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| << | < | > | >> |IndiceTre anni fa mi è venuta la febbre e non è più andata via 9 Io e la mamma siamo da soli quando vengono a spaventarci 14 Come stai? 18 Sono cresciuto a Rozzano, cap 20089 24 28 gennaio 33 Mamma e papà 36 Non gli credo 48 [...] L'importanza di chiamarsi Ernesto 284 Biscotti agli anacardi 289 Mezz'ora al massimo e arrivo 292 Il farmaco non fa più effetto 301 L'educazione del corpo 305 Una cosa che non posso cambiare 308 Oltre 318 Ringraziamenti 327 |
| << | < | > | >> |Pagina 9Tre anni fa mi è venuta la febbre e non è più andata viaTre anni fa mi è venuta la febbre e non è più andata via. 11 gennaio 2016. Trentun anni non ancora compiuti. Torno dall'università: è ora di pranzo, ma non ho fame. Cos'hai? Non mi sento tanto bene, forse mi sta venendo la febbre. Mi metto sul divano, non riesco a leggere. La febbre mi viene. Non va più via. Una settimana, due settimane. Un mese. 38, 38 e mezzo, poi s'abbassa ma si blocca lì. 37.4, 37.3, non smette, non passa. La colonnina di mercurio incantata. L'abbasso. Risale. Ogni volta che tolgo il termometro da sotto l'ascella spero che scenda. Ma non lo fa. Sempre un po' oltre il 37, il confine, lo spartiacque - tra quello che ero e quello che sono. Torno dall'università e misuro la febbre. La misuro ancora, sempre, di nuovo. Mia madre mi chiama, inizia a chiamarmi ogni tre ore. Allora, hai ancora la febbre? Si, mamma, c'è ancora. | << | < | > | >> |Pagina 27Rozzano serviva, è stata usata.Pressione migratoria. Quartiere dormitorio, dimenticatoio. A Rozzano, negli anni, scolano tutto il disagio possibile. Si fa a gara a chi sta peggio. Il vicino ti dà il cattivo esempio. Famiglie troppo simili tra loro, a Rozzano, che hanno creato una subcultura specifica fatta di codici di cui poco si sa all'esterno. Nel posto in cui sono cresciuto le cose sono chiare: i maschi sono fatti in un modo - motorino, calcio, figa -, le femmine in un altro. Si sta da una parte oppure dall'altra. Ogni tentennamento, ogni tentativo di sconfinamento viene immediatamente riconosciuto e sanzionato. Pubblicamente, in strada, ovunque. Perché il codice è pervasivo e condiviso, si vuole stare al sicuro. Servono certezze, non c'è spazio per le sfumature.
Tutti i rozzanesi che fanno fortuna - Michele Alboreto, Alberto Brandi,
Arturo Di Napoli, Riccardo Morandotti, Antonio
Sabato, Mauro Suma - sono maschi, sportivi o giornalisti sportivi. Unica
eccezione: Biagio Antonacci, amico d'infanzia dei miei. È andato al loro
matrimonio e in ospedale quando sono nato. Compare anche in qualche foto
dell'album di nozze, il grosso libro foderato di stoffa e pelle marrone che mia
madre ha tenuto per anni sepolto nell'armadio, sotto pile di vestiti e
lenzuola. È tutto sfasciato, non sta più insieme, uno squarcio
enorme taglia a metà il cartone ricoperto di pelle finta e tessuto:
gliel'ho tirato addosso, mi ha detto una volta, il giorno che l'ho
sbattuto fuori di casa.
