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| << | < | > | >> |IndicePrefazione 7 Ringraziamenti 10 1. Introduzione di Peter Beilharz: approccio a Zygmunt Bauman 13 2. L'intervista di «Telos» 33 3. Socialismo 48 3.1 La collocazione storica del socialismo (1976) 48 3.2 Tempi moderni, marxismo moderno (1968) 58 3.3 Autopsia del comunismo (1992) 71 4. Classi e potere 88 4.1 Classi: prima e dopo (1982) 88 4.2 Guardacaccia trasformati in giardinieri (1987) 127 4.3 L'ascesa dell'interprete (1987) 137 5. Ermeneutica e teoria critica 150 5.1 La sfida dell'ermeneutica (1978) 150 5.2 Teoria critica (1991) 164 5.3 Modernità (1993) 190 6. Sociologia e postmoderno 200 6.1 Una teoria sociologica della postmodernità (1991) 200 6.2 Il re-incantamento del mondo (Re-Enchantment), o come si può raccontare la postmodernità (1992) 217 7. Figure della modernità 229 7.1 Rendere e non rendere estranei (1993) 229 7.2 Parvenu e paria: eroi e vittime della modernità (1997) 249 8. Il secolo dei campi di concentramento 262 8.1 La sociologia dopo l'Olocausto (1989) 262 8.2 Dittatura sui bisogni (1984) 294 8.3 Un secolo di campi di concentramento? (1995) 301 9. Ambivalenza e ordine 318 9.1 La ricerca di ordine (1991) 318 9.2 La costruzione sociale dell'ambivalenza (1991) 326 10. Globalizzazione e Nuovi Poveri 336 10.1 Sulla glocalizzazione: o globalizzazione per alcuni, localizzazione per altri (1998) 336 10.2 Dall'etica del lavoro all'estetica del consumismo (1998) 351 11. Il viaggio non finisce mai: Zygmunt Bauman parla con Peter Beilharz 376 Indice analitico 391 |
| << | < | > | >> |Pagina 13Chi è Zygmunt Bauman? Il più grande sociologo che oggi scrive in lingua inglese vive a Leeds e guarda la televisione polacca via satellite. Viaggia in lungo e in largo e scrive a ritmi vertiginosi. Le sue opere si trovano citate nelle note in calce di ogni specialista, tanto per usare un'espressione caratteristica; il suo pensiero non si afferra con sicurezza, ed è tanto difficile da cogliere quanto è potente, enigmatico, stimolante. Come risultato, un personaggio noto come Tony Giddens può definire Bauman come il teorico più importante del postmoderno; eppure, non è molto ciò che si è scritto sull'opera di Bauman in termini di commenti o illustrazioni. Infatti, privilegiando un'evidente strategia della provocazione, la sociologia di Bauman evita impostazioni sistematiche; preferisce il frammentario e si astiene da esposizioni organiche, dall'elaborare una propria teoria da offrire agli altri, secondo una mentalità che risulta determinante per chi voglia pubblicare e conseguire successi accademici.
[...]
Alla ricerca di elementi utili per un'indagine Allora, perché preoccuparsene? Qual è il problema? Per chi scommette in genere sulla teoria sociale, sono forse due gli elementi fondamentali che, secondo la mia opinione, mettono in risalto il contributo di Bauman. Il primo è rappresentato da Modernity and the Holocaust (1989; trad. it. Modernità e olocausto, Il Mulino, Bologna 1992), un libro di Bauman che ha rotto il silenzio, sia pure con difficoltà, perché il messaggio in esso contenuto è, inter alia, che l'importanza dell'Olocausto risulta centrale per la sociologia, un messaggio che non molti sociologi vorrebbero ascoltare. Il secondo, a mio avviso, va individuato nell'opera di Bauman sul postmoderno. Infatti, è opinione molto diffusa che Bauman sia un sociologo postmoderno, anche se, come cercherò di dire qui, ciò è vero solo a metà; l'altra metà del postmoderno è il moderno, e proprio per questo ci troviamo di fronte ad un'ambivalenza, piuttosto che "al postmoderno", e ciò rappresenta il pregio essenziale nell'opera di Bauman. L'olocausto e il postmoderno, in ogni caso, sono gli elementi ravvisabili in Bauman che la gente è pronta ad associare facilmente al suo nome. Solo una volta ammessa la centralità dell'ermeneutica per il suo modo di pensare, ciascun concetto conduce ad un altro: l'olocausto alla sociologia, alla modernità e all'etica, il postmoderno al moderno, e specialmente al marxismo e al post-marxismo, e così via di seguito, con la libertà che conduce alla dipendenza, il proletario al consumatore, il turista al vagabondo, l'interprete al legislatore, la moralità all'etica... Bauman si attiene ostinatamente all'idea familiare dell'interpretazione e della comprensione, ciò che è sicuramente un motivo per cui i suoi lettori risultano nello stesso tempo attratti e irritati, poiché egli riesce subito a colpirti e nello stesso tempo aspetta che tu lo segua fino in fondo, rimanga un po' esitante, rifletta, parli e ascolti. Lo scopo della sociologia critica, in effetti, è quello di colpire, non di accarezzare. Infatti, per fare sociologia abbiamo bisogno sia di essere abbastanza fiduciosi per quanto riguarda il nostro posto nel mondo, sia di essere abbastanza distaccati da vedere ciò che è familiare come se fosse esotico, o almeno accidentale. Non dovremmo mai far pace con il dogma, anche se per natura tendiamo continuamente a farlo, a rendere universale il particolare, a ipostatizzare, cioè a trasformare in sostanza ciò che è