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| << | < | > | >> |IndiceVII Bauman e il destino delle città globali di Mauro Magatti 1 Fiducia e paura nella città 39 Cercare riparo nel vaso di Pandora: paura e sicurezza nella vita urbana 63 Vivere con gli stranieri |
| << | < | > | >> |Pagina 3In questi anni – soprattutto in Europa e nelle sue diramazioni oltreoceano – la forte propensione alla paura e la maniacale ossessione per la sicurezza hanno fatto la più spettacolare delle carriere.Di per sé, è un mistero. Dopo tutto, come segnala Robert Castel nella sua acuta analisi delle attuali angosce nutrite d'insicurezza, «noi, almeno nei paesi che si dicono avanzati, viviamo in società senza dubbio tra le più sicure (súres) che siano mai esistite». Eppure, in contrasto con questa "evidenza oggettiva", il viziato, coccolato "noi" si sente malsicuro, minacciato e impaurito, più incline al panico, e più interessato a qualsiasi cosa abbia a che fare con la tranquillità e la sicurezza, dei membri della maggior parte delle altre società a noi note. Già Sigmund Freud ha affrontato il punto cieco dell'enigma, e suggerito che la soluzione potrebbe essere ricercata nel tenace disprezzo della psiche umana per l'arida «logica fattuale». Le umane sofferenze (anche la paura di soffrire, e la paura in sé, che è il più molesto, il più fastidioso esempio di sofferenza), derivano dal «superiore potere della natura, dalla debolezza dei nostri corpi e dall'inadeguatezza delle norme che regolano le interrelazioni degli esseri umani all'interno della famiglia, della società, dello Stato». Riguardo alle prime due cause esposte da Freud, possiamo dire che riusciamo – in un modo o nell'altro – ad accettare i limiti di ciò che siamo in grado di fare: sappiamo che non potremo mai padroneggiare del tutto la natura e che non sapremmo rendere immortali i nostri corpi, sottraendoli all'impietoso fluire del tempo; e così siamo pronti ad accontentarci della "seconda scelta". Questa consapevolezza è tuttavia più eccitante e stimolante che deprimente e inibitoria: se non possiamo eliminare tutte le sofferenze, possiamo però eliminarne qualcuna o attenuarne qualche altra; fatto sta che vale la pena di provarci e riprovarci. Ma le cose cambiano quando si tratta del terzo tipo di sofferenza: la miseria di origine sociale. Tutto ciò che è stato fatto dall'uomo potrebbe anche essere rifatto. Non accettiamo che si pongano dei limiti a tale "rifacimento"; in ogni caso, non quei limiti che l'umano sforzo può superare con la buona volontà e la giusta determinazione: «Non si vede perché le norme stabilite da noi stessi non possano [...] giovare a ognuno di noi e proteggerlo». Perciò, se la "protezione realmente disponibile e i vantaggi di cui godiamo non sono del tutto all'altezza delle nostre aspettative, se le nostre relazioni non sono ancora come le vorremmo, se le regole non sono proprio come dovrebbero – e, secondo noi, potrebbero – essere, tendiamo ad immaginare macchinazioni ostili, congiure, cospirazioni di un nemico che si trova davanti alla porta o sotto il letto. Insomma, deve esserci un colpevole, un crimine o un'intenzione criminale. Castel giunge a una conclusione analoga, quando suppone che la moderna insicurezza non derivi dalla perdita della sicurezza bensì dall'«oscurità (ombre portée) del suo scopo», in un mondo sociale che «è stato organizzato in funzione della continua, affannosa ricerca di protezione e di sicurezza». L'acuta, inguaribile esperienza dell'insicurezza è un effetto secondario della convinzione che – con le capacità adatte e gli opportuni sforzi – si possa ottenere una completa sicurezza; se ci si accorge che non è stata ottenuta, si riesce a spiegare tale fallimento solo immaginando che sia dovuto a un atto malvagio e premeditato, che implica l'esistenza di un delinquente. Potremmo dire che l'insicurezza moderna, nella varietà delle sue manifestazioni, sia caratterizzata dalla paura dei crimini e dei criminali. Si sospetta degli altri e delle loro intenzioni, e si rifiuta di confidare (o non si riesce a farlo) nella costanza e attendibilità della solidarietà umana. Castel attribuisce la responsabilità di questo stato di cose all'individualismo moderno: secondo lui, la società moderna – avendo sostituito le comunità saldamente unite e le corporazioni (che un tempo definivano le regole atte a proteggere, e ne controllavano l'applicazione) con il dovere individuale di prendersi cura di sé e di fare da sé – è stata costruita sulle sabbie mobili della contingenza: l'insicurezza, e il timore che ovunque ci sia pericolo, sono inerenti a questa società. In questa, come nelle altre trasformazioni dell'epoca moderna, l'Europa ha avuto il ruolo del precursore. È stata anche la prima a dover affrontare le impreviste e regolarmente malsane conseguenze del cambiamento. Lo