Il centro di Rozzano è per tutti viale Lombardia: una strada qualunque ma per noi il centro di tutto, su cui si affacciano banche, parrucchieri e negozi. Oggi presa d'assalto dai cinesi, che l'hanno riempita di ristoranti, manicure, tutto-a-un-euro, e dagli arabi, coi loro kebab e le macellerie. Una strada lungo la quale durante il giorno camminano veloci le casalinghe e lenti i pensionati, e che al mattino presto e al pomeriggio dopo le quattro si riempie di bambini con lo zaino e la merenda in mano. Bambini accompagnati dalle mamme coi piercing, i tatuaggi e la sigaretta che, mentre tengono lo sguardo incollato allo smartphone, urlano di tutto. E smettila di rompere il cazzo, non mi fare girare i coglioni. Le vedi anche sul tram: ragazze di diciotto, diciannove anni, già un paio di figli a testa, sui quali si accaniscono per ogni scemenza con pizzichi e sberle. Intervallano il regime da addestratrici del circo con discorsi nei quali i bambini vengono trattati da adulti: gli chiedono consigli, pareri, lezioni di vita. Parlano con loro di soldi, di spese impreviste, di come arrivare alla fine del mese. Poi ricominciano le furiose tirate d'orecchie e le manate, a cui seguono, scomposte, nevrotiche, coccole e parole dolcissime. Sul tram i bambini vengono mandati in perlustrazione per segnalare in anticipo l'arrivo del controllore, ma per il resto devono rigorosamente rimanere seduti. Ehi, stronzo, se ti muovi ancora ti faccio vedere io. Poco lontano da viale Lombardia si apre la piazza del comune, dedicata a Giovanni Foglia, il sindaco storico. Uno spazio spoglio, circolare, incorniciato da costruzioni basse che sembrano delle capanne di cemento. La sede dell'anagrafe, del catasto, dell'ufficio elettorale. Fino a un certo punto lì c'era la biblioteca, poi l'hanno spostata alla Cascina Grande, a Rozzano Vecchio - sì, "vecchio", al maschile, si dice così. Rozzano è maschio, finisce per o. La falce e il martello, a Rozzano ci sono anche i comunisti. I miei nonni usano la parola comunista come un insulto: lì ci vanno i comunisti, quello è un comunista, se la fa coi comunisti. I comunisti si ritrovano nei circoli sotto i portici a parlare di politica. Passandoci accanto si vedono le pagine ingiallite dei quotidiani nelle bacheche, si sentono i commenti rauchi e nervosi dei pensionati ubriachi che urlano e scatarrano, rivendicando cose che da piccolo non capisco e trovo repellenti tanto quanto i loro baffi rinsecchiti dalla nicotina e bagnati dal vino. Sempre su di giri, i vecchi si danno di gomito se passo con mia madre o mia nonna. Nonna, andiamo via. Aumentiamo il passo. A Rozzano ci sono i comunisti, ma non solo loro. Per un certo periodo, verso la metà degli anni Novanta, Rozzano viene presa d'assalto dai rappresentati di Forza Italia. Vengono le signore candidate nelle liste comunali, anche dei paesi vicini, in pelliccia e tacchi a spillo. Si presentano proprio nella piazza del comune oppure al mercato del sabato o del martedì, in mezzo alle mamme e alle nonne che escono dal Pam o dal Gigante con le code di cavallo mezze disfatte e tenute in piedi da elastici slabbrati o da mollette color evidenziatore. Vengono a proporre programmi, a far proselitismo, lasciano gadget col simbolo del partito, penne, spille, cappellini, agendine. Signora le posso lasciare un volantino? Ha già deciso per chi votare? Non ho tempo. Non mi interessa.
Qualcuno ne approfitta: dite a Berlusconi che venga a darci
una mano, che qua siamo nella merda.