accidentale. Questi generi di problemi sono sia più gravi che più vivaci nella pratica della sociologia di quanto lo siano altrove, così come lo è la pretesa della nostra disciplina di riflettere su se stessa, d'includere l'esame di se stessa non meno della critica degli altri. La voce di Bauman è spesso cordiale, ma anche intransigente in ciò che richiede al lettore in quanto lettore e in quanto protagonista morale. Proprio chi agisce, infatti, è in definitiva responsabile della condizione umana. Questo tema attraversa tutta l'opera di Bauman. [...] Come ospite della famiglia Bauman a Leeds, mi capitò una mattina, scendendo le scale, di sorprendere il sociologo mentre stava spazzando. Egli mi guardò intenzionalmente e mi disse che quella era una situazione simile alla nostra: ogni giorno noi spazziamo, ogni giorno lo sporco ritorna e noi dobbiamo ripetere il rituale, ma ormai, in tempi postmoderni, senza illusioni. Se, come ho accennato sopra, c'è un indizio esistenziale nell'opera di Bauman, accanto a tutti gli altri, scopro allora che c'è anche un indizio antropologico, una percezione che tiene in gran conto la vita quotidiana e le sue abitudini, così come ne riconosce le difficoltà. Questo mi sembra mostrare la sociologia nel suo aspetto migliore, quello più profondo e più prosaico nello stesso tempo. Perché il messaggio di Bauman, a tale riguardo, è semplice. Esso implica che noi dobbiamo non tanto accettare il caos, quanto invece formarci un nostro proprio ordine, crearci un'etica valorizzando le comuni occasioni della vita che ci si presentano. Noi mostriamo la nostra umanità non in pretese al sublime o al perfetto, ma nell'attenzione che mettiamo nelle abitudini della vita quotidiana e che ci prestiamo reciprocamente. In tal modo, nutriamo ancora la prospettiva di esercitare la solidarietà, o almeno di comportarci come se fosse possibile. Gli indizi sono davanti a noi; ma questo è un viaggio senza fine. La stranezza e il fascino immancabile dell'opera di Bauman consiste forse nel fatto che Bauman può dirci tante cose terribili e continuare ad aspettare che noi ci comportiamo meglio. Dobbiamo scrutare nell'abisso della modernità, sia come olocausto che come mortalità, per poter percepire la misura della nostra difficile situazione, per poter scorgere ciò di cui siamo capaci, a titolo di esempio o di esempio contrario. La sociologia, nell'opera di Bauman, ci collega come soggetti, ma lo fa attraverso la ricerca del più piccolo dettaglio personale, come anche dei più gravi o più impellenti problemi sociali. Tutto ciò che nello stesso tempo sembra così opprimente nella sua linearità burocratica, così come si rivela nella sociologia di Bauman, viene dimostrato che esiste perché noi lo rendiamo tale. Proprio questa combinazione del cosmico e dell'individuale e tutto ciò che vi risulta frapposto suscitano la profonda sensazione d'ambivalenza che c'è in noi moderni, non solo circa le dimensioni del passato da noi condivise, ma anche circa quelle future. Per Bauman, proprio l'ambivalenza tiene insieme tutto questo; e noi siamo tutti ambivalenti, anche se le nostre situazioni sociali debbono ancora diventare adeguate a noi, o noi dobbiamo adeguarci ad esse. Quella che sembra la stabilità delle nostre istituzioni sociali rimane fragile; la nostra capacità di creare una solidarietà sociale e d'ideare una società buona rimane aperta. Le nostre responsabilità sono di fronte a noi, come sociologi e come cittadini, così come lo sono le nostre possibilità di pensare e d'agire. | << | < | > | >> |Pagina 2628.1 La sociologia dopo l'Olocausto
[Titolo originale:
Sociology After the Holocaust,
1989]
Civilization now includes death camps and Muselmänner among its material and spiritual products [«La civiltà comprende ormai campi di concentramento di morte e Muselmänner ("musulmani") tra i suoi prodotti materiali e spirituali»] Richard Rubenstein – John Roth, Approaches to Auschwitz. Vi sono due modi di minimizzare, giudicare erroneamente, o snobbare il significato dell'Olocausto per la sociologia come teoria della civiltà, della modernità, della civiltà moderna. Uno è quello di presentare l'Olocausto come qualcosa che è accaduto agli Ebrei: come un evento della storia giudaica. Ciò rende l'Olocausto un fatto unico, tale da essere tranquillamente considerato non indicativo e privo di conseguenze sul piano sociologico. L'esempio più comune di un tale modo di vedere è la presentazione dell'Olocausto come il punto culminante dell'antisemitismo europeo-cristiano: un fenomeno in se stesso straordinario, che sfugge a qualsiasi confronto nel contesto dell'ampio e folto inventario di pregiudizi e aggressioni di natura etnica o religiosa. In mezzo a tutti gli altri casi di antagonismi collettivi, l'antisemitismo si colloca da solo per la sua sistematicità senza precedenti, per la sua intensità ideologica, per la sua diffusione sovra-nazionale e sovra-territoriale, per la sua eccezionale mescolanza di sorgenti e affluenti di dimensione sia locale che ecumenica. Nella misura in cui esso viene definito, per così dire, come il perpetuarsi