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| << | < | > | >> |IndiceAlberto Prunetti. Traccia di viaggio 3 Tappa n. 1 Brest Cesare Battisti. Fuga e routine 7 Tappa n. 2 Brest-Montmartre-Tahiti Jack London. Ernest Darling, l'Uomo di Natura 15 Tappa n. 3 Bretagna-Ucraina-Germania Bruno Traven. Senza carta di identità 33 Tappa n. 4 Dorset-Caraibi Daniel Defoe. L'avventurosa storia di Mary Read, donna corsaro 53 Tappa n. 5 Italia-Francia Cesare Battisti. L'odore del basilico 62 Tappa n. 6 Brasile-Virginia Benjamin Péret. I fuggitivi di Palmares 120 Hakim Bey. La maschera di Calibano 126 Roul Vaneigem. Begardi e beghine erranti 131 Tappa n. 7 Glasgow-Parigi-New York Alexander Trocchi. Verme solitario 135 Tappa n. 8 Dorset, UK Arthur Cravan. A Mina Loi 142 Tappa n. 9 Terra incognita Robert L. Kelly. Sedentism 147 Jacques Camatte. Farsi sedentari. Appunti sull'origine del processo 150 Tappa n. 10 Paris-Ys Cesare Battisti. Parigi 153 Appendice I. Le Cargo sédimentaire 170 Appendice II. Il taccuino di viaggio 172 |
| << | < | > | >> |Pagina 3"Pertanto l'intera cerchia dei viaggiatori può essere ridotta alle seguenti classi: Viaggiatori oziosi Viaggiatori curiosi Viaggiatori bugiardi Viaggiatori orgogliosi Viaggiatori vanitosi Viaggiatori splenetici Di seguito i viaggiatori per necessità: Il Viaggiatore delinquente e fellone Il Viaggiatore sfortunato e innocente Il Viaggiatore semplice Infine — se me lo permettete: Il Viaggiatore sentimentale ovverosia me stesso, che dopo aver viaggiato, me ne sto seduto a darvi un resoconto di viaggio — viaggio fatto di necessità e di besoin de Voyager, quanto ogni altro di questa classe". Laurence Sterne, A Sentimental journey through France and Italy Prendiamo pure per buona la classificazione dei viaggiatori di Sterne. L'autore del Viaggio sentimentale era probabilmente consapevole che non si può fare un catalogo ragionato delle emozioni con troppa serietà. Un catalogo dei viaggiatori è un capriccio, un hobby horse, una preoccupazione maniacale e umoristica, ma nondimeno necessaria. Proprio come l'idea ispiratrice di questa antologia, che si alimenta del rapporto tra viaggio e necessità. Il viaggiatore sotto l'impulso della necessità è sempre un fuggitivo. Non importa se fugge un mandato di cattura o qualche fantasma interiore. Che sia delinquente o innocente, fellone o sfortunato, il fuggitivo vive d'una vita che non conosce le secche della noia, le «sabbie immobili» dell'abitudine e della routine. È quindi ai temperamenti fuggitivi che si rivolge questa antologia, pensata semplicemente come un almanacco da leggere in corsa, aspettando la coincidenza di un treno o un passaggio da un automobilista in vena d'altruismo. Alcune pagine sono considerate Travel Literature ormai consolidata, altre sono inedite in italiano, come quelle di Cesare Battisti. I contributi sono molto eterogenei e la rosa degli autori poteva estendersi all'infinito. Ho selezionato solo alcuni dei nomi che mi hanno accompagnato nella mia personale erranza di lettore degli ultimi mesi. Considero questa antologia come un vero e proprio companion, nel senso inglese: un manuale, ma anche un vademecum, qualcosa che si muove con me, mi accompagna come un partner di viaggio. I contributi più consistenti affiancano Cesare Battisti a Bruno Traven — un altro scrittore in fuga — e Daniel Defoe a Jack London. Oltre a questi passi narrativi, propongo una sezione di brevi citazioni, estratte da materiali svariati: lettere, diari, annotazioni. La selezione continua con qualche brano di saggistica: il tema della fuga si lega alla necessità di vivere in viaggio, alimentando un sapere ecologico e una pulsione egalitaria che noi uomini civili, uomini abitanti in città, abbiamo dimenticato. Sto parlando di quei viaggiatori esistenziali che erano — e in parte sono — i raccoglitori-cacciatori, i forager, gli umani che vivevano in uno stato di mobilità permanente. Una breve citazione sulla mobilità dei forager si ricollega a un brano su una comunità di schiavi in fuga (un quilombo) e a un passo su alcuni coloni che si trasformarono in raccoglitori-cacciatori all'alba della storia coloniale americana. Infine l'ultima sezione del companion si intende come taccuino di viaggio: viaggio e scrittura creano una relazione magnetica. Evanescente il viaggio, sedimentaria la scrittura: eppure la relazione che instaurano è tale che forse a volte vale la pena sedersi ai bordi della strada e sprecare un po' di inchiostro. Magari solo per non farne mai nulla, bruciare parole, bruciare chilometri. Alberto Prunetti | << | < | > | >> |Pagina 53TAPPA N. 4DORSET-CARAIBI Daniel Defoe
