Copertina
Autore Zygmunt Bauman
Titolo La società individualizzata
SottotitoloCome cambia la nostra esperienza
Edizioneil Mulino, Bologna, 2002, Intersezioni 232 , pag. 318, dim. 126x205x18 mm , Isbn 978-88-15-0875-91
OriginaleThe Individualized Society
EdizionePolity Press, Cambridge, 2001
TraduttoreGiovanni Arganese
LettoreAngela Razzini, 2003
Classe sociologia , globalizzazione , lavoro
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Indice

Prologo. Vite raccontate e storie vissute          7

PARTE PRIMA: COME SIAMO

I.      Ascesa e caduta del lavoro                27
II.     Ordini locali, caos globale               45
III.    Libertà e sicurezza: la storia incompiuta
        di un'unione tempestosa                   57
IV.     Modernità e chiarezza: la storia
        di un idillio mancato                     77
V.      Sono forse il custode di mio fratello?    95
VI.     Uniti nella differenza                   111

PARTE SECONDA: COME PENSIAMO

VII.    La critica, privatizzata e disarmata     129
VIII.   Il progresso: uguale e diverso           141
IX.     Usi della povertà                        147
X.      L'istruzione nell'età postmoderna        157
XI.     L'identità nel mondo in via di
        globalizzazione                          177
XII.    Fede e gratificazione istantanea         195

PARTE TERZA: COME AGIAMO

XIII.   L'amore ha bisogno della ragione?        207
XIV.    Morale privata, mondo immorale           221
XV.     I due fronti della democrazia            253
XVI.    Violenza vecchia e nuova                 259
XVII.   Sugli usi postmoderni del sesso          275
XVIII.  C'è vita dopo l'immortalità?             297

Indice dei nomi                                  315

 

 

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Pagina 7

Prologo
Vite raccontate e storie vissute



Secondo Pascal (Pensées, 412), la follia degli uomini è talmente necessaria che non essere folli sarebbe solo un altro modo di esserlo. Dalla follia non c'è scampo se non in un'altra forma di follia, ribadisce Ernest Becker commentando il verdetto di Pascal, e spiega: l'essere umano è «al di sopra della natura e insieme ineluttabilmente coinvolto in essa»; individualmente e collettivamente ci innalziamo oltre la finitudine della nostra vita corporea pur sapendo - e non potendo non sapere, anche se facciamo tutto il possibile (e ancor di più) per dimenticarcene - che il volo della vita ci conduce inevitabilmente (e letteralmente) all'incontro con la terra. Il dilemma non ha una soluzione in quanto proprio il nostro esserci innalzati al di sopra della natura ci permette di scrutare la nostra finitudine e la rende visibile, indimenticabile e dolorosa. Facciamo il possibile per avvolgere nel più grande segreto i nostri limiti naturali, ma se veramente riuscissimo in tale tentativo non avremmo ragione di protenderci «al di là» e «al di sopra» dei limiti che aneliamo a trascendere. È la pura e semplice impossibilità di dimenticare la nostra condizione naturale che ci stimola e al tempo stesso ci prepara a innalzarci al di sopra di essa. Poiché non abbiamo la facoltà di dimenticare la nostra natura possiamo (e dobbiamo) continuare a sfidarla:

tutto ciò che l'uomo fa nel suo mondo di simboli, è un tentativo per negare e superare il suo destino grottesco. Egli si slancia alla cieca, in un oblio inseguito nei giochi di società, in trucchi psicologici, in preoccupazioni così avulse dalla realtà vera della propria situazione da costituire forme di pazzia: pazzia convenuta, pazzia condivisa, pazzia dignitosa, ma por sempre pazzia!.

Convenuta, condivisa, dignitosa: dignitosa per via dell'atto della condivisione e del consenso, esplicito o implicito, a portare rispetto per ciò che è condiviso. Ciò che chiamiamo «società» è un colossale marchingegno che fa proprio questo; società è sinonimo di convenire e condividere, ma anche della facoltà di conferire dignità a ciò che è stato convenuto ed è condiviso. La società consiste di tale potere perché, proprio come la natura, essa era qui prima che tutti noi nascessimo e sarà qui quando non ci saremo più. Vivere in società - convenendo, condividendo e rispettando quello che condividiamo - è la sola ricetta per vivere felici (anche se non per sempre): gli usi, le abitudini e la routine eliminano il veleno dell'assurdo dal pungiglione della finalità della vita. La società, dice Becker, è «un mito vivente del senso della vita umana, una sfida creatrice di significato». Sono «folli» solo i significati non condivisi; la follia, se condivisa, non è follia.