snervante senso d'insicurezza di cui si diceva non si sarebbe prodotto senza il verificarsi simultaneo di due "svolte" che si manifestarono in Europa, per diffondersi solo in seguito, più o meno rapidamente, nelle altre parti del pianeta. La prima, volendo seguire la terminologia di Castel, consiste nella «sopravvalutazione» (survalorisation) dell'individuo, liberato dalle costrizioni imposte dalla fitta rete dei vincoli sociali. La seconda, che segue da vicino la prima, consiste in una fragilità e vulnerabilità senza precedenti di quest'individuo, ormai privo della protezione che quei vincoli gli offrivano in passato. Se la prima rivelò agli individui l'eccitante, seducente esistenza di grandi spazi, in cui attuare la fondazione e il miglioramento di se stessi, la seconda rese la prima inaccessibile alla maggior parte di loro. Il risultato dell'azione combinata di queste due nuove tendenze fu che il sale del senso di colpa venne sfregato sulla ferita dell'impotenza, rendendola infetta. Ne derivò una malattia che potremmo denominare: paura di essere inadeguati. Fin da principio, lo Stato moderno si trovò ad affrontare il compito scoraggiante di amministrare la paura. Dovette intrecciare di nuovo la rete protettiva che la rivoluzione moderna aveva distrutto, e continuare a ripararla, mentre la modernizzazione promossa da questo stesso Stato non faceva che deformarla e logorarla. Contrariamente a quel che si tende a pensare, nel cuore dello "Stato sociale" – esito inevitabile dell'evoluzione dello Stato moderno – c'era più la protezione (l'assicurazione collettiva contro le disavventure individuali) che la ridistribuzione della ricchezza. Per gente priva di risorse economiche, culturali o sociali (di tutte le risorse, tranne la capacità di fare lavori manuali), «la protezione non può che essere collettiva». Diversamente dalle reti protettive premoderne, quelle ideate e amministrate dallo Stato erano deliberatamente e accuratamente progettate, oppure si sviluppavano spontaneamente dagli altri grandi sforzi costruttivi che caratterizzarono la fase "solida" della modernità. Le istituzioni e i provvedimenti assistenziali – talvolta chiamati "paghe sociali" – gestiti o assistiti dallo Stato (il servizio sanitario, l'istruzione pubblica, le case popolari) e le normative industriali che definiscono i reciproci diritti e doveri delle parti nei contratti di lavoro, difendendo anche il benessere e i diritti dei dipendenti, sono altrettanti esempi di protezione del primo tipo. Il principale esempio del secondo tipo è la solidarietà aziendale, sindacale e professionale che mise radici e fiorì "spontaneamente" nell'ambiente relativamente stabile della "fabbrica fordista", sintesi dello scenario della modernità solida, in cui si pose rimedio alla mancanza della maggior parte degli "altri capitali". In quella fabbrica, il reciproco e duraturo impegno delle due parti contrapposte – capitale e lavoro – le rese interdipendenti, e allo stesso tempo permise loro di pensare e pianificare a lungo termine, d'impegnare il futuro e d'investire nel futuro. La "fabbrica fordista" fu pertanto un luogo caratterizzato da aspre e a volte roventi contese, tuttavia sbollite ogni volta (l'impegno a lungo termine e l'interdipendenza delle parti in gioco fecero del loro confronto un ragionevole investimento e un sacrificio che avrebbe dato buoni risultati); ma fu anche un rifugio sicuro per la fiducia, e quindi per la negoziazione, la ricerca di compromessi e di una convivenza "consensuale". La carriera chiaramente delineata, la noiosa ma rassicurante routine, la stabilità dei gruppi di lavoro, la possibilità di sfruttare a lungo le capacità acquisite una volta per tutte e il grande valore accordato all'esperienza lavorativa consentivano di tenere a distanza i rischi del mercato del lavoro e di attenuare (se non di eliminare del tutto) l'incertezza, confinando le paure nel regno marginale della "malasorte" e degli "incidenti fatali", invece di lasciare che permeassero la vita quotidiana. Soprattutto, le molte persone il cui unico capitale era il lavoro potevano contare sulla collettività. La solidarietà trasformò la capacità di lavorare in un capitale sostitutivo, che — non a torto — si sperava potesse fare da contrappeso al potere combinato dei capitali di altro tipo. Le paure moderne ebbero inizio con la riduzione del controllo statale (la cosiddetta deregulation) e con le sue conseguenze individualistiche, nel momento in cui l'apparentemente eterna (o per lo meno presente da tempo immemorabile) parentela tra uomo e uomo, e quei legami amichevoli contratti entro una comunità o una corporazione, venivano allentati o addirittura spezzati. Il modo in cui la modernità solida amministrava la paura tendeva a sostituire i legami "naturali" — irreparabilmente danneggiati — con altri, artificiali, che