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| << | < | > | >> |IndiceRingraziamenti VII Introduzione 3 1. In principio fu il progetto. Ovvero i rifiuti della costruzione di ordine 13 2. Loro sono troppi? Ovvero i rifiuti del progresso economico 45 3. A ciascun rifiuto la sua discarica. Ovvero i rifiuti della globalizzazione 79 4. Cultura dei rifiuti 117 Note 167 |
| << | < | > | >> |Pagina 8«Il pianeta è saturo» è una affermazione che riguarda la sociologia e le scienze politiche. Si riferisce non allo stato della Terra, ma ai modi e mezzi adottati dai suoi abitanti per vivere. Segnala la scomparsa delle no man's lands, o terre di nessuno, cioè di quei territori che possono essere definiti e/o trattati come vuoti di abitanti umani, nonché privi di un'amministrazione sovrana, quindi aperti alla colonizzazione e all'insediamento, che anzi reclamano a gran voce. Questi territori, oggi largamente assenti, per gran parte della storia moderna hanno svolto il ruolo cruciale di discariche per i rifiuti umani sfornati in quantitativi sempre crescenti nelle parti del pianeta investite dai processi di «modernizzazione».La produzione di «rifiuti umani» o, più precisamente, di esseri umani scartati (quelli in «esubero», «eccedenti», cioè la popolazione composta da coloro cui non si poteva, o non si voleva, dare il riconoscimento o il permesso di restare), è un risultato inevitabile della modernizzazione e una compagna inseparabile della modernità. È un ineludibile effetto collaterale della costruzione di ordine (ogni forvia di ordine scarta alcune parti della popolazione esistente come «fuori posto», «inidonee» o «indesiderate»), e del progresso economico (che non può andare avanti senza degradare e svalutare i modi di «procurarsi da vivere» che in passato erano efficaci, e che quindi non può che privare del sostentamento chi quei modi praticava). Tuttavia, per gran parte della storia moderna, regioni immense del pianeta (le regioni «arretrate», «sottosviluppate», se misurate col metro delle ambizioni delle aree del pianeta già moderne, cioè consegnate a una modernizzazione ossessiva) sono rimaste in tutto o in parte immuni dalle pressioni della modernizzazione stessa, sottraendosi così al loro effetto di «sovrappopolazione». Di fronte alle nicchie del pianeta in via di modernizzazione, queste regioni («premoderne». «sottosviluppate») hanno cominciato a essere considerate e trattate come terre in grado di assorbire l'eccesso di popolazione del «paesi sviluppati»: destinazioni naturali per esportazione di «esseri umani in esubero» e, ovviamente, discariche belle e pronte per i rifiuti umani della modernizzazione. Lo smaltimento dei rifiuti umani prodotti nelle aree del pianeta «modernizzate» e in quelle «in via di modernizzazione» è stato il senso più profondo della colonizzazione e delle conquiste imperialistiche – entrambe rese possibili, anzi inevitabili, dal differenziale di potere riprodotto incessantemente dalla pura e semplice disparità dello «sviluppo» (chiamata eufemisticamente «ritardo culturale»), che a sua volta deriva dal fatto che il modo di vivere moderno è circoscritto a un settore «privilegiato» del pianeta –. Tale disparità ha consentito alla porzione moderna del pianeta di cercare, e trovare, soluzioni globali a problemi di «sovrappopolazione» prodotti localmente. Questa situazione poteva durare finché la modernità (cioè una modernizzazione perpetua, compulsiva, ossessiva e generatrice di dipendenza) rimaneva un privilegio. Una volta che la modernità si è trasformata – come era inteso e inevitabile che fosse – nella condizione universale del genere umano, gli effetti del suo dominio planetario sono ricaduti su chi li ha provocati. Ora che il progresso trionfante della modernizzazione ha raggiunto le terre più remote del pianeta, che la quasi totalità della produzione e del consumo umani sono mediati dal denaro e dal mercato, e che i processi della mercificazione, della commercializzazione e della monetarizzazione dei mezzi di sussistenza umani hanno penetrato ogni crepa e ogni fessura del pianeta, non sono più disponibili soluzioni globali ai problemi prodotti localmente, né sfoghi globali per eccessi locali. Anzi è proprio il contrario: tutte le località (comprese segnatamente quelle altamente modernizzate) devono sopportare le conseguenze del trionfo globale della modernità. Si trovano ora di fronte all'esigenza di cercare (invano, a