Tutte le società sono fabbriche di significati, ma anche qualcosa di più: sono i vivai della vita piena di significato. La loro opera è indispensabile. Aristotele osservò che un essere solitario fuori dalla polis può essere solo un angelo o una bestia; nulla di sorprendente, potremmo dire, in quanto il primo è immortale e il secondo inconsapevole della propria mortalità. La sottomissione dell'individuo alla società, come sottolinea Émile Durkheim, è «la sua liberazione», la condizione stessa dell'emancipazione dalle «forze fisiche, cieche, inintelligenti».

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Pagina 31

Henry Ford affermò che la storia è «un mucchio di sciocchezze» e che «non vogliamo la tradizione»: «Vogliamo vivere nel presente e la sola storia che valga qualcosa è la storia che facciamo oggi». Lo stesso Henry Ford un giorno raddoppiò il salario dei suoi operai, spiegando che voleva che acquistassero le sue automobili. Naturalmente era un'affermazione scherzosa: le automobili acquistate dagli operai di Ford rappresentavano una frazione trascurabile delle vendite totali, mentre il raddoppio dei salari appesantiva notevolmente i costi di produzione. La vera ragione di questa mossa non convenzionale era il desiderio di Ford di frenare l'alta mobilità della manodopera: voleva legare i suoi dipendenti, una volta per tutte, alle imprese Ford e assicurarsi che il denaro investito nell'addestramento e nella formazione continuasse a fruttare per tutta la durata della vita lavorativa dei suoi operai. Per ottenere questo risultato doveva immobilizzare gli uomini che lavoravano per lui, rendendoli dipendenti dal lavoro nella sua fabbrica nella stessa misura in cui la sua ricchezza e il suo potere dipendevano dal loro lavoro.

Ford disse ad alta voce quello che altri si limitavano a sussurrare, o, piuttosto, arrivò a comprendere quello che altri, in situazioni analoghe, sentivano ma non erano in grado di esprimere con la stessa eloquenza. Pare dunque ben giustificato che sia il nome di Ford a denotare un modello universale delle intenzioni e delle pratiche tipiche della «modernità pesante» o del «capitalismo ortodosso». Il modello fordista di un ordine nuovo e razionale definì l'orizzonte della tendenza universale del tempo e fu un ideale che tutti o la maggior parte degli imprenditori contemporanei si sforzarono, con risultati alterni, di realizzare. L'ideale era di legare capitale e lavoro in un'unione che, come i matrimoni decisi in cielo, nessun potere umano potesse sciogliere.

La «modernità pesante» fu per l'appunto l'epoca del confronto tra capitale e lavoro, rafforzato dalla reciproca dipendenza: la sussistenza dei lavoratori dipendeva dal lavoro; per riprodursi e crescere, dal canto suo, il capitale doveva assumerli. Il luogo dove lavoro e capitale si incontravano era determinato; nessuno dei due poteva facilmente spostarsi altrove, e le massicce mura della fabbrica rinchiudevano entrambi i partner in una prigione comune. Capitale e lavoratori erano uniti, diremmo, in ricchezza e in povertà, in salute e in malattia, finché morte non li avesse separati. La fabbrica era la dimora di entrambi: da un lato lo scenario di una guerra di trincea, dall'altro la sede naturale di sogni e speranze.