dell'antisemitismo attraverso mezzi diversi, l'Olocausto appare come «uno dei tanti prodotti», un prodotto episodico, che forse getta un po' di luce sulla patologia della società in cui si è verificato, ma che difficilmente aggiunge qualcosa alla nostra interpretazione dello stato normale di questa società. Ancor meno esso provoca una qualsiasi revisione significativa dell'interpretazione ortodossa della tendenza storica della modernità, del processo di civilizzazione, dei temi che costituiscono la ricerca sociologica. Un altro modo – apparentemente in direzione opposta, ma che conduce in pratica allo stesso punto d'arrivo – è quello di presentare l'Olocausto come un caso estremo di un'ampia e comune categoria di fenomeni sociali: una categoria certamente odiosa e repellente, ma con la quale si può (e si deve) convivere. Dobbiamo convivere con essa a causa della sua elasticità e ubiquità, ma soprattutto perché la società moderna è stata fin dall'inizio, è e rimarrà, un'organizzazione destinata a farla regredire, e forse anche a soffocarla del tutto. Così, l'Olocausto viene classificato come un'altra voce (per quanto notevole) nell'ampia classe che comprende molti casi «simili» di conflitto, di pregiudizio, o d'aggressione. Nella peggiore delle ipotesi, si fa riferimento all'Olocausto come ad una predisposizione «naturale», primordiale e culturalmente inestinguibile, della specie umana: l'aggressività istintiva di cui parla Lorenz (1977), o l'incapacità della parte corticale del neo-encefalo (neo-cortex) di cui parla Arthur Koestler (1978), di controllare quella parte primordiale del cervello che risulta dominata dall'emotività. In quanto pre-sociali ed immuni da manipolazione culturale, i fattori responsabili dell'Olocausto vengono effettivamente rimossi dall'area dell'interesse sociologico. Nella migliore delle ipotesi, l'Olocausto viene inserito nella categoria più terrificante e sinistra, eppure ancora teoreticamente assimilabile, del genocidio; o anche semplicemente confuso nell'ampia classe, fin-troppo-comune, dell'oppressione e persecuzione etnica, culturale o razziale. Che si prenda in considerazione l'una o l'altra delle due ipotesi, gli effetti sono però in grandissima parte gli stessi. L'Olocausto viene incluso nel comune flusso della storia: Considerato in questa maniera, ed accompagnato dall'opportuna citazione di altri orrori storici (le crociate religiose, il massacro degli eretici albigesi, la decimazione turca degli armeni, e persino l'invenzione inglese dei campi di concentramento durante la Guerra dei Boeri), diventa fin troppo comodo vedere l'Olocausto come qualcosa di «unico»: eppure, dopo tutto, normale (Kren – Rappoport, 1980, p. 2). Oppure le origini dell'Olocausto vengono rintracciate nella documentazione solo-fin-troppo-familiare delle centinaia di anni di ghetti, di discriminazioni legali, di massacri organizzati e di persecuzioni degli ebrei nell'Europa cristiana; e viene così dimostrato come una conseguenza straordinariamente orripilante, ma del tutto logica, dell'odio etnico e religioso. Nell'una o nell'altra maniera, la bomba viene disinnescata; non c'è alcun effettivo bisogno d'importanti revisioni della nostra teoria sociale; il nostro modo di vedere la modernità, il suo potenziale nascosto ma fin-troppo-presente, la sua tendenza storica, non richiede alcun'altra profonda analisi, poiché i metodi e i concetti messi insieme dalla sociologia sono del tutto adeguati ad affrontare questa sfida: a «spiegarla», a «trarne un significato», a comprenderla. Il risultato complessivo è un compiacimento teoretico. Niente, in effetti, è accaduto da giustificare una diversa critica del modello di società moderna che sia stata altrettanto utile quanto la struttura teoretica e la legittimazione pragmatica della pratica sociologica. Finora, un dissenso significativo nei confronti di questo atteggiamento compiaciuto e soddisfatto di sé è stato espresso per lo più da storici e teologi. Scarsa attenzione è stata prestata a queste voci da parte dei sociologi. Messi a confronto con l'enorme mole di opere prodotte dagli storici, e con la quantità di studi profondi nei quali si sono impegnati teologi sia cristiani che ebrei, i saggi dedicati dai sociologi di professione all'Olocausto appaiono marginali e trascurabili. Questi studi sociologici, nel modo in cui sono stati finora portati a termine, mostrano oltre ogni ragionevole dubbio che quanto l'Olocausto ha da dire sullo stato della sociologia è più di quanto la sociologia nella sua forma presente sia in grado di aggiungere alle nostre conoscenze dell'Olocausto. Questo fatto allarmante non è stato ancora affrontato dai sociologi (tanto meno ha ricevuto una loro risposta). | << | < | > | >> |Pagina 33610.1 Sulla globalizzazione: o globalizzazione per alcuni, localizzazione per altri [Titolo originale: On Glocalization: Or Globalization for Some, Localization for Some Others, 1998] «L'ordine ha la massima importanza quando viene perduto o sta per essere perduto», così si esprime James Der Derian, che spiega perché esso abbia oggi tanta importanza citando