Rozzano oggi è anche il Fiordaliso, il centro commerciale che nei decenni è cresciuto a dismisura. Lo hanno ampliato, adeguandolo ai modelli dei centri commerciali americani. Non più un'unica costruzione con supermercato e negozi, ma una serie di costruzioni diverse: i fast food, il cinema multisala, i capannoni degli articoli sportivi e del fai da te. Arriva un po' di mondo a Rozzano: una specie di paese a parte, una frazione dello shopping e dell'intrattenimento che rende Rozzano un po' meno isolata. Rozzano poi è anche l'Humanitas, l'ospedale all'avanguardia nato al confine con Milano 3, il paese costruito da Berlusconi. Vengono da tutta Italia per curarsi lì. Gente comune ma anche personaggi famosi. Ai rozzanesi però non piace. Dicono che all'Humanitas ti fanno morire. Meglio andare a curarsi altrove. Meglio andare a Milano. Rozzano è la parrocchia Sant'Angelo e il castello di Cassino Scanasio, i cavalcavia e la tangenziale, la nuova piazza dedicata ad Alboreto e i campetti da calcio delle parrocchie, la ASL di via dei Glicini, dove mi hanno trapanato e scavato nei denti senza mai usare l'anestesia - Signora lo tenga fermo, è questione di un minuto.
Ma Rozzano da sempre per me è soprattutto tre strade, tre
vie: via Giacinti, via Verbene e via Dalie. Casa di mia madre e
le case dei nonni. Tre punti segnati, tre rifugi, tre tane non sempre sicure: la
storia mia e della mia famiglia, visibile a mo' di
costellazione, tipo una mappa sovrapposta dall'alto.
Rozzano mi odia. Rozzano l'ho odiata. Perché sono nato lì? Io che leggo, scrivo, disegno. Io che sono il più amato dai professori. Perché proprio a me? Io con voi analfabeti, io non c'entro niente. Eppure a Rozzano ci sei nato e cresciuto. Rassegnati: sei uno di noi. Vivo a Rozzano ma lo voglio nascondere. Non voglio che la gente sappia com'è davvero casa mia. Non voglio che nessuno veda questo palazzo con l'intonaco che viene giù a pezzi e la gente spaventosa affacciata ai balconi. Non voglio che sappiano che io abito qui. Quando da Milano qualcuno mi riaccompagna a casa in macchina, io mi faccio sempre lasciare lontano dal mio cortile. Dico per tempo a chi sta guidando, amico, amante o conoscente che sia: va benissimo qua, grazie, lasciami pure al benzinaio o alla rotonda. Ma sei sicuro? Guarda che non c'è problema, ti accompagno al portone. No, no, qua è un casino entrare nei cortili, stanno facendo i lavori. Va benissimo qui fuori, grazie. Stanno facendo i lavori: lavori in corso trecentosessantacinque giorni all'anno nel mio cortile. Tutti gli anni, in ogni stagione. Neanche col buio, di sera, li lascio avvicinare. Perché Rozzano è la mia carta d'identità fatta di strade e palazzi, la rappresentazione materiale della mia paura di essere scoperto e giudicato in quanto poveraccio, figlio di poveracci, di operai che non hanno studiato, di gente se va bene con la terza media. Cerco di tenerlo nascosto perché so che, nonostante i miei sforzi, Rozzano mi raggiungerà sempre e mi riporterà a casa. Un buco nero fagocitante, la divinità impietosa che riacchiappa i suoi figli insolenti, che si va a riprendere le sue schegge più ingenue, quelle che provano ad andarsene, a combinare qualcosa. Il richiamo che mi riporterà in basso. Una voragine gelosa e inarginabile che mi ha marchiato affinché l'appartenenza fosse ben visibile a tutti. Inutile che ti nascondi, non serve a niente. Dove credi andare? Sei uno di noi. Ancora oggi io ho paura che Rozzano rivendichi il suo dominio, che si riprenda ciò che le spetta. Che sbuchi fuori all'improvviso da qualche parte, dai documenti, dai miei tratti del viso marcati, dalla sciatteria nel vestire e che mi costringa quindi a tornare di nuovo al confino, tra le sue vie coi nomi dei fiori. Come ho dovuto fare qua, ora, scrivendo. Ho Rozzano incastrata nel nome, se parlo di me devo parlare di lei. Me ne sono andato, ma