Affinché capitale e lavoro sopravvivessero occorreva che l'uno e l'altro conservassero la natura di merce: i detentori del capitale dovevano mantenere la capacità di acquistare lavoro, i detentori della forza lavoro dovevano rimanere pronti, sani, forti e comunque attraenti per non scoraggiare i possibili compratori. Ciascuna delle due parti aveva l'«interesse acquisito» a mantenere l'altra nella giusta condizione. Non sorprende che la «rimercificazione» del capitale e del lavoro fosse diventata la funzione e l'interesse principale della politica e dello stato: i disoccupati erano un vero e proprio «esercito industriale di riserva» che doveva essere tenuto a disposizione, nel bene e nel male, nell'evenienza di un richiamo in servizio attivo. Il welfare state, concepito appunto a questo scopo, per tale ragione era autenticamente «né di destra né di sinistra»: un puntello senza il quale né il capitale né il lavoro potevano sopravvivere, e tanto meno muoversi e agire.

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Pagina 64

Può esistere la politica nella società individualizzata?

La capacità di autoaffermazione degli uomini e delle donne individualizzati non può essere equiparata, di regola, a quello che occorrerebbe per un'autentica autocostituzione. Come ha osservato Leo Strauss, il rovescio della libertà senza vincoli è la perdita di significato della scelta, e le due cose si condizionano reciprocamente: perché prendersi il disturbo di vietare quello che in ogni caso ha scarsa rilevanza? Un osservatore cinico direbbe che la libertà arriva quando non ha più importanza. Un dettaglio, l'odioso dettaglio dell'impotenza, guasta il dolce sapore della libertà prodotta dalle pressioni individualizzatrici; e tale impotenza appare tanto più odiosa e sconvolgente in considerazione delle maggiori potenzialità che la libertà avrebbe dovuto fornire e garantire.

Forse schierarsi spalla a spalla e marciare a tempo, come in passato, potrebbe risolvere la situazione? Forse se le facoltà individuali, per quanto tenui e misere, si condensassero in posizioni e azioni collettive si potrebbe, insieme, fare delle cose che nessun uomo e nessuna donna da soli si sognerebbero mai di fare? Il guaio è che di questi tempi i problemi più comuni degli «individui per destino» non sono additivi: non formano, sommandosi, una «causa comune». Già in partenza essi sono privi della sagoma o «interfaccia» adatta a farli combaciare con quelli degli altri. I problemi possono essere simili (e i sempre più popolari talk show fanno di tutto per dimostrare la loro somiglianza e per inculcare il messaggio che tale somiglianza dipende soprattutto dal fatto che ogni soggetto gestisce il proprio problema a modo suo), ma a differenza degli interessi comuni di tanto tempo fa essi non formano un «tutto maggiore della somma delle sue parti» e se vengono trattati e affrontati in maniera collettiva non acquisiscono una qualità diversa, più facilmente gestibile.

Il solo vantaggio che può venire dalla frequentazione degli altri sofferenti è la rassicurazione che lottare da soli contro i problemi è ciò che tutti fanno quotidianamente; in tal modo si rafforza la vacillante determinazione a continuare a fare per l'appunto questo: una lotta solitaria. Forse si può imparare dall'esperienza altrui come sopravvivere alla prossima ondata di «ridimensionamenti» aziendali, come trattare con bambini che pensano di essere adolescenti e con adolescenti che non vogliono diventare adulti, come espellere dal proprio «sistema» il grasso e altri sgraditi «corpi estranei», come liberarsi di dipendenze non più soddisfacenti o di partner non più gradevoli. Ma la prima cosa che si impara dalla compagnia degli altri è che il solo servizio che questa frequentazione può rendere è un consiglio su come sopravvivere nella propria irreparabile solitudine, e che la vita di chiunque è piena di rischi che si devono affrontare e combattere da soli.

C'è anche un altro ostacolo: come sospettò già molto tempo fa Tocqueville, rendere liberi può significare rendere indifferenti. L'individuo è il peggior nemico del cittadino, osservò Tocqueville; l'individuo tende a essere tiepido, scettico e diffidente nei confronti del «bene comune», della «società buona» o della «società giusta». Che senso ha parlare di interessi comuni se non si prevede che ciascun individuo possa soddisfare i propri? Tutto ciò che gli individui possono fare legandosi gli uni agli altri implica una limitazione della loro libertà di perseguire ciò che ritengono adatto per se stessi, e in ogni caso mettersi insieme non aiuta nella ricerca personale. Le due sole cose utili che si pretendono, e si desiderano, dai «pubblici poteri» sono l'osservanza dei «diritti umani», vale a dire permettere a ognuno di fare le proprie scelte, e consentire a ciascuno di farlo in pace, proteggendo la sicurezza della persona e della proprietà, chiudendo i criminali in prigione e tenendo libere le strade da rapinatori, pervertiti, accattoni e stranieri sgradevoli e malintenzionati.