quanto ebbe a dichiarare il presidente americano George Bush dopo il crollo dell'impero sovietico, cioè che il nuovo nemico è l'incertezza, l'imprevedibilità e l'instabilità (Der Derian, 1991). Possiamo aggiungere che nel nostro tempo l'ordine è stato ormai identificato, per ogni intento e scopo pratico, con il controllo e l'amministrazione, che a loro volta significano ormai un codice convenzionale di uso comune e la capacità d'imporne l'osservanza. In altre parole, l'idea di ordine fa riferimento non tanto alle cose come esse sono, quanto invece al modo di trattarle; alla capacità di ordinare, piuttosto che a qualsiasi capacità intrinseca delle cose così come esse sono per caso ed in un determinato momento. Ciò cui George Bush deve aver pensato non è tanto il dissiparsi dell'«ordine delle cose», quanto invece la scomparsa dei mezzi e della capacità pratica di cui si ha bisogno per mettere le cose in ordine e per mantenervele. Il recente New world disorder [«Il nuovo disordine del mondo»] (l'appropriato e ben scelto titolo del libro di Kenneth Jowitt) non fa riferimento, quindi, allo stato del mondo dopo la fine del Grande Scisma ed il crollo della routine politica dei blocchi di potere. Si riferisce, piuttosto, alla nostra improvvisa presa di coscienza della natura essenzialmente elementare e contingente delle cose, che prima non era tanto inesistente, quanto invece esclusa dalla vista dalla riproduzione così divoratrice di energia, giorno dopo giorno, dell'equilibrio tra le potenze del mondo. Dividendo il mondo, la politica del pugno di ferro evocava l'immagine della totalità. Quel mondo fu reso un'unica entità assegnando ad ogni angolo del globo il suo significato nell'«ordine globale delle cose», cioè nel conflitto e nell'equilibrio tra i due schieramenti di potere. Il mondo fu una totalità nella misura in cui non c'era nulla in quel mondo che potesse sfuggire a tale significato e così nulla potesse essere indifferente dal punto di vista dell'equilibrio tra le due potenze che si erano appropriate di una considerevole parte del mondo e gettato il resto nell'ombra di tale appropriazione. Ogni cosa nel mondo aveva un significato, e questo significato emanava da un cerchio diviso a metà, ma unico, cioè dai due enormi blocchi di potere avvinghiati, concentrati e appiccicati l'uno all'altro in una lotta totale. Con il Grande Scisma di proporzioni così eccezionali, il mondo non appare più come una totalità; esso sembra piuttosto come un campo di forze sparse e disparate, che sedimentano in luoghi difficili da prevedere ed acquistano una velocità impossibile da arrestare. In poche parole: nessuno sembra ormai sotto controllo. Peggio ancora, non è chiaro a cosa potrebbe somigliare, in queste circostanze, l'«essere sotto controllo». Come prima, ogni tentativo di porre ordine è locale e determinato da qualche problema, ma non vi è luogo che possa pronunciarsi per l'umanità nel suo insieme, né un problema che possa affrontarsi per la totalità degli affari del globo. Proprio questa nuova e spiacevole percezione è stata espressa (con scarso beneficio per la chiarezza intellettuale) nel concetto attualmente alla moda di globalizzazione. Il significato più profondo trasmesso dall'idea di globalizzazione è quello del carattere indeterminato, privo di regole e dotato di autopropulsione degli affari del mondo: l'assenza di un centro, di una stanza dei bottoni, di un comitato di direttori, di un ufficio amministrativo. La globalizzazione è il nuovo disordine del mondo di cui parla Jowitt sotto un altro nome. In questo, il termine «globalizzazione» differisce radicalmente da un altro termine, quello di «universalizzazione», una volta costitutivo del discorso moderno sugli affari globali, ma ormai caduto in disuso e più o meno dimenticato. Insieme a certi concetti come «civiltà», «sviluppo», «convergenza», «consenso» e molti altri termini usati nel dibattito appena iniziato e classico-moderno, l'universalizzazione trasmetteva la speranza, l'intenzione la determinazione di creare ordine. Quei concetti furono coniati sull'onda crescente dei poteri moderni e delle ambizioni dell'intelletto moderno. Essi dichiaravano la volontà di rendere il mondo differente da quello che era e migliore di quanto era, e di estendere il cambiamento ed il miglioramento a dimensioni globali che comprendessero tutte le specie. Essi dichiaravano anche l'intenzione di rendere le condizioni di vita di ciascuno in ogni luogo, e quindi le possibilità di vita di tutti, eguali. Nulla di tutto questo è rimasto nel significato di globalizzazione, così come è stato sviluppato dal discorso attuale. Il nuovo termine fa riferimento innanzitutto a «effetti globali», manifestamente non voluti e imprevisti, piuttosto che a «imprese globali». Sì, afferma il nuovo termine, le nostre azioni possono avere, e spesso hanno effettivamente, conseguenze globali; ma no, noi non abbiamo né abbiamo probabilità di ottenere i mezzi per programmare ed eseguire azioni su un piano globale. La globalizzazione non riguarda ciò che tutti noi, o almeno i più industriosi e intraprendenti