è ancora tutta qui. Ho i suoi palazzi affastellati nel petto, i miei piedi continuano a camminare per le sue strade. Sono i suoi garage, le sue edicole, i suoi parchi silenziosi e sospesi. Le sue urla in napoletano e in pugliese, le parolacce, le risate scomposte. L'ombra della torre Telecom mi raggiunge fin qua, al centro di Milano. L'unico cap che ricordo, di tutte le case che ho cambiato negli anni, è il 20089. Resterò per sempre in via Giacinti 10, al capolinea del 15. Con la paura che arrivino i maschi. | << | < | > | >> |Pagina 44Il figlio è il mio, lo chiamo Jonathan.Scritto bene, col th, che agli inglesi e agli americani fa mettere la lingua tra i denti. In famiglia quasi nessuno lo pronuncia come si dovrebbe. Ognuno mi chiama un po' come vuole. Sgionata. Gionata. In italiano sarebbe Giovanni? Il mio nome continua a creare problemi anche dopo che sono nato: il prete della Sant'Angelo non vuole battezzarmi. Non c'è sul calendario, dice, non è il nome di nessun santo. Mia madre non molla: però è costretta a cambiare chiesa. Jonathan Bazzi: il cognome di mio padre, il nome scelto da mia madre, insieme. La crasi, la fusione, l'innesto. La cosa che non ha funzionato. Mi chiamo Jonathan ma da qualche parte esiste quella Desirée, la figlia che mio padre avrebbe voluto, quella che avrebbe avuto un po' più di attenzioni. Da qualche parte esiste Antonio, il rozzanese, il nipote allineato. Quello che si sarebbe fatto rispettare, che avrebbe salvato le donne della sua vita dalle urla e dalle mani cattive. Quello che si sarebbe difeso, che sarebbe diventato adulto davvero. I nostri avatar per somma o sottrazione ci determinano. I nomi mancati di un figlio, la sua storia già iniziata prima di venire al mondo. Le aspettative, i sogni degli altri, la prima missione che ci hanno affidato. Il mio nome, otto lettere.
Io ti vedo così, non mi tradire.
Dopo alcuni mesi da accampati a casa dei nonni, io, Tina e Roberto andiamo a vivere in un piccolo appartamento di due locali in via Giacinti, nei pressi della torre Telecom e del capolinea del 15. Tra i miei le cose si mettono male in fretta. Mia madre è passata da un secondino all'altro. Anche mio padre non le lascia fare niente. Non devi lavorare, stai a casa, pensa solo al bambino. Non uscire, sei troppo scollata. Fammi vedere, cosa ti sei messa? No, troppo corta, vatti a cambiare. Nessuno può toccarmi, nessuno può avvicinarsi a noi. Morboso, ossessivo, maniaco dell'ordine e della pulizia, mio padre si lamenta delle cose che mia madre non fa o non sa fare. Inizia a trattarla male, la insulta, la umilia: testa di cazzo, capra, merda, napoletana. Tornava dal lavoro e c'erano ancora i piatti da fare, mi ha ripetuto decine di volte negli anni mia nonna, la madre di mio padre, come a giustificare i tradimenti e le sparizioni del figlio. Tua madre era una lazzarona, non faceva niente - la immagino donna della preistoria, cavernicola, i capelli arruffati, pidocchiosa, vestita di stracci. Le recriminazioni iniziano subito, da una parte e dall'altra. Contaminano le famiglie, diventano faida, vendetta. Del poco tempo che abbiamo passato insieme io ho solo qualche scena sconnessa. Nessun ricordo sereno. Ho registrato solo il male? C'è stato altro? Per un periodo nella casa che ci assegna il comune in realtà non siamo soli: con noi c'è anche Ambrogio, il grosso bobtail che mi porta in giro per casa sollevandomi per il pannolino - anche lui chiamato così per Fogar? Io non me lo ricordo: me lo raccontano poi, quando sono più grande. Non me lo ricordo anche perché Ambrogio sparisce presto, lo danno via. È il primo dei tanti animali domestici che compaiono nella mia vita per poi svanire nel nulla. È soprattutto mia madre che li prende e poi se ne libera. Dopo Ambrogio, è il turno della gatta Biancaneve, poi della cagnolina Tabata, poi lo yorkshire Charlie e il