quante pare) soluzioni locali a problemi prodotti globalmente. Per farla breve: la recente saturazione del pianeta significa essenzialmente une crisi acuta dell'industria dello smaltimento dei rifiuti umani. Mentre la produzione di rifiuti umani prosegue senza posa e tocca nuove vette, il pianeta resta rapidamente a corto di discariche e di strumenti per il riciclaggio dei rifiuti. Per rendere ancor più complesso e minaccioso questo stato di cose già fastidioso, alle due originarie si è aggiunta una nuova, potente fonte di «esseri umani di scarto». La globalizzazione è diventata la terza, e attualmente la più prolifica e meno controllata, «linea di produzione» di rifiuti umani o di esseri umani di scarto. Ha anche dato una nuova mano di vernice al vecchio problema e lo ha impregnato di un senso tutto nuovo e di un'urgenza senza precedenti. La diffusione globale della forma di vita moderna ha sprigionato e messo in moto quantità enormi e sempre crescenti di esseri umani, privati dei loro modi e mezzi, finora sufficienti, di sopravvivenza nel senso sia biologico, sia socio-culturale della parola. Per le conseguenti pressioni demografiche – le vecchie e ben note pressioni colonialiste, ma in direzione opposta – non vi sono sfoghi prontamente disponibili, né per il «riciclaggio», né per uno «smaltimento» sicuro. Di qui gli allarmi per la sovrappopolazione del pianeta; di qui anche la nuova centralità, dei problemi relativi agli «immigrati» e a quelli che chiedono «asilo», nell'agenda politica contemporanea, e il ruolo crescente che certi vaghi e diffusi «timori per la sicurezza» svolgono nelle strategie globali emergenti e nella logica delle lotte di potere. La natura essenzialmente primordiale, non regolamentata e politicamente incontrollata dei processi di globalizzazione, ha dato luogo alla creazione di condizioni da «terra di frontiera» di nuovo tipo nello «spazio dei flussi» planetario cui è stata trasferita gran parte della capacità di potenza che un tempo risiedeva nei moderni Stati sovrani. L'equilibrio fragile e inguaribilmente precario degli assetti da terra di frontiera poggia notoriamente sulla «vulnerabilità reciprocamente garantita». Di qui gli allarmi per il deterioramento delle condizioni di sicurezza, che alimentano le già abbondanti scorte di «timori per la sicurezza», e al tempo stesso distolgono le preoccupazioni dell'opinione pubblica e gli sfoghi dell'ansia individuale dalle radici economiche e sociali dei problemi per spostarli verso i timori per l'incolumità (fisica) personale. A sua volta, la fiorente «industria della sicurezza» diventa rapidamente una delle branche principali della produzione di rifiuti e il fattore primario del problema dello smaltimento dei rifiuti. Questo è, a grandi linee, lo scenario della vita contemporanea. I «problemi dei rifiuti (umani) e del loro smaltimento» gravano sempre più sulla cultura liquido-moderna, consumista, dell'individualizzazione. Impregnano tutti i settori più importanti della vita sociale e tendono a dominare le strategie di vita e a condizionare le più importanti attività della vita, stimolandole a generare anche loro i propri rifiuti sui generis: rapporti umani nati morti, inidonei, invalidi, o non in grado di vivere, nati con addosso il marchio dell'imminente smaltimento. Questi temi, e alcune delle loro conseguenze, sono al centro di questo libro. L'analisi che qui ne viene fatta è preliminare. La mia cura principale, e forse l'unica, è presentare un punto di vista alternativo da cui partire per fare un bilancio di quegli aspetti della vita moderna che i recenti sviluppi hanno fatto emergere dall'oscurità e portato in piena luce, consentendo che certe sfaccettature del mondo contemporaneo siano viste meglio e la loro logica sia meglio compresa. Il libro va letto come un invito a guardare ancora una volta, e magari con occhi un po' diversi, il fin troppo familiare – o così si dice – mondo moderno che tutti condividiamo e abitiamo. | << | < | > | >> |Pagina 13Vero è che anche noi cinque non ci conoscevamo prima [...] non ci conosciamo nemmeno adesso, ma ciò che per noi è possibile ed è tollerato, per quel sesto non è possibile e non viene tollerato. Inoltre siamo in cinque e non vogliamo essere in sei [...] Lunghe spiegazioni sarebbero già quasi un accoglierlo nel nostro circolo; preferiamo non dare spiegazioni e non accoglierlo Franz Kafka Vita in comune, in Tutti i racconti, Milano 