- giori per un alpinista. Si ripete all'infinito: attendere di avere soldi sufficienti per partire, attendere l'autorizzazione ufficiale per l'avvicinamento al campo base, attendere d'essersi acclimatati per iniziare la scalata, attendere che il tempo migliori per poter continuare, attendere notizie di compagni di cui non si sa più nulla, e pure, una volta riportata vittoria, attendere riconoscimenti dal mondo esterno, il che permetterà forse di trovare uno sponsor per ripartire un'altra volta...

Siccome sono impaziente, irrequieto e frenetico, tutti quei tempi morti trascorsi in solitudine ai campi alti sono per me un vero supplizio. Tergiverso, rimugino. Analizzo l'assurdità dell'impresa. Sento tremendamente la mancanza dei miei figli. Immagino di scendere di corsa, saltare sul primo aereo e stringerli tra le braccia.

Mi scoraggio, mi chiedo cosa mi spinga a patire il freddo, l'umidità, la solitudine quando conosco tante case accoglienti. Penso a Mireille e alla nostra storia che è finita. Mi chiedo dove mi porti tutto ciò, e perché. L'ombra di mio zio è sempre nei dintorni, anche così in alto, anche dopo tanto tempo.

Faccio pure due conti, e le singole voci segnano la mia angoscia di solchi profondi che non so come colmare. Se tirassi al massimo la cinghia, spigolando materiale e cibo lasciati sul posto (in quota il freddo conserva per decenni qualsiasi avanzo commestibile) dalle spedizioni che mi hanno preceduto, e riducessi il più possibile la durata e la logistica delle scalate, mi troverei comunque in cattive acque. Per rientrare delle spese dovrei cercare di vendere le foto a un prezzo stratosferico. L'alpinismo è uno sport per ricchi, gente di cui non possiedo i mezzi. Dovrei piegarmi alle leggi del mercato. Andare incontro alle esigenze di uno sponsor. Dovrei imparare a fingere, a dire quello che la gente vuole sentirsi dire. A tenere la collera a freno.

Oppure dovrei smetterla con tutto ciò. Dovrei concentrarmi su quello che ho combinato di buono negli ultimi dieci anni: ho vissuto una bella vita da guida d'alta montagna, basata esclusivamente sulle ascensioni, talvolta estreme ma sempre retribuite. Dovrei, dovrei, dovrei... ma non posso. Non voglio. Il mio mondo è lassù, più su. E quando tornerà il freddo affronterò la cima di questo colossale Makalu. Da solo. Come non è mai stato fatto da nessuno.


Martedì 28 aprile 1988, alle otto di sera, nel vento e — finalmente — nel freddo, lascio il campo base e incomincio la salita. Alle quattro del mattino la lampada frontale mi si spegne e la luna mi abbandona. Fino all'alba arrampico nell'oscurità.

Mercoledì 29 aprile 1988, dopo diciotto ore di scalata, arrivo in vetta al pilastro ovest, in solitaria. Ho impiegato tre ore e tre quarti in meno di quelle che erano le mie previsioni più ottimistiche.

Θ la prima volta che un uomo si trova da solo su questa cima, e quell'uomo sono io. Non ho tempo per stare lì a pensarci, né di gustarmi la vittoria. Mi aspetta una lunga discesa. Tecnicamente è facile, ma sono sfinito e ostacolato dal vento che arriva dal Tibet e che soffia in direzione contraria.

Sono ossessionato dalla paura di perdermi nell'immensità di questa montagna. E se non ritrovassi la strada? E se la via normale non fosse stata attrezzata, come spero, da spedizioni precedenti? E se non ce la facessi più, con questo vento orribile che non mi dà tregua?

Mi occorrono circa ventiquattr'ore per ritrovarmi al campo base fra i miei compagni. Festeggiamo la mia vittoria, di cui io non mi rendo del tutto conto. Tre giorni dopo sono a Katmandu e salto su un aereo per tornarmene a casa, ancora stordito dal risultato conseguito.

Da soli si va più in fretta. Ho concluso questa ascensione in cinque settimane, tutto compreso, quando l'ultima spedizione americana, nel 1980, aveva impiegato più di due mesi...


Al ritorno mi aspetta un piccolo miracolo! Senza ch'io avessi chiesto niente, la Fédération Franηaise de la Montagne mi accorda una sovvenzione. E un'agenzia acquista le mie foto! Le due somme, messe insieme, coprono tutte le spese che ho sostenuto per il Makalu. Sarà l'ultima volta che una spedizione non mi costerà nulla.

Ecco, avevo trovato il filone giusto: siccome non sarei mai stato l'uomo dei quattordici ottomila — Reinhold Messner sembrava essere bene incamminato per riuscirvi —, avrei dato nuove motivazioni all'alpinismo himalayano. Renderlo più leggero e rapido, aereo, audace, solitario. Avevo avuto il Makalu. Adesso mi ci voleva l'Everest. L'Everest come non l'aveva mai salito nessuno. Per esempio da solo e senza ossigeno. E in meno di ventiquattr'ore.

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Sono solo, qui in cima all'Everest, e mi sto scavando una tana alla quota delle rotte di crociera degli aerei! Sono l'unico uomo al mondo, l'unico nell'intero universo, mi trovo in mezzo al cielo, ancorato alla Terra per un soffio. Una folata più forte delle altre e volo via. Avrò tutta la notte per pensarci.

Per prima cosa devo mettermi al caldo nel mio piumino e riprendere contatto con gli "altri", gli umani, coloro che stanno in basso. Grazie alla radio potrò rassicurare quelli del campo base e — miracolo! —, se l'etere collabora, far giungere due parole in Francia.

Mi tolgo i guanti, ed è il panico. Ho le estremità delle dita tutte bianche. Vuol dire che le prime falangi stanno congelando, che il sangue non vi circola più, che il gelo se ne sta impadronendo.

So che se resto qui perderò le dita. Certamente anche il naso. E forse molto di più. Quando il freddo incomincia a guadagnare terreno è difficile fermarlo. Ma, in fin dei conti, perché non addormentarsi in punta all'Everest e lasciare che la vita decida per conto suo?

Ma so anche che se me ne vado perderò la scommessa, sfumeranno il mio sogno — che è così a portata di mano — e la fama di primo uomo — il solo? — ad avere avuto il fegato di bivaccare in cima al mondo.


Andare? Restare? Restare o andare?...

Andare. ANDARE!


Andare, senza ombra di dubbio. Ci sono i miei figli, laggiù. E la vita. Non è qui, la vita. Θ in basso.

Non devo piangere — le lacrime gelano —, né pensare, ma puramente e semplicemente scendere. Lasciare alle cime i miei sogni di gloria — che se li tengano. Scendere di notte, sotto la luna. Concentrarmi sulla linea di cresta, seguirla. E non permettere che quel vento porco mi porti via, mi faccia piroettare due o tremila metri sotto. Non scivolare. Non cadere. Dimenticare quell'altra volta. Qui. Dove ho rinunciato quand'ero a due passi dalla vetta. Dimenticare le collere, i dispiaceri, i debiti, le liti, gli zii malvagi e tutti i fantasmi che mi sussurrano di rimanere, di lasciarmi portar via, una buona volta...

No. Devo lottare ancora, trovare la forza di diventare leggero leggero e veloce per tornare il più presto possibile nel bozzolo caldo che mi salverà le dita, il naso, la vita.

Rinunciare per non morire.

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