Con il suo solito inimitabile umorismo, Woody Allen sottolinea le manie e le debolezze degli individui a comando di quest'epoca tardomoderna quando passa in rassegna volantini immaginari che pubblicizzano «corsi estivi per adulti» grandemente apprezzati dagli americani: il corso di Teoria economica comprende la voce «Inflazione e depressione: come vestirsi per l'una e per l'altra»; nel corso di Etica figura «L'imperativo categorico e sei modi per farne buon uso»; il programma del corso di Astronomia informa che «Il sole, che è composto di gas, può esplodere da un momento all'altro distruggendo completamente il nostro sistema planetario; gli studenti impareranno cosa può fare il cittadino medio in tale circostanza».

Per riassumere: sembra che l'altra faccia dell'individualizzazione siano la corrosione e la lenta disintegrazione della cittadinanza.

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Pagina 95

Capitolo quinto
Sono forse il custode di mio fratello?



Il professar van der Laan mi ha gentilmente inviato una serie di ponderati e penetranti studi il cui argomento, sottolineava, erano «rilevanti problematiche dei servizi sociali nei Paesi Bassi». Gliene sono grato, perché da lui ho appreso molte cose sui problemi che assorbono l'attenzione degli operatori sociali in quel paese. Gli sono particolarmente grato, però, perché questa lettura mi ha confermato che le preoccupazioni degli operatori sociali olandesi non sono diverse da quelle degli addetti ai servizi sociali di altri paesi europei. Nel suo articolo il professor van der Laan riassume molto bene quel senso diffuso di disagio quando afferma che il welfare state è criticato in quanto colpevole di concedere ai propri assistiti un giaciglio sul quale adagiarsi, mentre un'autentica rete di sicurezza dovrebbe piuttosto fungere da trampolino. In altri termini, il welfare state è accusato di non voler rimuovere le ragioni della propria esistenza.

Il vero compito dei servizi sociali dovrebbe essere, ci dicono, quello di eliminare i disoccupati, gli handicappati, gli invalidi e gli altri individui indolenti che per una ragione o per l'altra non riescono a tirare avanti da soli e sopravvivono, quindi, grazie all'assistenza; ciò con ogni evidenza non sta accadendo. Poiché i servizi sociali, ci sentiamo dire, dovrebbero essere giudicati come ogni altra attività umana sulla base del rapporto costi/benefici, nella forma corrente essi non «hanno giustificazione sul piano economico»; per giustificare la loro esistenza occorrerebbe che rendessero indipendenti le persone dipendenti e facessero camminare sulle loro gambe gli storpi. Il postulato tacito e raramente esplicitato è che non c'è spazio, nella società dei giocatori, per le persone non indipendenti, quelle che non partecipano al gioco del vendere e comprare. «Dipendenza» è diventata una parola sporca che denota qualcosa di cui le persone ragionevoli dovrebbero vergognarsi.

Quando Dio chiese a Caino dove fosse Abele, Caino rispose irato con un'altra domanda: «Sono forse il custode di mio fratello?». Il massimo filosofo morale del nostro secolo, Emmanuel Lévinas, commenta: quella rabbiosa domanda di Caino è all'origine di ogni immoralità. Naturalmente io sono il custode di mio fratello, e sono e rimango un essere morale fintanto che non pretendo una ragione particolare per esserlo. Che lo ammetta o no, io sono il custode di mio fratello in quanto il benessere di mio fratello dipende da quello che faccio o mi astengo dal fare. E sono un essere morale perché riconosco quella dipendenza e accetto la responsabilità che ne consegue. Nel momento in cui metto in dubbio quella dipendenza e chiedo come Caino che mi si dica per quale ragione dovrei curarmene, abdico alla mia responsabilità e non sono più un soggetto morale. La dipendenza di mio fratello è quello che mi rende un essere etico; dipendenza ed etica si reggono insieme e insieme vanno a picco.