L'avventurosa storia di Mary Read, donna corsaro
Ho viaggiato tra le due sponde della Manica, tra il Dorset e la costa
d'Armor. Era uno degli itinerari dei pirati e degli smugglers, i contrabbandieri
che della pirateria facevano la continuazione del mercato con altri mezzi. Eroi
del liberalismo a tutti i costi o avventurieri romantici? Non so, di certo
quello che li rende così affascinanti è proprio il fatto che non avevano messo
su bottega. Che insomma, erano erranti, incapaci di vivere e morire a terra.
Ecco un'altra proposta di lettura, la storia di una donna corsaro, dalla penna
del capitano Charles Johnson, meglio noto come Daniel Defoe.
Mary Read nacque in Inghilterra, sua madre si sposò ancora giovane a un uomo di mare che partì in viaggio subito dopo il loro matrimonio, lasciandola incinta di un figlio che doveva essere un maschio. Quanto al marito, che avesse fatto naufragio o fosse morto durante il viaggio, Mary Read non era in grado di dirlo; ad ogni modo non fece mai più ritorno. Alla madre, giovane e spensierata, capitò un inconveniente che tocca spesso alle donne giovani che non prendono troppe precauzioni; ovverosia si ritrovò di nuovo incinta, senza un marito che facesse da padre, ma in che modo e di chi, lei soltanto – che godeva di buona reputazione nel vicinato – potrebbe dirlo. Vedendo crescere il proprio ventre, al fine di occultare la vergogna, si congedò dai parenti del marito dichiarando di andare a vivere in campagna con alcuni amici. Così se ne andò e portò via con sé il suo giovane figlio, che a quel tempo non aveva ancora un anno. Poco dopo quel bambino morì, ma piacque alla provvidenza di darle in cambio una femmina, che fu data felicemente alla luce nel suo rifugio, e questa era la nostra Mary Read. La madre visse qui tre o quattro anni, finché il denaro che aveva non fu prossimo a finire; allora pensò di ritornare a Londra, considerando che la madre di suo marito si trovava in buone circostanze economiche, sicura di poterla persuadere a provvedere al mantenimento del bambino, se fosse riuscita a spacciarglielo come nipote. Ma trasformare una bambina in un maschietto non era lavoro da poco, e ingannare una donna vecchia ed esperta su un tal punto era quasi impossibile. Tuttavia si azzardò a travestirla da ragazzo, portarla in città e presentarla alla suocera come fosse il figlio di suo marito; la vecchia donna avrebbe voluto prenderlo per poterlo allevare, ma la madre finse che il suo cuore non avrebbe retto la separazione. Si accordarono pertanto che il bambino sarebbe vissuto con la madre e l'ipotetica nonna avrebbe concesso una corona alla settimana per il suo mantenimento. Così la madre l'ebbe vinta, crebbe la figlia come fosse un maschio e quando fu capace di intendere ritenne conveniente metterla a parte del segreto della sua nascita, per indurla a dissimulare il proprio sesso. Con la morte della nonna vennero meno da parte sua i mezzi di sussistenza, e si ritrovarono in una situazione economica sempre più grave; per la qual cosa fu obbligata a mettere fuori casa la figlia e mandarla a servizio come valletto di una signora francese, dato che aveva ormai tredici anni. Qui non stette molto, poiché, avendo una natura audace e forte e uno spirito errante, si arruolò a bordo di una nave da guerra, dove prestò servizio per un po' di tempo, poi abbandonò l'incarico, passò nelle Fiandre e portò armi con il grado di cadetto in un reggimento di fanteria. E benché si comportasse con grande audacia in ogni combattimento, non venne mai nominata ufficiale, titolo che generalmente viene acquistato col denaro; pertanto abbandonò quel servizio e passò in un