rottweiler Athos - unico tentativo di mio padre con gli animali, fallito comunque nel giro di un paio di mesi - e poi ancora la persiana Lulù e lo shar pei Pongo. Animali scomparsi, spariti, volatilizzati: mia madre li prende ma poi non riesce a curarli. Le piacciono solo i cuccioli? Riesce a essere fedele solo a chi la tratta male? Pochi ricordi dei due anni vissuti coi miei, non sarebbero comunque ricordi felici. Mio padre va con le altre, tradisce mia madre. L'ha sempre fatto, col tempo peggiora. Lei per un po' resiste - Dai, fallo per il bambino -, poi non ce la fa più. Le viene un esaurimento nervoso, va in depressione. Pensano sia epilettica, ha continue crisi di nervi. Sviene, trema, sbava, si butta per terra: si lascia andare alla disperazione di un amore diventato farsa, menzogna, rovina. La Tina è pazza, la Tina è malata. Mia madre fa le sceneggiate, urla. Non lasciatela da sola con il bambino. Curatela, datele gli antidepressivi, i farmaci per l'epilessia. Non fatela uscire, tenetela d'occhio. Chiudetela in casa. Ho imparato da lei, chissà forse già allora, a incaricare il corpo di manifestare ciò che non si sa gestire razionalmente, a parole. Il corpo che inizia a parlare da solo, che, esondando, dice quel che non si può dire. Che fa vedere il rimosso, l'inascoltato. Che si ribella al regime eterno dei padri, dei mariti, dei nonni. È la tradizione delle isteriche, l'etichetta con cui il potere maschile ha marchiato il sentire delle non allineate. Ho come archetipo relazionale una coppia di nemici: mamma e papà se ne sono andati, di amore tra di loro non ce n'era abbastanza, ma prima che finisse del tutto quel poco di bene che c'era s'è riprodotto. Ha creato me. Io sono il precipitato imprevisto di una storia durata niente. Quello che c'era tra di loro non è scomparso. S'è solo spostato. | << | < | > | >> |Pagina 100Le notti a casa dei nonni sono agitate.Io sono sonnambulo: non me ne accorgo mentre lo faccio ma al mattino, il giorno dopo, mi dicono che durante la notte mi sono alzato, ho parlato, sono andato nelle altre stanze, ho spaventato tutti. Non lo svegliate, si raccomanda la nonna con gli zii, è pericoloso, gli viene uno shock, gli fate venire un infarto. C'è pure chi è morto perché è stato svegliato di colpo. Mi raccontano di una ragazza che ha cercato di buttarsi dal balcone mentre dormiva: l'hanno fermata appena in tempo, stava tirando su le tapparelle della cucina. Mi alzo nel sonno, all'una, alle due di notte, entro in camera dello zio Franco e di Lucia mentre stanno dormendo: non si capisce bene cosa dico, parlo di gattini ciechi e cimiteri, di uccelli caduti dal nido e di Gesù. Ho gli occhi chiusi, il biberon sempre in mano - quello non manca mai. La mamma non vuole, ormai sono grande per bere il latte così, dice, ma tanto sto qua, vivo con la nonna, la mamma non può farci niente. La nonna vuole che io non cresca mai? Spesso di notte io mi piscio addosso. Mi mettono il telo di plastica trasparente per coprire il materasso, per evitare che lo macchi con la pipì che dovrei fare nel water e che invece mi inzuppa il materasso. Quando faccio la pipì a letto, me ne accorgo per il freddo: le lenzuola e il pigiama bagnato mi svegliano. Sono pesanti, mi fanno venire i brividi. Ogni tanto sento i miei parenti parure di questa cosa che mi succede - Ma secondo te è normale? Ha sette anni e continua a pisciarsi addosso -, pensano che io non me ne accorga che stanno parlando di me. Non è così. Sento tutto - problema, ritardo, fatelo vedere da uno specialista - ma faccio finta di niente. Non so perché bagno il letto: sto dormendo, non me ne rendo conto. Mi dicono che devo stare attento: se senti che ti scappa, tu ti alzi e vai in bagno. Ma quando si dorme come si fa a stare attenti? I sogni che faccio mi svegliano durante la notte, li faccio per anni. Sempre quelli, sempre gli stessi.