prendevano la forma di associazioni, sindacati e collettivi part-time (eppure quasi permanenti, poiché consolidati dalla routine giornalmente condivisa); la solidarietà subentrò alla fratellanza, come miglior difesa dal sempre più incerto destino. La dissoluzione della solidarietà rappresenta la fine del modo in cui la modernità solida amministrava la paura. Ora sono le protezioni moderne — quelle artificiali, dispensate — a essere smantellate o distrutte. L'Europa, la prima a subire la revisione moderna e tutte le sue conseguenze, passa attraverso la "deregulation individualistica numero due"; questa volta non per sua scelta, ma cedendo alla pressione delle incontrollabili forze globali. Paradossalmente, quanto più persistono — in un determinato luogo — le protezioni "dalla culla alla tomba", attualmente minacciate ovunque, tanto più diventano allettanti — per l'accomunante sensazione di un pericolo imminente — gli sfoghi xenofobici. I pochi paesi (soprattutto scandinavi) riluttanti ad abbandonare le protezioni istituzionali trasmesse dalla modernità solida e intenzionati a combattere le molteplici pressioni a ridurle o eliminarle del tutto, si vedono come fortezze assediate da forze nemiche, e considerano i resti dello Stato sociale come un privilegio che bisogna difendere, con le unghie e con i denti, da invasori smaniosi di saccheggiarli. La xenofobia — crescente sospetto di un complotto straniero e rancore verso gli "estranei" (specialmente verso i migranti, che in modo vivido e molto evidente ci rammentano che i muri possono essere sfondati e i confini cancellati, e tramite i quali si bruciano in effigie le misteriose, incontrollabili forze globalizzanti) — può essere intesa come un riflesso perverso del disperato tentativo di salvare quel che resta della solidarietà locale. Quando la solidarietà viene sostituita dalla competizione, gli individui si sentono abbandonati a se stessi, affidati alle proprie — penosamente scarse e chiaramente inadeguate — risorse. Lo sperpero e la dissoluzione dei legami comunitari hanno fatto di loro, senza chiederne il consenso, degli individui de jure; ma opprimenti, persistenti circostanze ostacolano il raggiungimento dell'implicito status di individui de facto. Se, entro le condizioni della modernità solida, la più temuta delle disavventure individuali era l'incapacità di conformarsi, ora — in seguito alla svolta della modernità "liquida" — lo spettro più spaventoso è quello dell'inadeguatezza; un ben fondato timore, si deve ammetterlo, se si considera l'enorme divario fra la quantità e qualità delle risorse che un'effettiva produzione di sicurezza "fai da te" richiederebbe, e la somma totale di materiali, strumenti e capacità che la maggioranza degli individui può ragionevolmente sperare di acquisire e conservare. | << | < | > | >> |Pagina 19Per farla breve: le città sono diventate delle discariche per i problemi causati dalla globalizzazione. I cittadini, e coloro che sono stati eletti come loro rappresentanti, vengono messi di fronte a un compito che non possono neanche sognarsi di portare a termine: il compito di trovare soluzioni locali alle contraddizioni globali.Da qui il paradosso, rilevato da Castells, di «politiche sempre più locali in un mondo strutturato da processi sempre più globali». «C'è stata una produzione di senso e d'identità: il mio vicinato, la mia comunità, la mia città, la mia scuola, il mio albero, il mio fiume, la mia spiaggia, la mia chiesa, la mia pace, il mio ambiente.» «Le persone, inermi di fronte al vortice globale, si sono chiuse in se stesse.» Vorrei far notare che più «si sono chiuse in se stesse» più sono «inermi di fronte al vortice globale», e tendono a diventare anche più deboli nel decidere i sensi e le identità locali, e proprio per questo evidentemente loro, per la gioia degli operatori globali, che non hanno motivo di temere gli inermi. Come Castells suggerisce altrove, la creazione di uno «spazio di flussi» instaura una nuova (e globale) gerarchia di dominio tramite la-minaccia-di-disimpegno. Questo «spazio di flussi» può «sfuggire ad ogni controllo locale», mentre (anzi proprio perché) «lo spazio fisico è frammentario, circoscritto e sempre più privo di potere rispetto alla versatilità dello spazio di flussi, e le località possono resistere solo negando il diritto di sbarco ai travolgenti flussi, per poi constatare che sbarcano in località vicine, aggirando e rendendo marginali le comunità ribelli».
La politica locale – e particolarmente la politica urbana – è ormai
disperatamente sovraccarica,
a tal punto che non riesce più ad operare. E noi pretenderemmo di ridurre le
conseguenze dell'incontrollabile globalizzazione proprio con quei mezzi e con
quelle risorse che la globalizzazione stessa ha reso penosamente inadeguati.
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