A pensarci bene, il netto giudizio di Lévinas non è nuovo, in quanto ribadisce semplicemente in termini piuttosto originali quello che fu, per millenni, il nucleo degli insegnamenti giudaico-cristiani, riprendendo ed estendendo la nostra comune concezione dell'umanità e dell'essere civilizzato. Con le sue parole Lévinas fa del bisogno dell'altro, e della responsabilità di soddisfare tale bisogno, la pietra angolare della moralità, e dell'accettazione di tale responsabilità l'atto di nascita dell'individuo morale. Ma se il giudizio di Lévinas non è nuovo, devono essere nuovi l'irrisione e il disprezzo per la dipendenza e il marchio d'infamia che l'ha colpita, forse addirittura la più profonda e radicale delle novità con cui la civiltà giudaico-cristiana ha dovuto confrontarsi nella sua lunga storia. Vale la pena fermarci a riflettere su tale novità e sulle sue cause quando celebriamo l'anniversario dell'audace iniziativa che oggi, cento anni dopo, viene invitata a scusarsi dei propri risultati.

Se la domanda di Caino viene ripetuta oggi in forme diverse in tutta Europa e se il welfare state è dovunque sotto accusa, è perché si è ormai disintegrata la combinazione unica di fattori che portò alla sua istituzione facendolo apparire come la condizione naturale della società moderna. Possiamo dire che al momento della sua nascita il welfare state fu «sovradeterminato»; analogamente sovradeterminati sono oggi il risentimento verso gli istituti del welfare state e il loro graduale smantellamento.

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Capitolo ottavo
Il progresso: uguale e diverso



Il municipio di Leeds, la città in cui ho vissuto negli ultimi trent'anni, è un grandioso monumento alle ambizioni e all'altrettanto grandiosa baldanza dei capitani della rivoluzione industriale. Costruito a metà dell'Ottocento, imponente e opulento, mescolanza architettonica di Partenone e tempio faraonico, ha al suo centro un'enorme sala riunioni appositamente progettata affinché i borghesi potessero incontrarsi regolarmente per discutere e decidere i passi ulteriori da prendere sulla strada della maggior gloria della città e dell'Impero britannico. Sul soffitto della sala sono dipinte, in lettere d'oro e porpora, le regole che vincolavano tutti coloro che percorrevano quella strada. Tra i principi sacrosanti di un'etica domestica, come «L'onestà è la migliore politica», «Auspicium melioris aevi» o «Legge e ordine», un precetto colpisce per la sua sicura e inflessibile brevità: «Avanti». A differenza di chi visita oggi il municipio, coloro che scrissero questa parola non dovevano nutrire dubbi sul suo significato; essi conoscevano la differenza tra «avanti» e «indietro» e si sentivano abbastanza forti da riuscire a rimanere in carreggiata senza deviare dalla direzione scelta.

Il 25 maggio 1916 Henry Ford disse al corrispondente del «Chicago Tribune»: «La storia è un mucchio di sciocchezze. Non vogliamo la tradizione. Vogliamo vivere nel presente e la sola storia che valga qualcosa è la storia che facciamo oggi». Ford era famoso per dire ad alta voce e senza mezze misure quello che altri avrebbero confessato solo con riluttanza. Progresso? Non consideratelo l'«opera della storia»: è il nostro lavoro, il lavoro di noi altri che viviamo nel presente. La sola storia che conta è quella non ancora scritta, quella che viene scritta in questo momento e che è destinata a essere scritta: vale a dire il futuro (che dieci anni prima un altro americano pragmatico e concreto, Ambrose Bierce, aveva definito nel Dizionario del diavolo «quel periodo di tempo nel quale i nostri affari prosperano, i nostri amici sono sinceri e la nostra felicità è assicurata»). Ford avrebbe sottoscritto trionfante la triste conclusione cui Bourdieu è giunto recentemente in Controfuochi: per dominare il futuro è necessario far presa sul presente. La persona che tiene in pugno il presente può confidare di essere in grado di costringere il futuro a darle prosperità e proprio per questa ragione può ignorare il passato: quella persona può veramente fare della storia passata un «mucchio di sciocchezze», assurdità, vane millanterie, imposture. O quanto meno non concederle più attenzione di quanta ne meritino cose del genere. Il progresso non innalza o nobilita la storia. Il progresso è una dichiarazione dell'intento di svalutarla e cancellarla.