di noi, desideriamo o speriamo di fare. Essa riguarda ciò che sta accadendo a tutti noi. Essa si riferisce esplicitamente alla nebbiosa e fangosa «terra di nessuno» che si estende oltre la portata del progetto e della capacità d'azione di ciascuno in particolare. | << | < | > | >> |Pagina 344Secondo le parole di John Kavanagh, del Washington Institute of Policy Research, riferite nell'«Independent on Sunday», il 21 luglio 1996:La globalizzazione ha dato più opportunità a coloro che sono estremamente ricchi di far denaro più rapidamente. Questi individui hanno utilizzato la più recente tecnologia per muovere grandi somme di denaro in tutto il mondo con estrema rapidità e per speculare in modo sempre più efficiente. Purtroppo, la tecnologia non ha alcuna influenza sulla vita dei poveri nel mondo. In realtà, la globalizzazione è un paradosso; mentre risulta molto vantaggiosa a pochissimi individui, trascura ed emargina due terzi della popolazione mondiale. Come il folclore della generazione delle «classi illuminate», tenute in gestazione nel nuovo, splendido e monetaristico mondo di Reagan e della Thatcher, questo aprirsi delle chiuse, questo far saltare con la dinamite ogni diga, renderà il mondo un luogo libero per tutti. La libertà (di commercio e di mobilità del capitale, innanzitutto e soprattutto) è la serra in cui la ricchezza possa prosperare più rapidamente di quanto sia mai accaduto prima: ed una volta che la ricchezza si sarà moltiplicata, ce ne sarà di piu per tutti. I poveri del mondo, vecchi e nuovi, quelli ereditari e quelli prodotti dal computer, difficilmente potranno riconoscere la loro situazione in questo folclore. I media sono il messaggio, ed i media attraverso i quali viene instaurato il sistema del mercato a livello mondiale sono tali da rendere impossibile il promesso effetto trickle-down [cioè del graduale espandersi della ricchezza dai ricchi ai poveri, N.d.T.]. Le nuove ricchezze crescono nella realtà effettiva, ermeticamente isolata dalle vecchie realtà approssimative dei poveri. La creazione della ricchezza è sul punto di emanciparsi finalmente dalle vecchie, costrittive e seccanti connessioni con il produrre cose, il trattare materiali, il creare posti di lavoro e il dirigere persone. I vecchi ricchi avevano bisogno di poveri che li rendessero e mantenessero ricchi. Essi non hanno più alcun bisogno dei poveri. Finalmente, la beatitudine della libertà definitiva è vicina. Da tempo immemorabile, il conflitto tra ricchi e poveri significava essere bloccati per tutta la vita in una reciproca dipendenza; e la dipedenza significava il bisogno di parlare e di cercare compromessi e accordi. Le cose stanno sempre di meno in questi termini. Non è abbastanza chiaro di che cosa i nuovi ricchi «globalizzati» ed i nuovi poveri «globalizzati» dovrebbero parlare, per quale motivo dovrebbero sentire il bisogno di arrivare a compromessi e quale tipo di modus coexistendi concordato dovrebbero essere inclini a cercare. Le tendenze globalizzanti e localizzanti sono reciprocamente rafforzanti ed inseparabili, ma i loro rispettivi prodotti sono sempre di più separati e la distranza tra di loro continua a crescere, mentre la reciproca comunicazione è arrivata ad un punto morto. I mondi che si sono sedimentati ai due poli, al vertice e al fondo della gerarchia emergente, differiscono nettamente e stanno diventano sempre più senza contatti reciproci, allo stesso modo in cui le «zone con divieto d'accesso» delle città contemporanee vengono accuratamente sbarrate e aggirate dalle linee di traffico usate per la mobilità dei fortunati residenti. Se per il primo mondo, il mondo dei ricchi e dei benestanti, lo spazio ha perso il suo carattere restrittivo e viene facilmente attraversato nelle sue interpretazioni sia «reali» che «virtuali», per il secondo mondo, il mondo dei poveri, lo spazio reale, «strutturalmente superfluo», è quasi sbarrato: la privazione resa ancora più dolorosa dall'importuno sfoggio di conquista di spazio da parte dei media e dall'«accessibilità virtuale» di distanze irraggiungibili nella realtà non-virtuale. La limitazione dello spazio abolisce il flusso del tempo; gli abitanti del primo mondo vivono in un perpetuo presente, che passa attraverso un susseguirsi di episodi igienicamente isolati sia dal loro passato che dal loro futuro; questi individui sono costantemente occupati e perpetuamente «a corto di tempo». dato che ogni momento di tempo è insufficiente: un'esperienza identica a quella del tempo pieno sino all'orlo. Gli individui abbandonati nel deserto del mondo opposto risultano fiaccati e schiacciati sotto il peso di un tempo sovrabbondante, eccessivo e inutile, che essi non sanno con che cosa riempire. Nel loro tempo, «non accade mai nulla». Essi non «controllano» il tempo, ma neppure ne sono «controllati», diversamente dai loro padri che timbravano il cartellino per registrare l'ora d'entrata e l'ora di uscita, soggetti al ritmo anonimo del tempo di una fabbrica. Essi possono solo uccidere il tempo, così come ne vengono lentamente uccisi. I residenti del primo mondo vivono nel