Quando sono più grande, tornano soprattutto quando ho la
febbre e continuano a terrorizzarmi.
La nonna Lidia si diverte a raccontarmi le storie di quando era bambina. Mi parla delle cose che ha visto da piccola a Napoli, delle janare, dei fantasmi dei morti, del munaciello, dei lupi mannari: la nonna minaccia di chiamarli, di farli venire qua a Rozzano in via Verbene, se non mangio, se non faccio quello che dice lei. A volte invoca anche il diavolo: finisci tutta la pasta che hai nel piatto che sennò ti viene a prendere, lo senti? È già di là pronto, nello sgabuzzino, ti sta aspettando. Le janare invece anche se mi fanno paura mi piacciono. Adoro ascoltare le storie su di loro: sono come delle streghe, delle fate cattive che di notte passano sotto le porte per entrare nelle case della gente. Nonna ma come fanno? Raccontami un'altra volta delle janare. Si appiattiscono, mi dice la nonna, si fanno sottili, sottili, come fogli di carta, e poi scappano via veloci come anguille, fanno le trecce ai cavalli nelle stalle dopo averli cavalcati per tutta la notte e, se si arrabbiano, possono soffocare i bambini nel sonno. A casa dei nonni ci sono regole, leggi non scritte. È proibito capovolgere il pane a tavola, incrociare le posate, passare sotto la scala, aprire l'ombrello in casa, mettere a rischio gli specchi, rovesciare il sale. Bisogna stare attenti a tantissime cose. Porta male, è di malaugurio. Statt' ferm' cu 'sti mman'. La nonna fa sempre dei mucchietti di sale grosso e li nasconde negli angoli delle stanze, dietro i mobili, i vasi e le porte. Quando io li vedo e le chiedo cosa sono, lei mi urla di andare via e farmi i fatti miei. Poi capisco: la nonna combatte contro le persone che ci vogliono male, che sono tante, Rozzano ne è piena. Anche certe sue amiche qua del palazzo sono pericolose. False, bugiarde. Mi fanno i complimenti, dice la nonna, ma in realtà sono gelose, invidiose perché non hanno nipoti o se li hanno sono brutti. Non sono belli come il suo, non sono belli come me. La nonna è fissata con gli occhi addosso. Mi dice sempre che le persone ci mettono gli occhi 'nguoll', che vuoi dire che sono cattive, maligne, e devo stare attento. Quando dobbiamo uscire per andare da qualche parte lei mi pettina davanti allo specchio in corridoio, mi fa la riga di lato, mi mette l'acqua di rose e la crema sulla faccia, poi dice sottovoce una preghiera e mi fa il segno della croce sulla fronte. Mi dice sempre di non dare retta a nessuno, di non dare confidenza. Son tutte puttane, qua a Rozzano c'è gente di merda. Ogni tanto la nonna Lidia va dalla cartomante: io vorrei tanto sapere cosa le ha detto leggendole le carte o la mano, ma nessuno me lo racconta. La nonna ne parla solo con le sue amiche o con la Tata, a bassa voce, per non farsi sentire. Capisco che ha fatto fare alla cartomante dei lavori, ovvero dei riti: per toglierci il malocchio, perché c'è chi usa la magia contro di noi. Ci hanno fatto la fattura: per questo siamo poveri e le cose ci vanno male. Forse i riti la nonna li ha chiesti anche per far rimettere insieme mia madre e mio padre. Ma non hanno funzionato: mamma e papà si parlano solo a distanza e per litigare. Con la nonna e la Tata andiamo spesso al centro commerciale e a volte loro rubano le cose. Si nascondono tra gli scaffali o nei camerini e staccano il prezzo dalle cose