1979, p. 395 Secondo un recente rapporto della Joseph Rowntree Foundation, il numero dei giovani alle prese con la depressione è raddoppiato in dodici anni, visto che centinaia di migliaia di essi si ritrovano esclusi dall'innalzamento dei livelli di istruzione e di benessere... Nel 1981, quando è stato chiesto ad alcuni giovani nati nel 1958 di completare un questionario sul loro stato di salute mentale, è emerso che il 7 per cento aveva una tendenza alla depressione non clinica. Per la classe del 1970, intervistata nel 1996, la cifra corrispondente è stata del 14 per cento. L'analisi di queste risultanze indica che quell'aumento era legato al fatto che il gruppo più giovane era cresciuto più esposto alla disoccupazione. I detentori di un titolo di studi pari alla laurea avevano il 30 per cento in meno di probabilità di essere depressi. La depressione è un disturbo mentale assai spiacevole, tormentoso e invalidante, ma, come indicano questo rapporto e numerosi altri, non è l'unico sintomo del malessere che pervade la nuova generazione nata nel mondo attuale, il mondo liquido-moderno, mentre, a quanto pare, non affliggeva — o almeno non nella stessa misura — la generazione immediatamente precedente. Una «maggiore esposizione alla disoccupazione», per quanto sia indubbiamente traumatica e penosa, non sembra essere l'unica causa del malessere. La cosiddetta «Generazione X», cioè i giovani di ambo i sessi nati negli anni Settanta in Gran Bretagna o in altri paesi «sviluppati», conosce disturbi di cui le precedenti erano inconsapevoli. Non necessariamente disturbi più numerosi, o disturbi più acuti, penosi e mortificanti, ma disturbi distintamente diversi, dunque nuovi: si potrebbe dire malattie e afflizioni «specificamente liquido-moderne». Insomma, questa generazione ha i suoi motivi tutti nuovi (alcuni dei quali si sono sostituiti a quelli tradizionali, mentre altri vi si sono sommati) per sentirsi agitata, turbata e spesso danneggiata — anche se gli analisti e i guaritori di nomina ufficiale, seguendo le inclinazioni naturali che tutti condividiamo, ricorrono, con bel pragmatismo, alle diagnosi che meglio ricordano e alle cure più largamente in uso al tempo in cui sono stati formati a ricercarle e a raccomandarle. Ebbene, una delle diagnosi più largamente disponibili è la disoccupazione, in particolare le scarse prospettive di impiego per chi finisce gli studi ed entra per la prima volta in un mercato che cerca di aumentare i profitti tagliando i costi della manodopera e smantellando gli assets, anziché attraverso la creazione di nuovi posti di lavoro e la costruzione di nuovi assets. Una delle cure prese in esame più comunemente sono le sovvenzioni statali, che trasformino l'assunzione di giovani in un buon affare (finché durano le sovvenzioni). Uno dei consigli più comunemente dispensati ai giovani, nel frattempo, è di essere flessibili e non particolarmente schizzinosi, di non aspettarsi troppo dal loro lavoro, di prendere i lavori come vengono senza fare troppe domande e di viverli come un'occasione di cui approfittare nell'immediato finché dura, piuttosto che come capitolo introduttivo a un «progetto di vita», qualcosa che ha a che vedere con l'autostima e la definizione di sé, o una garanzia di sicurezza nel lungo periodo. L'idea-pacchetto di «disoccupazione» contiene quindi (e ciò è rassicurante) una diagnosi del problema, completa della miglior cura disponibile e di un elenco di procedure lineari e banali in modo consolante da seguire sulla via della convalescenza. Il prefisso «dis-» indica un'anomalia: «disoccupazione» è il nome di una condizione manifestamente temporanea e anormale, quindi la natura del disturbo è palesemente passeggera e curabile. Il concetto di disoccupazione eredita il suo carico semantico dall'autoconsapevolezza di una società che un tempo proponeva i suoi membri soprattutto come produttori e che credeva anche nella piena occupazione non soltanto come condizione sociale desiderabile e raggiungibile, ma come propria destinazione ultima; una società che può quindi proporre l'occupazione come una chiave — la chiave — alla soluzione simultanea di problemi come quello di un'identità personale socialmente accettabile, di una posizione sociale sicura, della sopravvivenza individuale e collettiva, dell'ordine sociale e della riproduzione del sistema. | << | < | > | >> |Pagina 45Loro sono sempre troppi. «Loro» sono quelli che