tempo; lo spazio non ha per loro alcuna importanza, dato che l'attraversamento di ogni distanza è istantaneo. Proprio questa esperienza viene incapsulata da Jean Baudrillard nella sua immagine d'«iperrealtà», dove il reale ed il virtuale non sono più separabili, poiché entrambi sono partecipi e mancanti nella stessa misura di quella «oggettività», «esteriorità» e «forza estenuante» (punishing power) che Emile Durkheim elencò come i sintomi della «realtà». I residenti del secondo mondo vivono nello spazio — opprimente, flessibile, non toccabile — che lega il tempo e lo tiene al di fuori del controllo dei residenti. Il loro tempo è vuoto; nel loro tempo, «non accade mai nulla». Soltanto il tempo virtuale, televisivo, ha una struttura, un «orario». L'altro tempo scorre in modo monotono come il tic tac di un orologio, arriva e se ne va, senza accampare pretese e non lasciando apparentemente alcuna traccia. I suoi sedimenti appaiono tutto ad un tratto, senza annuncio e senza invito. Immateriale, il tempo non ha alcun potere al di sopra di quel fin-troppo-reale spazio nel quale sono relegati i residenti del secondo mondo. La glocalizzazione, per riepilogare, polarizza la mobilità: quella capacità di usare il tempo per annullare la limitazione dello spazio. Questa capacità - o incapacità - divide il mondo nel globalizzato e nel localizzato. «Globalizzazione» e «localizzazione» possono essere i lati inseparabili della stessa moneta, ma le due parti della popolazione del mondo sembrano vivere su lati differenti, di fronte ad un lato soltanto, più o meno come gli abitanti della Terra vedono e scrutano soltanto un emisfero della luna. Alcuni abitano il globo; altri sono tenuti legati ad un luogo. | << | < | > | >> |Pagina 348I turisti si fermano o si muovono a proprio piacimento. Essi abbandonano il sito dove si trovano quando nuove e non ancora sperimentate opportunità li attraggono altrove. I migranti, invece, sanno che non si fermeranno a lungo, per quanto fortemente possano desiderarlo, poiché in nessun luogo dove si fermano sono bene accolti. I turisti si muovono perché trovano il mondo dove riescono ad arrivare irresistibilmente attraente; i migranti si muovono perché trovano il mondo dove riescono ad arrivare insopportabilmente inospitale. I turisti viaggiano perché lo vogliono; i migranti perché non hanno altra scelta possibile. I migranti sono, si potrebbe dire, turisti involontari, ma il concetto di «turista involontario» è una contraddizione in termini. Per quanto la strategia del turista possa essere una necessità in un mondo caratterizzato da pareti mobili e strade di scorrimento, la libertà di scelta è l'essenza stessa del turista. Si elimini questa libertà, e l'attrazione, la poesia e, anzi, la vivibilità della vita del turista sono quasi morte. La globalizzazione viene adattata ai sogni e desideri dei turisti. Il suo secondo effetto, il suo effetto secondario, è la trasformazione di molti altri in migranti. Il primo effetto alimenta e gonfia il secondo, in modo indomabile e irrefrenabile. Il secondo è il prezzo del primo. Il problema è come far scendere questo prezzo.Giova ripeterlo: una volta emancipato dallo spazio, il capitale non ha più bisogno di un lavoro itinerante (mentre la sua avanguardia più emancipata a malapena ha bisogno di un qualsiasi lavoro, mobile o fisso che sia). E così la pressione per abbattere le ultime barriere che si frappongono al libero movimento del denaro e delle merci e informazioni che producono denaro va di pari passo con la pressione per scavare nuovi fossati ed erigere nuovi muri (variamenti chiamati leggi per l'«immigrazione» o per la «nazionalità») che impediscono il movimento di coloro che vengono sradicati, spiritualmente o fisicamente, nel risultato. Luce verde per i turisti, luce rossa per i migranti. La localizzazione forzata tutela la selettività naturale degli effetti globalizzanti. La polarizzazione ampiamente rilevata e sempre più preoccupante del mondo e della sua popolazione non è qualcosa di estraneo e d'importuno che influisca nel processo di globalizzazione: ne è l'effetto. I poveri saranno sempre con noi, e così lo saranno i ricchi, secondo l'antica saggezza popolare, ora dissotterrata dall'abisso dell'oblio in cui fu tenuta durante il breve idillio con lo «Stato assistenziale» (welfare state) ed il processo di «sviluppo» garantito o assistito. La spaccatura ricchi/poveri non è né una novità né qualcosa di temporaneamente spiacevole che, con il dovuto sforzo, cesserà domani o un po' più tardi. Il punto è, comunque, che quasi mai prima questa spaccatura fu così chiaramente, inequivocabilmente, una spaccatura: una divisione non lenita e non alleviata da servizi reciproci o da reciproca dipendenza; una divisione con alla base un'unità non maggiore di quella che può esserci tra un accurato dattiloscritto ed un cestino per la carta straccia. I ricchi, ai quali capita di essere nello stesso tempo i più intraprendenti e più potenti tra gli attori della scena politica, non hanno bisogno dei poveri né per la salvezza della propria anima (che essi non credono