È questo il punto. Il progresso non si identifica con alcuno degli attributi della storia, bensì con la sicurezza del presente. Il significato più profondo, forse l'unico, del progresso è sentire che il tempo è dalla nostra parte perché siamo quelli che fanno accadere le cose. Quant'altro tendiamo a dire sull'«essenza» dell'idea di progresso è un comprensibile ma fuorviante e futile tentativo di «ontologizzare» quel sentimento. La storia è davvero una marcia verso una vita migliore e una maggiore felicità? Se fosse vero come potremmo saperlo? Noi che lo diciamo non abbiamo vissuto nel passato, e coloro che vissero nel passato non vivono oggi, dunque chi può fare il confronto? Sia che fuggiamo nel futuro spinti dagli orrori del passato, come l'Angelo della Storia di Benjamin e Klee, sia che ci affrettiamo verso di esso trascinati dalla speranza che i nostri affari prospereranno, la sola evidenza su cui possiamo basarci è il gioco della memoria e dell'immaginazione, e ciò che le lega o le separa è la nostra fiducia o la sua assenza. Il progresso è un assioma per le persone fiduciose di poter cambiare le cose; a coloro che si sentono sfuggire tutto di mano l'idea di progresso non verrebbe nemmeno in mente e, qualora proposta, apparirebbe risibile. Tra le due condizioni polari c'è poco spazio per un dibattito sine ira et studio, per non parlare di una convergenza. Ford forse applicherebbe al progresso l'opinione che espresse a proposito dell'esercizio fisico: «L'esercizio è una cosa sciocca. Se stai bene non ti serve; se sei malato non lo puoi fare».

Ma se la fiducia in se stessi - il sentimento rassicurante di «far presa sul presente» - è il solo fondamento su cui poggia la fede nel progresso, non sorprende che ai nostri giorni quella fede sia destinata a vacillare. Le ragioni non sono difficili da scoprire.

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Pagina 151

Giorno dopo giorno, però, i poveri del mondo e i poveri della nazione svolgono la loro silenziosa opera di erosione della fiducia e della risolutezza di tutti coloro che ancora hanno un lavoro e un reddito regolari. Non c'è nulla di irrazionale nel nesso tra la miseria dei poveri e la resa dei non poveri. La vista degli indigenti ricorda opportunamente a tutti gli individui giudiziosi e assennati che anche la prosperità è insicura, e che il successo di oggi non garantisce contro la caduta di domani. C'è la sensazione, ben fondata, che il mondo sia sempre più sovrappopolato, che la sola scelta a disposizione dei governi sia, nel migliore dei casi, tra una povertà diffusa con un alto tasso di disoccupazione, come nella maggior parte dei paesi europei, e una povertà diffusa con un tasso di disoccupazione un po' inferiore, come negli Stati Uniti. La ricerca specialistica conferma tale sensazione: i lavori retribuiti sono sempre meno numerosi. Questa volta la disoccupazione appare più sinistra che mai; non sembra il prodotto di una depressione economica ciclica, un addensamento temporaneo di miseria che sarà dissipato e spazzato via dal prossimo boom economico. Le promesse dei politici di risolvere la cosa con un «ritorno al lavoro» assomigliano in modo inquietante all'apocrifa reazione di Barry Goldwater di fronte alla minaccia nucleare: «mettiamo i carri in cerchio». Come afferma Jean-Paul Maréchal, durante l'età dell'«industrializzazione pesante» la necessità di edificare enormi infrastrutture industriali e di costruire grandi macchine permise la creazione regolare di nuovi posti di lavoro in misura superiore ai vecchi che venivano distrutti dalla cancellazione di competenze e mestieri tradizionali; con ogni evidenza, oggi non è più così. Fino agli anni settanta il rapporto tra aumento della produttività e livelli occupazionali rimase positivo; da allora diventa di anno in anno più negativo. Una soglia importante sembra essere stata valicata nel corso degli anni settanta; le statistiche recenti la dicono lunga sulle ragioni per sentirsi insicuri anche con il più stabile e regolare dei lavori.