dovrebbero essere di meno o, meglio ancora, non esserci proprio. Invece noi non siamo mai abbastanza. Di «noi» dovrebbero essercene di più. Secondo un'autorità come l'Oxford English Dictionary, nessun uso della parola «sovrappopolazione» era mai stato registrato sino alla fine del XIX secolo, per l'esattezza fino al 1870. E ciò malgrado il fatto che, poco prima dell'inizio di quel secolo, precisamente nel 1798, Thomas Robert Malthus avesse pubblicato il suo Saggio sul principio della popolazione. In quell'opera, egli sosteneva con decisione che l'incremento della popolazione avrebbe sempre superato l'aumento delle disponibilità di generi di sussistenza, e che, a meno di non porre un freno alla fertilità umana, non vi sarebbe mai stato abbastanza cibo per tutti. Confutare la tesi di Malthus e demolire le sue argomentazioni è stato un passatempo in gran voga fra gli eminenti portavoce dello spirito moderno, intraprendente, chiassoso e sicuro di sé. Effettivamente, il «principio della popolazione» malthusiano contraddiceva tutto ciò che la promessa della modernità rappresentava: la sua certezza che a ogni miseria umana c'è rimedio, che con il passare del tempo le soluzioni si trovano e si applicano, che tutte le esigenze umane insoddisfatte trovano risposta e che la scienza e il suo braccio pratico, la tecnologia, sono destinate prima o poi a elevare le realtà umane allo stesso livello delle umane potenzialità, mettendo fine, una volta per tutte, all'irritante divario fra ciò che è e ciò che dovrebbe essere. Quel secolo credeva (ed era quotidianamente confortato nella sua credenza dal coro intonato dei filosofi e degli statisti) che un maggior potere (soprattutto industriale e militare) umano avrebbe reso possibile, anzi inevitabile, la conquista della felicità, e che la potenza e la ricchezza delle nazioni si misurassero in base al numero dei loro operai e soldati. In realtà, nella regione del mondo dove la profezia di Malthus fu concepita e contestata, nulla indicava che l'aumento della popolazione avrebbe ridotto i beni necessari alla sopravvivenza umana. Al contrario, la potenza lavorativa e quella bellica – e quanto maggiori erano, tanto meglio – apparivano come la principale e più efficace cura contro il flagello della penuria. Sparse per il mondo vi erano terre infinitamente estese e favolosamente ricche, punteggiate di chiazze vuote e scarsamente popolate: territori praticamente disabitati, in attesa di essere conquistati e colonizzati. Ma per invaderli e conservarli occorrevano temibili eserciti e colossali impianti industriali pullulanti di addetti. Grande era bello... e redditizio. Popolazione numerosa significava grande potenza. Grande potenza significava grandi conquiste territoriali. Grandi conquiste territoriali significavano grande ricchezza. Grandi terre e grande ricchezza significavano spazio per un gran numero di persone. Quod erat demonstrandum. | << | < | > | >> |Pagina 49[...] Charles Darwin riassumeva così la saga del processo di «civilizzazione del selvaggi» guidato dall'Europa: «Là dove e passato l'europeo, la morte sembra inseguire l'aborigeno».Per un'ironia della storia, lo sterminio degli aborigeni per far posto alla popolazione europea in esubero (cioè per preparare i luoghi al ruolo di discariche dei rifiuti umani che il progresso economico in patria produceva in sempre maggior quantità) fu perpetrato nel nome di quello stesso progresso che riciclava gli europei in esubero trasformandoli in «migranti economici». Così, ad esempio, Theodore Roosevelt presentava lo sterminio degli Indiani d'America come un servizio altruistico reso alla causa della civiltà: «Il colono e il pioniere in fondo avevano la giustizia dalla loro parte: questo grande continente non avrebbe potuto restare semplicemente una riserva di caccia per squallidi selvaggi». Mentre il generale Roca, responsabile del famigerato episodio della storia argentina che va sotto l'eufemistico appellativo di «conquista del deserto» – ma che in realtà fu la «pulizia etnica» delle pampas dagli indios che le popolavano – spiegava ai suoi connazionali che il rispetto di se stessi li costringeva «ad abbattere il prima possibile, con la ragione o con la forza, questo pugno di selvaggi che distruggono la nostra ricchezza e ci impediscono di occupare a tempo indefinito, in nome della legge, del progresso e della nostra sicurezza, le terre più ricche e più fertili della Repubblica».