d'avere e che, in ogni caso, non considerebbero degna di cura) né per rimanere ricchi o per diventare più ricchi (ciò che secondo loro sarebbe più facile se non si chiedesse loro di condividere alcune delle ricchezze con i poveri). I poveri non sono figli di Dio sui quali praticare la redenzione della carità. Essi non sono le «truppe di riserva del lavoro» che hanno bisogno di essere addestrate nuovamente alla produzione della ricchezza. Non sono i consumatori che debbono essere tentati e blanditi nel «dare il via alla ripresa». In qualunque modo si guardi ad essi, i poveri non sono di alcuna utilità; i migranti non sono che brutte caricature dei turisti, e chi si rallegrerebbe alla vista delle proprie distorsioni? Questa è una vera novità nel mondo soggetto ad una profonda trasformazione che, talvolta per un errore ottico, talvolta per placare la propria coscienza, viene chiamato «globalizzazione». | << | < | > | >> |Pagina 376PB: Zygmunt Bauman, la Sua opera mette insieme molte influenze e sollecitazioni...; non c'è una sola indicazione, ma ci troviamo di fronte a diverse presenze. In passato, prima d'incontrarla, pensavo che un posto particolare spettasse forse a Simmel e Gramsci, ma ora mi chiedo se questo posto particolare non spetti ad una triade: Simmel, Gramsci, e Sua moglie, Janina. ZB: Prima di provare a rispondere alla Sua domanda, che – come temo – mi stimolerà ad un'auto-analisi e ad un'autovalutazione, mi consenta di preavvertirla (e di salvarmi l'anima, per il momento): io non credo che gli autori (e questo include me stesso nel ruolo «di autore») siano i migliori, o anche particolarmente affidabili, giudici della «logica dello sviluppo» individuabile nell'opera di cui essi sono autori. È terribilmente difficile separare se stessi dalla propria opera, starsene da parte, guardarla in modo disinteressato e descriverla oggettivamente. Gli autori non sanno mai se le tracce scritte dei loro pensieri corrispondano alle intenzioni originali, e non possono essere sicuri che le intenzioni, anche se la nostra memoria notoriamente selettiva ha fatto del tutto per conservarle nella loro forma originale, apparirebbero plausibili ai lettori del testo (ed anche all'autore in quanto lettore del testo). I pensieri, una volta che si siano cristallizzati in un testo ed abbiano acquisito una forma comunicabile, sembrano spesso «di essersi pensati da soli» d'incamminarsi per la propria strada, piuttosto che essere guidati per mano verso una meta che l'autore aveva scelta e indicata sulla carta prima che il viaggio avesse inizio. In poche parole: il modo in cui il pensiero viene esposto o interpretato è altrettanto buono (se non migliore) di quello mio. Non si deve confondere il concetto di «autore» (authorial) con quello di «autorevole» (authoritative), si deve trattare l'esposizione dell'autore come deve essere trattata: cioè come un'interpretazione che aspetta di essere interpretata ed anche criticamente analizzata e discussa... Dopo aver detto questo e liberato la mia coscienza, debbo ammettere che i risultati della Sua opera investigativa mi appaiono convincenti. Sì, Gramsci, Simmel, e Janina: Gramsci mi ha detto che cosa, Simmel come, Janina per che cosa. Gramsci mi ha immunizzato una volta per tutte contro quei bacilli che causano la paralisi cerebrale quali sono i sistemi, le strutture, le funzioni, i modelli a palla di bigliardo di chi agisce ed i modelli speculari della mente del soggetto, ha determinato il passato e preordinato il futuro. Simmel mi ha tolto (raramente le espropriazioni sono una tale benedizione) la giovanile speranza-presunzione che, una volta rimosse le inadeguatezze e contraddizioni «in superficie», avrei trovato i meccanismi a orologeria funzionanti esattamente al secondo; egli mi ha anche insegnato che per la matita di ogni tendenza vi è una gomma da cancellare di un'altra tendenza, e che desiderare di smantellare l'ambivalenza per vedere meglio come funzioni la società è come desiderare di scostare le pareti per vedere meglio cosa sostenga il soffitto (il mio grazie a Harold Garfinkel per questa allegoria). E da Janina ho imparato che la Wertfreiheit [«libertà dei valori»] - per quanto riguarda i silenzi umani - non è soltanto una vana speranza, ma anche un'illusione estremamente inumana; che il sociologizzare ha un senso solo nella misura in cui aiuta l'umanità a vivere, che in ultima analisi sono le scelte umane a fare la differenza tra il vivere umano e il vivere disumano, e che la società è un ingegnoso marchingegno per ridurre, forse per eliminare completamente, queste scelte.
Ma poiché Lei mi ha posto una domanda circa «influenze» e «sollecitazioni»,
mi sento obbligato anche ad ampliare il Suo elenco di nomi.
La «grande triade» mi ha aiutato a trovare risposte alle grosse questioni
esistenziali di che cosa, come, e per che cosa; ma vi sono anche certi altri
autori che mi hanno dato la possibilità di integrare e di rielaborare il mio
programma di «rilevazioni attuali» e mi hanno fornito gli
strumenti analitici che mi ritrovo ad usare sempre di nuovo. Debbo
menzionare, per esempio.