La diminuzione del numero degli occupati non è, comunque, il solo motivo di insicurezza. I posti di lavoro che ancora esistono non sono più corazzati contro i rischi imprevedibili del futuro; oggi il lavoro è, si potrebbe dire, una prova generale quotidiana della ridondanza. L'«economia politica dell'incertezza» ha fatto in modo che le difese ortodosse venissero smantellate e che le truppe che le pattugliavano venissero anch'esse smobilitate. Il lavoro è diventato «flessibile», cosa che in parole povere significa che per il datore di lavoro oggi è più facile licenziare i propri dipendenti a volontà e senza indennizzo, e che l'azione solidale ed efficace dei sindacati in difesa delle persone ingiustamente licenziate sembra sempre più chimerica. «Flessibilità» significa anche negazione della sicurezza: i lavori disponibili sono sempre più a tempo parziale o a tempo determinato, la maggioranza dei contratti è «rinnovabile» a intervalli sufficientemente frequenti da impedire che prenda forza il diritto a una relativa stabilità. «Flessibilità» significa anche che ha sempre meno senso la vecchia strategia di vita che consisteva nell'investire tempo e sforzi nell'acquisizione di competenze specialistiche nella speranza di incassarne con regolarità gli interessi; in tal modo è diventata indisponibile anche questa strategia razionale, un tempo comunissima tra coloro che aspiravano a una vita sicura.

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Pagina 157

Capitolo decimo
L'istruzione nell'età postmoderna



Riassumendo decine di anni dedicati allo studio degli stili di vita praticati da numerose società differenti, vicine e lontane, Margaret Mead giunse alla seguente conclusione:

La struttura sociale di una società e il modo in cui è strutturato l'apprendimento - il modo in cui passa dalla madre alla figlia, dal padre al figlio, dal fratello della madre al figlio della sorella, dallo sciamano al novizio, dagli specialisti di mitologia agli aspiranti specialisti - determina, ben al di là del contenuto concreto dell'apprendimento, sia come gli individui impareranno a pensare che come vengono condivisi e usati i depositi culturali, la somma totale dei singoli pezzi di abilità e conoscenza!.

In quest'affermazione Mead non si richiama al concetto di «deutero-apprendimento» o di «apprendere ad apprendere», coniato un quarto di secolo prima da Gregory Bateson, suo compagno nella vita; tuttavia rende chiaramente omaggio alla sua concezione quando assegna il ruolo primario e decisivo nel processo d'insegnamento e di apprendimento al contesto sociale e al modo in cui il messaggio è veicolato, piuttosto che al contenuto dell'istruzione. Il contenuto - oggetto di quello che Bateson chiama «proto-apprendimento» (apprendimento primario o «apprendimento di primo grado») - può essere contemplato a occhio nudo, monitorato e registrato, progettato e pianificato; il deutero-apprendimento invece è, per così dire, un processo sotterraneo quasi mai percepito consciamente e ancor meno di frequente monitorato dai suoi partecipanti, e solo vagamente collegato all'argomento apparente dell'istruzione. È nel corso del deutero-apprendimento, raramente sotto il controllo consapevole degli educatori incaricati o autoproclamatisi tali, che i destinatari dell'azione educativa acquisiscono competenze incomparabilmente più importanti per la loro vita futura rispetto alla minutaglia di conoscenze, anche la più scrupolosamente selezionata, che si combinano nei programmi di studio formali o informali. Essi acquisiscono

la capacità di cercare contesti e sequenze di un tipo piuttosto che di un altro, un'abitudine a «segmentare» il flusso degli eventi per evidenziarvi ripetizioni di un certo tipo di sequenza significativa. [...] gli stati mentali che chiamiamo «libero arbitrio», pensiero strumentale, passività, dominanza, ecc., sono acquisiti tramite un processo che si può assimilare all'«apprendere ad apprendere».