Da allora sono trascorsi molti anni, ma i punti di vista, gli scenari che
essi schiudono alla vista e le parole utilizzate per descriverli, non sono
cambiati. Non molto tempo fa, il governo israeliano ha deciso di ripulire il
deserto del Negev dalla sua popolazione beduina per far posto agli insediamenti
della nuova ondata di immigrati ebrei. Già cinque anni prima, come prevedendo il
futuro fabbisogno di terre disabitate dove scaricare la popolazione in eccesso
delle città del nord, l'allora ministro degli Interni Ariel Sharon dichiarò che
la popolazione beduina era già sparita. Il Negev, disse, era deserto, «eccezion
fatta per qualche capra e pecora» L'intervento successivo avvicinò la realtà al
verdetto di Sharon: dei 140.000 beduini del Negev, circa la metà finora è stata
sistemata in «villaggi ufficiali» o
development towns
«che sono poco più che vaste discariche urbane». Parlando a nome dell'Agenzia
ebraica, il tesoriere Shai Hermesh ha osservato che «il guaio dei beduini è che
sono ancora al confine fra tradizione e civiltà... Dicono che le loro madri e
nonne vogliono vivere circondate dalle pecore». La sua conclusione, però, era
ottimistica per le prospettive della civiltà: abbiamo bisogno del Negev, ha
detto, per la prossima generazione di immigrati ebrei. Nel Negev «la terra costa
quattro soldi».
La «sovrappopolazione» è un'invenzione degli statistici: un nome in codice che designa la comparsa di un gran numero di persone le quali, invece di contribuire al funzionamento senza intoppi dell'economia, rendono molto più difficile il raggiungimento – per non dire l'aumento – dei parametri in base ai quali se ne misura e se ne valuta il buon funzionamento. Il numero di queste persone sembra aumentare in maniera incontrollabile, provocando la crescita incessante delle spese, ma non dei guadagni. In una società di produttori, si tratta di persone il cui lavoro non può essere utilmente impiegato, poiché tutti i beni che la domanda attuale e prevista è in grado di assorbire possono essere prodotti – e prodotti in modo più rapido, redditizio ed «economico» – senza tenerle occupate. In una società di consumatori, queste persone sono «consumatori difettosi»: persone che non hanno il denaro che consentirebbe loro di estendere la capacità del mercato dei beni di consumo, e al contempo creano un altro tipo di domanda cui l'industria dei consumi, tutta orientata ai profitti, non sa rispondere e che non è in grado di «colonizzare» in modo redditizio. Il bene primario della società dei consumatori sono i consumatori; i consumatori difettosi sono il suo passivo più irritante e costoso. | << | < | > | >> |Pagina 52Le cause dell'esclusione possono variare, ma per chi si ritrova escluso, i risultati sono più o meno gli stessi. Di fronte al compito impari di acquisire i mezzi di sopravvivenza biologica, pur essendo state spogliate della sicurezza di sé e dell'autostima necessarie per sostenere la sopravvivenza sociale, queste persone non hanno motivo di contemplare e assaporare le sottili distinzioni fra il soffrire per via di un progetto e il patire di un'infelicità di default. Possono essere giustificate se si sentono respinte, se sono esasperate e indignate, se trasudano vendetta e nutrono rancore... ma, avendo imparato quanto sia futile resistere ed essendosi arrese al verdetto della loro inferiorità, difficilmente potrebbero trovare il modo di convertire tali sentimenti in azioni efficaci. Che accada per una sentenza esplicita o per un verdetto tacito e mai ufficialmente promulgato, sono diventate superflue, inutili, non necessarie e indesiderate, e le loro reazioni, spesso assenti oppure fuor di luogo, fanno della censura una profezia che si auto-avvera.In un acuto studio sulla condizione e il comportamento degli individui «in soprannumero» o «emarginati», il grande studioso polacco Stefan Czarnowski li definisce dei «declassés, privi di uno status sociale definito, considerati eccedenti dal punto di vista della produzione materiale