Mary Douglas
per il suo
Purity and Danger:
la sua idea d'interazione tra costruzione e distruzione, di ordine come
operazione di pulizia, di ambivalenza come nemica dell'ordine (idea
integrata da quella di Fredrik Barth, secondo cui la linea di confine è
precedente alle differenze); oppure Michel Crozier per il suo
Bureaucratic Phenomenon,
con la sua intuizione rivelatrice secondo cui la gara per il predominio è
innanzitutto e soprattutto la gara tra incertezze e
determinazione; oppure
Claude Lévy-Strauss,
con la sua scoperta fondamentale che non esiste una struttura, ma il processo
senza fine di strutturazione, che cultura significa essenzialmente stabilire
delle differenze e far fronte alle contraddittorietà che derivano da tale
sforzo...
L'elenco è lungo; mi sento pesantemente in debito. Percorrere l'intero
elenco sarebbe una fatica vana, mentre l'affermare che l'elenco finisca
qui sarebbe sleale o ingenuo; ma prima di lasciare l'argomento debbono essere
menzionati almeno due nomi:
Adorno,
con la sua visione di un Illuminismo bifronte come Giano e (ahimè, una mia
scoperta del tutto recente)
Castoriadis,
con la sua insistenza sul legame tra autonomia dell'individuo e autonomia della
società, un legame che è, nella buona e nella cattiva sorte, inscindibile.
PB:
Ancora sulle influenze.
Marx
è ovvio – non si può vivere con lui, non si può vivere senza di lui –, ma è solo
una mia sensazione che Lei forse lo rimproveri in qualche modo, in parte, per il
modernismo?
Vi è una più profonda affinità nel Suo pensiero con la critica romantica della
civiltà, con l'ansia di Tönnies sulla
Gemeinschaft,
con l'ostilità di
Rousseau
nei confronti della civiltà al di sopra della cultura, o anche con
Spengler?
La modernità è forse più una perdita che un guadagno?
ZB: Di nuovo Lei colpisce nel segno: «non si può vivere con lui né senza di lui». E come potrei io, dato che Marx è il mio proprio, personale punto d'incontro tra storia e biografia... Io non potrei rimproverare Marx per la modernità più di quanto potrei rimproverare il martin pescatore per le gelate invernali o lodare la rondine per la luce del sole primaverile. E non faccio eccezione per il modernismo di Marx: tutt'altro! E stato semmai il segno del suo genio vedere (negli anni '40 dell'Ottocento!) fino in fondo le conseguenze dell'incombente modernità e lasciar intravvedere l'imminenza, l'irreversibilità, del suo arrivo. Sì, quando si arrivò alla modernità Marx assunse la presa di posizione che «qualunque cosa si faccia potrebbe essere fatta meglio», e non pensò che si potesse fare, invece, qualcosa di completamente diverso: sì, Marx concepì la «buona società» come un'alternativa alla modernità capitalista, non alla modernità in quanto tale. Ma fu colpa di Marx il non riuscire a vedere oltre la modernità, o piuttosto il vedere l'«oltre» nelle sembianze dell'immediato futuro, come una sua versione in qualche modo «nuova e migliorata», quasi una «modernità Mark II»? Dovremmo accusare questo profeta di non essere abbastanza profetico? O per non conoscere ciò che conosciamo noi?
Con tutto questo, la percezione che Marx ebbe della storia fu infinitamente
superiore alla presa di posizione di Rousseau, «forse vorremmo piuttosto che ciò
non fosse accaduto», o al lamento di Tönnies,
«che cosa orribile che ciò sia accaduto». Le nuove forme di vita sono
destinate a integrarsi con i loro propri flagelli che rendono facile dimenticare
e perdonare quelli del passato. Marx era del tutto convinto
che i vecchi mali fornissero uno scarso rimedio per nuovi malanni: la
verità cui si sottrassero Rousseau e Tönnies nella stessa misura in cui
vi si sottraggono i membri delle comunità dei nostri giorni. Marx era
in anticipo sui propri tempi (e in un certo senso in anticipo sui nostri)
nell'accettare che i peccati ed i vizi della modernità debbano affrontarsi, per
così dire, sul loro proprio terreno, con l'aiuto della creatività
ed inventività umana piuttosto che con la memoria umana; che le pecche della
modernità dovrebbero combattersi con mezzi moderni, e che
il vedere con chiarezza un futuro più sano debba cominciare dall'inventario
delle presenti patologie:
Hic Rhodos, hic salta.
Quanto è nuova e attuale la riluttanza di Marx a gettare il bambino insieme
all'acqua sporca: l'autonomia individuale e l'autoaffermazione sono un
guadagno, non una perdita, e ciò che si deve fare è impedire alla modernità di
renderla, così spesso e per così tanti, tutto tranne che impossibile da
praticare e apprezzare. Ogni
Gemeinschaft
del futuro non può essere che una comunità costruita, e costruita su queste
fondamenta.
Non parlerei a nome della «nostra» critica della civiltà, perché, per
quanto riguarda la mia critica, essa parte dal presupposto con il quale
Marx ammonì che dovesse cominciare.
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