In seguito Bateson avrebbe puntualizzato che il deutero-apprendimento, quell'«apprendere ad apprendere», è non solo inevitabile ma anche un complemento indispensabile di ogni proto-apprendimento; senza il deutero-apprendimento, l'«apprendimento di primo grado» darebbe come risultato una mente incartapecorita e fossilizzata incapace di assimilare una situazione mutata o anche solo non prevista in anticipo. Molti anni dopo, come in una sorta di ripensamento, Bateson sentì il bisogno di completare il concetto di «apprendimento di secondo grado» con quello di «apprendimento di terzo grado» o «apprendimento terziario», quando il soggetto che partecipa al processo educativo acquisisce le competenze per modificare l'insieme di alternative che ha appreso ad attendersi e a padroneggiare nel corso del deutero-apprendimento.

Il deutero-apprendimento conserva il suo valore adattativo e compie appieno la sua funzione solo nella misura in cui i discenti hanno buone ragioni di attendersi che le contingenze che incontreranno andranno a inserirsi in un determinato modello stabile; per dirla con parole diverse, l'utilità o l'innocuità delle abitudini acquisite nel corso del deutero-apprendimento dipende non tanto dalla diligenza e dai talenti dei discenti e dalla competenza e dalla solerzia dei loro insegnanti, quanto dagli attributi del mondo in cui gli ex allievi sono destinati a vivere la loro vita.

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Ciò che si è detto qui a proposito delle università è applicabile all'intero sistema educativo attuale. Il coordinamento (forse persino l'armonia preordinata) tra lo sforzo di «razionalizzare» il mondo e lo sforzo di educare esseri razionali adatti ad abitarvi, ossia l'assunto di fondo del progetto educativo moderno, non pare più credibile. E con lo sbiadire della speranza di giungere a un controllo razionale sull'habitat sociale della vita umana, il valore adattativo dell'apprendimento terziario diventa sempre più evidente. «Preparare per la vita», compito perenne e invariabile di ogni educazione, deve significare per prima cosa coltivare la capacità di convivere giorno per giorno e pacificamente con l'incertezza e l'ambivalenza, con una pluralità di punti di vista e con l'assenza di autorità infallibili e attendibili; deve significare inculcare la tolleranza della differenza e la volontà di rispettare il diritto a essere differenti; deve significare il rafforzamento delle facoltà di critica e autocritica e del coraggio necessario per assumersi le responsabilità delle proprie scelte e delle relative conseguenze; deve significare l'addestramento alla capacità di «cambiare i contesti» e di resistere alla tentazione di rifuggire la libertà, con l'ansia dell'indecisione che questa si porta dietro assieme alle gioie del nuovo e dell'inesplorato.

Il punto è, però, che queste qualità possono difficilmente essere sviluppate pienamente attraverso quell'aspetto del processo educativo che meglio si presta ai poteri di progettazione e di controllo dei teorici e dei professionisti dell'educazione: l'aspetto che si esprime attraverso i contenuti verbali espliciti dei programmi di studio e si incentra su quello che Bateson ha chiamato «proto-apprendimento». Si potrebbe nutrire maggiore speranza nella dimensione educativa del deutero-apprendimento, che tuttavia sappiamo meno sensibile alla progettazione e a un controllo generale e totale. Invece le qualità in questione possono emergere soprattutto dalla dimensione dei processi educativi detta dell'«apprendimento terziario», che è collegata non a un programma determinato e alla definizione di un particolare evento educativo, ma proprio alla varietà di programmi ed eventi intersecantisi e concorrenti.

Nei limiti in cui sono valide le osservazioni precedenti, la filosofia e la teoria pedagogica si trovano di fronte al compito inconsueto e impegnativo di teorizzare un processo formativo che non è guidato fin dall'inizio da un tipo di bersaglio pianificato in anticipo, di modellare senza conoscere o visualizzare chiaramente il modello cui mirare; un processo che nel caso migliore può far presagire, mai imporre, i propri risultati e che ingloba tale limitazione nella propria struttura; in breve, un processo aperto, interessato più a rimanere aperto che a fornire un prodotto specifico, e timoroso più di una conclusione prematura che della prospettiva di un'eterna inconcludenza.

Questa è forse la sfida più ardua che i filosofi della pedagogia, assieme ai colleghi delle altre branche della filosofia, si sono trovati ad affrontare nella storia moderna della loro disciplina.

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