reggimento di cavalleria. Si comportò così bene in alcuni scontri da meritarsi la stima di tutti i suoi ufficiali ma accadde che si innamorò di un suo compagno, un giovane fiammingo di bell'aspetto, e da quel momento divenne un po' più negligente nei suoi doveri, dato che non si può servire Venere e Marte nello stesso tempo: le sue armi e il suo equipaggiamento, sempre tenuti in bell'ordine, apparvero piuttosto trasandati. È vero che quando il suo compagno veniva mandato di pattuglia, lei si aggregava al suo gruppo senza che le fosse ordinato, e molto spesso mise in pericolo la propria esistenza, senza motivo, solo per essergli vicina. Gli altri cavalieri, non immaginando la ragione segreta di queste azioni, pensavano fosse impazzita, e il suo stesso amato non si spiegava il suo strano mutamento di carattere; ma l'amore è pieno di ingegno, e mentre si riposavano – sempre insieme – nella stessa tenda, lei trovò la maniera per lasciargli scoprire il suo vero sesso in un modo che non apparisse intenzionale. | << | < | > | >> |Pagina 62TAPPA N. 5ITALIA-FRANGIA Cesare Battisti
L'odore del basilico
La prigione è il luogo dove le società tentano invano di rimuovere e
nascondere il loro fallimento. Cesare Battisti è stato condannato al silenzio,
all'invisibilità e all'immobilità. Non c'è stato. È scappato per poter
continuare a parlare, a muoversi, e fare risplendere le proprie idee. In molti
continuano a non perdonarglielo. Ecco alcuni frammenti in cui Battisti lega la
storia della resistenza con le vicende italiane degli anni '70. Il parallelismo
è tutt'altro che scontato e si gioca sulla diversa attribuzione di valori a
livello di senso comune, di chiacchiera giornalistica ma anche di riflessione
storiografica. Una prima conclusione? I vincitori si chiamano eroi e patrioti, i
vinti, terroristi. Una banalità che continua a non essere tale.
Al cominciare un ricordo, la frase che lo ha scatenato ripeterla alla fine: si va a capo, frase e di nuovo a capo. Mettere l'odore di basilico nelle tre epoche Quando ero piccolo e i grandi raccontavano le storie c'erano parole che non capivo. Erano storie da grandi e, a forza di ripeterle, neanche chi le raccontava faceva più attenzione a ciò che diceva. Ma allora non mi sembrava importante capirle, sentivo la loro musica e questo mi bastava. Poi, più tardi, mi sembrò inutile dare un senso a quelle parole, avrei finito per ucciderle. Così andò a finire con qualche leggenda rock. Mi ci sono stracciato l'anima con le loro chitarre urlanti, li credevo tutti poeti. Poi, quando cominciai a masticare un po' d'inglese, i miti cadevano come le mosche. Non bisognerebbe sprecare così i Paradisi, è cosa rara. È la musica che conta, il resto è tutta scena. Le storie che mi raccontavano, bisogna però ammettere, erano tutte un po' inverosimili. Sembrava impossibile che un grande potesse crederci davvero. Tutte debordanti di mistero, con il sangue che scorreva a fiumi... Quando invece si sa che nella vita di tutti i giorni non succede mai niente del genere. Eppure, allora mi sembrava così vicino il tempo in cui la gente aveva realmente avuto paura di vivere all'aperto; con i bambini che venivano svegliati di notte a colpi di cannone e i grandi che non la finivano mai di andare a nascondersi nelle cantine per chiacchierare con i vicini. E poi c'erano quelli che rubavano una pagnotta e che i carabinieri arrestavano. I carabinieri andavano sempre vestiti di nero. Ma non solo la camicia come i fascisti, loro erano neri da capo a piedi e la gente seria, diceva mio padre, li evitava come la peste. Forse è per questo che ancora oggi ogni volta che vedo un carabiniere mi scanso, mi è rimasta la paura del contagio. Sciocchezze, direte voi, ma allora ci credevo a tutte queste cose perché ero piccolo e delle loro parole ascoltavo solo la musica. La testa reclinata sulle ginocchia solide di mia madre. A volte restavamo in cucina fino a tardi; due ore dopo il tramonto è già tardi per un bambino che va alle elementari. Ed era come adesso con la televisione: non appena smettevano di parlare mi si aprivano gli occhi. Allora loro ricominciavano ed io mi sforzavo di