che vogliono prendere. Vestiti, fiori di stoffa, cose da mangiare: se le infilano in borsa o sotto il maglione. A volte, per rischiare meno, cambiano solo il prezzo. È facile soprattutto coi cartellini adesivi. Li tolgono dalle cose che costano meno e fanno cambio con quelle che costano di più. Un abito da trentamila lire lo mettono a otto, un profumo che costa venti lo pagano cinque. I signori della sicurezza non ci scoprono mai. La nonna e la zia sono furbe. Ma io ho sempre paura che prima o poi ci vada male. Il sabato mattina invece andiamo quasi sempre al mercato che fanno nel parcheggio sotto la torre della Telecom. Mi annoio da morire durante il giro tra le bancarelle della frutta, della verdura e del pesce. Però quando passiamo dalla bancarella degli animali cambia tutto. Mi illumino, corro, salto: sono felice. Ci sono le tartarughe, gli uccellini, i pesci. A volte anche qualche cagnolino o qualche gatto appena nato - ma non muoiono qua al freddo dentro la scatola? Vorrei abbracciarli tutti, vorrei portarli tutti a casa con me, ma non si può. Il nonno non vuole. Salutali, li rivedi settimana prossima. Se ci sono ancora. Al mercato bisogna stare attenti perché è pieno di zingare che rubano i bambini, dice la nonna. Quando ci passano accanto, io mi paralizzo. Viola, giallo, bianco, rosso: hanno addosso tutti i colori del mondo. Qualcuna ha le trecce, qualcun'altra tiene la testa avvolta in un fazzoletto annodato. Dalle loro labbra spuntano i denti d'oro - fatti coi gioielli che rubano nelle case?, nonna, davvero? - ai piedi hanno zoccoli di legno o ciabatte di gomma con le calze di spugna. Le zingare tengono i loro bambini legati al petto, a penzoloni, con dei pezzi di stoffa. Li hanno rubati, mi dice la nonna, lo vedi come sono biondi? Non sono scuri come loro: quelli sono i bambini che le zingare rubano alle mamme. Quando si distraggono, loro ne approfittano. Sfilano i bambini dai passeggini e li portano via, li rapiscono. Nonna ma poi chiedono il riscatto? No, ma va. Li vendono, per gli organi, o se li tengono e li fanno crescere come loro, zingari, selvaggi, bestie. Li mandano a chiedere l'elemosina, li fanno vivere in mezzo alla strada. Stai attento che rapiscono anche te. Ti mettono sotto la gonna e ti portano via. | << | < | > | >> |Pagina 118Solo a casa di questi nonni io ho una stanza tutta per me. Prima era la camera di papà e di sua sorella, ora è la mia. Cioè, non solo mia: ci dorme anche Luca, mio cugino, che ha tre anni meno di me. Però c'è un solo letto: quando vado io Luca non viene, ci alterniamo.Con Luca litigo sempre. Io sono geloso: l'ho capito che è lui il preferito della nonna Nuccia. È il figlio di sua figlia, io sono solo il figlio della Tina, l'ex moglie di papà. Nessuno me lo dice ma io l'ho capito che questa è una differenza importante. La nonna fa sempre le cose di fretta, si sbaglia sempre quando mi deve chiamare: Luca, Mario, Roberto, dice tre, quattro nomi diversi, prima di azzeccare il mio. Chiama mio padre, mio cugino, mio nonno. Lo fa anche mentre sono di fronte a lei. Quando poi prende il cane, mi chiama Fuego, mi chiama col nome del cane. Roberto, Luca, Fuego: il mio nome non le viene mai per primo. Sono geloso di Luca ma non solo. Devo anche proteggermi. Perché Luca sarà anche il preferito tra i due, ma vorrebbe essere me. Mi imita e io non lo