e intellettuale e che tali si considerano». La «società organizzata» li tratta alla stregua di «scrocconi e intrusi, li accusa – nel migliore dei casi – di pretese ingiustificate o d'indolenza, spesso di ogni sorta di malvagità, macchinazioni, imbrogli, di vivere sempre al limite della criminalità, e comunque di nutrirsi del corpo della società come fanno i parassiti». Le persone superflue vivono una situazione senza uscita. Se tentano di adeguarsi agli stili di vita elogiati dai contemporanei, sono immediatamente accusati di peccaminosa arroganza, di pretendere ciò che non è loro dovuto, di avere la faccia tosta di rivendicare vantaggi immeritati... quando non di intenti criminosi. Se avversano apertamente e rifiutano di rendere tributo allo stile di vita che chi ne ha i mezzi forse può assaporare, ma che rappresentano piuttosto un veleno per loro che di mezzi non ne hanno, ciò viene prontamente considerato la prova di ciò che l'«opinione pubblica» (o più precisamente i suoi portavoce, eletti o autodesignati) «vi ha sempre detto fin dall'inizio»: che i superflui non sono soltanto un corpo estraneo, ma un cancro che rode i tessuti sani della società, e i nemici giurati del «nostro modo di vivere» e «dei valori che difendiamo». | << | < | > | >> |Pagina 77Non tutti i rifiuti industriali e domestici, comunque, possono essere trasportati nei luoghi lontani dove i rifiuti umani facciano, per pochi soldi, il lavoro sporco e pericoloso di smaltirli. Si può tentare - e infatti si tenta - di organizzare il necessario incontro tra scarti materiali e umani anche più vicino a casa. Secondo Naomi Klein, la soluzione sempre più richiesta (battistrada ne è stata l'Unione Europea, ma prontamente adottata dagli Stati Uniti) è una «fortezza regionale a più livelli».Un continente-fortezza è un blocco di nazioni che uniscono le forze per ottenere da altri paesi condizioni commerciali vantaggiose, mentre al tempo stesso pattugliano i propri confini comuni esterni per tener fuori chi da quei paesi proviene. Ma se un continente intende seriamente diventare una fortezza, deve anche invitare entro le sue mura uno o due paesi poveri, perché qualcuno dovrà pur fare i lavori sporchi e pesanti.
Nel luglio 2001, la Fortezza America – il Nafta, il mercato interno
americano allargato al Canada e al Messico («dopo il petrolio», sottolinea Naomi
Klein, «la manodopera immigrata è il carburante dell'economia del sud-ovest»
degli Stati Uniti) – è stata integrata dal «Piano Sur», con il quale il governo
messicano si è assunto l'onere di pattugliare in forze il suo confine
meridionale e di arginare in modo efficace la marea di miserabili scarti umani
che affluisce negli Stati Uniti dai paesi dell'America Latina. Da allora,
centinaia di migliaia di migranti sono stati fermati, imprigionati e deportati
dalla polizia messicana prima che raggiungessero i confini statunitensi.
Quanto alla Fortezza Europa, prosegue la Klein, «Polonia, Bulgaria, Ungheria e
Repubblica Ceca sono i servi della gleba postmoderni che forniscono le fabbriche
a basso salario dove si producono abiti, apparecchiature elettroniche e
automobili al 20-25 per cento di quanto costerebbe produrle nell'Europa
occidentale». All'interno dei continenti-fortezza è stata creata «una nuova
gerarchia sociale» nel tentativo di quadrare il cerchio, cioè di trovare un
equilibrio fra postulati palesemente contraddittori ma ugualmente vitali: di
frontiere sigillate e di facile accesso a una manodopera a basso prezzo, senza
pretese, docile, pronta ad accettare e a fare qualsiasi cosa le venga offerto;
oppure di libero scambio e di indulgenza verso i sentimenti di ostilità per gli
immigrati, la pagliuzza cui si aggrappano i governi incaricati della sovranità
tracollante degli Stati nazionali. «Come si fa a restare aperti agli scambi e
chiusi alle persone?», domanda Naomi Klein. E risponde: «Facile. Prima allarghi
il perimetro, poi tiri il chiavistello».
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