tenerli aperti il più a lungo possibile. Loro parlavano e io mischiavo le note. Componevo così un mondo senza epoche. Anzi, c'erano tutte ma contemporaneamente. E ogni volta che me ne raccontavano una nuova io l'aggiungevo subito alle altre. Tutte insieme nello stesso calderone. Mi ci sentivo così bene in tutta quella zuppa di tempi e storie che in futuro non sarei più riuscito a disfarmi completamente di questo gioco da bambini. Per questo non ho mai smesso di mischiare tutto nella vita. Può essere scomodo, ma è l'unico viaggio serio che conosco. E d'altronde, non ho scelta. Ma questa sarebbe un'altra storia. Allora, invece, erano solo parole sussurrate nel tardivo tepore della cucina. Con la stufa a legna che sfiatava da tutte le parti e così uno poteva tranquillamente sciogliersi in lacrime e dare la colpa al fumo. Io evitavo perfino di starnutire, avrei attirato l'attenzione e mi avrebbero spedito subito al piano di sopra, tra lenzuola ghiacce popolate di spiriti maligni. Giù in cucina, invece, perfino i muri anneriti sapevano parlare. Per sentire quello che dicevano bisognava restare immobili sulle ginocchia di mamma e respirare piano, come nel sonno. Non era così semplice come si potrebbe credere, bisognava veramente diventare pesanti come un bambino che dorme, prima che loro si decidessero a parlare sul serio. Ma in genere la manovra mi riusciva e allora ne sentivo di belle. Fu così che appresi di essere venuto al mondo già mezzo strano. Pare che la taglia della testa fosse spropositata rispetto a un corpicino che stava sul palmo della mano della levatrice. E non era una donna gigante, come mi ostinavo a credere. Questo genere di racconti mi bloccavano la fantasia. Mi chiedevo ferocemente perché mia madre, che pure sapeva meglio di ogni altro leggere nei miei pensieri, insistesse tanto su un dettaglio di così poco conto. Quasi che l'allevare un figlio rachitico fosse un'impresa onorifica! In ogni caso questa non era musica per le mie orecchie: m'impediva di sognare, mischiare il tempo, d'imbarcarmi sulla nave dei ricordi. Per le loro storie di gioventù, quelle più piccanti, bisognava farsi di piombo in grembo a mia madre. Soprattutto quando mio padre attaccava la storia di quando andava a fregare le gomme ai tedeschi. Raccontava, e succedeva in media una volta al mese, che ci faceva un sacco di soldi perché, al confronto, quelle italiane non duravano niente. Ho sempre avuto il sospetto che esagerasse un po'; mi era difficile credere che uno come lui fosse davvero stato capace di farsi tanti soldi. Ma era una storia che mi piaceva e, comunque, di gomme ai camion militari tedeschi papà ne ha smontate tante fino a farsi pizzicare. Anzi cogliere, bisognerebbe dire. Giacché, in piena tattica di ripiego, si sentì sollevare in aria e lì rimase a sgambettare prima di cadere sulla punta degli stivali di un caporale tedesco. | << | < | > | >> |Pagina 135TAPPA N. 7GLASGOW-PARIGI-NEW YORK Alexander Trocchi
Verme solitario
I fuggitivi non godono di buona reputazione nel mondo dei sedentari.
Alexander Trocchi was no saint, non era un santo. Di lui si è detto ogni cosa
possibile. Pappone, spacciatore, adescatore di fanciulle, pornografo,
eroinomane. Scozzese con antenati italiani, ha vissuto una bizzarra carriera di
scrittore, alternando pseudonimi e orizzonti intellettuali. Studente modello a
Glasgow, esistenzialista e poi situazionista a Parigi, eroinomane e
probabilmente magnaccia negli Stati Uniti, arrestato dall'FBI e difeso da
Debord, scrittore anonimo di romanzi pornografici per la mitica casa editrice
Olimpia Press, tra i primi a pubblicare Samuel Becket nella rivista Merlin,
amico di Burroughs (l'unico capace di trovare una vena nella carcassa di quella
vecchia mummia), amico di Leonard Cohen (il quale, secondo la leggenda, lo aiutò
a superare illegalmente il confine canadese, ottenendo in cambio una dose di
eroina tagliata male), esperto nell'arte di abbandonare il letto coniugale per
aprire bordelli con le fidanzate dei propri amici, tutto questo era Alexander
Trocchi, a quel che se ne dice. Io mi accontento di leggere queste pagine, degne
di un vero reprobo.
Il mio giro. Su attraverso questa vuota cantina innervata d'ombra fino all'oscurità. Piegati. Impauriti. L'estremità della pioggia è metallica, definitiva, uno stiletto teso. E freddi corpi umidi sotto fradice mutande puzzolenti attaccate alla pelle in attesa di puttane abbastanza panciute. Ci do un taglio. Vinco. Le cataratte sono aperte come la carne del mio cervello. Ascolto il cupo-gocciolio d'olio di chiodi di garofano nella cavità d'un vecchio dente. Il dolore affonda. Gonfio il mio essere. Sono il cancro del mondo. Loro mi odiano ma io ho tutti gli assi in mano. È una vecchia mano del solito gioco. Con la mia terribile leva aprirò il loro bilancio nel Limbo. Non che me ne importi granché, davvero. Solo che loro si sono impossessati della strada – questi filosofi morali, professori universitari e giovani leader, tutta la legione degli insaponati nell'acido fenico. Gli uomini mi chiamano matto. È vero che io amo i cattivi odori e generalmente tutte le cose peccaminose. Amo i banditi e i poeti e le donne stuprate, i cinesi e i marinai orientali e le negre ammalate. Di fatto tutto quello dall'ombelico in giù. Sopra l'ombelico non sono proprio un esperto. Ma poi chi vuole davvero esserlo, a parte i filosofi morali, i professori universitari e i giovani leader? E lo sai cosa puoi farci con quelli. Posso anche affrontarli sul loro terreno – queste tizi che adorano il grande cervello e alla fine nascondono il loro sesso in un orinatoio – ma d'altronde chi vuole avere a che fare con loro? Non me, per il buon S. Michele, non me! Ma forse sono davvero matto. Se sottosopra significa matto. Rimango sospeso per la corda da un alto filo metallico. Mi metto cinque dita nel naso. Non preoccuparti. Non cascherò. Lo vedi, tengo in mano gli assi. Amo la coscia piena e carnosa più dell'algebra. Ridano pure i vostri froci smutandati! Mi piacciono le donne sensuali e arrapanti più delle matite e della metafisica e quel che più importa, ritengo che la deontologia puzzi! Ficcatevelo nelle vostre pipe, bricconcelli noumenici! Di più, per dirla alla maniera dei logici, mi piace tracciare con la mia lingua la sottile linea di peli che scende in maniera vaga sulla carne dal bellico alla passera. Mi piace dedicarmi a questo più che a tutti i vostri mal di pancia psicologici con spazio-tempo ed essenze ultime. Foro un pallone. Cambio i miei nervi. Mi compro un pacchetto di sigarette e un buon goccio di quello forte e dico al diavolo con le vergini trentacinquenni con labbra sottili, collo lungo e gambe ad x e i loro mascolini beni parafernali. D'accordo. Potranno ereditare grandi cervelli e camminare su grucce tubolari finché le vacche non tornano a casa. Poi Charon ad holocaust. Spara contro di loro. Hanno avuto la loro chance. Lasciamoli rotolarsi nella loro schiuma. Me? Datemi un letto e una donna che sappia quando togliersi i suoi quattro stracci e sarò a posto! È la mia mania, gentiluomo, almeno credo!
L'uomo con il mento blu conduce la regina. È molto, molto efficiente. Lui ha
studiato economia in una delle nostre università liberali. Si dice che abbia un
tabellone automatico installato nel lobo dell'orecchio sinistro. Sento che sta
ticchettando. Calcola che può farmi lo sgambetto. Il povero bastardo male
informato non ha visto il mio pugno! Ma gliene darò in abbondanza. È perfetto.
Gioca secondo le regole. Sono sistemato bene e mi ha colto con le mutande
calate. Ma io ho quattro assi e una sfilza di briscole lunga come una gamba di
una ragazza del coro. Sogghigno. Prendo la prima nave spaziale fino a Giove e
dico a Rimbaud della sorella del Califfo i cui fianchi sembrano qualcosa uscito
da Matisse. Lei è una conversatrice molto interessante. Ma è molto più
interessante nelle questioni pratiche piuttosto che in quelle teoretiche.
Proprio come dovrebbe essere, nulla da ridire.
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