sopporto. Vuole mangiare le stesse cose che mangio io, vuole andare nei posti in cui vado io: se non viene accontentato finge di avere delle crisi di nervi, piange, si butta per terra. Allarga la bocca e urla come se qualcuno lo stesse torturando - marchiando a fuoco, scuoiando - oppure scalcia fortissimo per terrorizzare la nonna e la zia. Ti fai male, Luca, per favore, mi fai spaventare. Loro come delle sceme ci cascano: gliele danno tutte vinte, gli comprano tutto quello che vuole. Non sanno dirgli di no. Nessun limite alla volontà di mio cugino - nonna, come con papà? Finché la nonna Nuccia e il nonno Pier non vanno in pensione, io sto da loro solo nel fine settimana oppure durante le feste. Col nonno Pier e la nonna Nuccia non rimaniamo per forza a casa a Rozzano. A volte andiamo a Milano, a prendere il gelato sui Navigli, dove ci sono le barche galleggianti. Ci si può salire, sono barche ma sono finte, stanno ferme: in realtà sono bar, ristoranti. Il nonno Pier lavora in posta - postino?, no, negli uffici - ma di sera fa anche l'istruttore di nuoto in piscina. Di passioni il nonno ne ha tante. È curioso, passa da una cosa all'altra. Gli piacciono i western e i film di guerra, i documentari sulla storia e i programmi di Piero Angela. Gli piacciono tutti i film in bianco e nero, ma soprattutto quelli con Charlie Chaplin, Stanlio e Ollio, Bud Spencer e Terence Hill. Ascolta un sacco di musica, soprattutto i cantautori italiani. Giorgio Gaber e Jannacci, le canzoni in dialetto milanese. Quando ascolta la musica il nonno chiude gli occhi e fa dei gesti, con le mani, come se disegnasse le note nell'aria. Va agli spettacoli di cabaret, è tifoso del Milan e della Ferrari. Guarda tutti i telegiornali e le trasmissioni sulla politica. Il nonno è leghista: adora Umberto Bossi, la nonna invece lo odia. A volte litigano, forte, come fanno anche il nonno Biagio e la nonna Lidia. Litigano perché la nonna parla male di Bossi, o per altre cose, tipo i conti, le spese per la casa. Entrambi, sia il nonno che la nonna, tengono un quaderno sul quale si segnano tutto quello che spendono, così poi se uno ha speso di più l'altro è in debito, e "si aggiustano". Sono sposati ma i soldi li tengono separati. Quando litigano anche il nonno Pier, come il nonno Biagio, si arrabbia, urla. Dice alla nonna di stare zitta, di pensare a cucinare e a fare la maglia. Quando perde la pazienza sul serio, il nonno Pier grida più forte e dice alla nonna ti spacco la testa, stai buona, Nuccia, non farmi incazzare. La chiama stronza, strunsa, in milanese, e mentre lo fa resta senza fiato, spalanca gli occhi e la voce gli si strozza in gola. Dice cose in dialetto, non le capisco. Mi fa paura quando alza il braccio e sta per darle un pugno o una sberla. La prende per la spalla, la spinge: Nuccia, vaffanculo. Lei dice provaci, provaci, se lo fai ti denuncio, ho il bambino come testimone. Pierluigi, guarda che stavolta chiamo i carabinieri. Nonna, andiamo in tribunale? Cosa devo dire? La nonna dopo che ha litigato col nonno ha i capelli tutti spettinati, lo chignon mezzo crollato. Mi si gelano le mani: perché tutti devono fare così? Perché tutti hanno bisogno di farsi male? Quando siamo da soli, la nonna poi mi chiede: ma tu a chi vuoi più bene? Al nonno o alla nonna? Alla nonna, rispondo. Alle donne voglio sempre più bene. Sono un maschio, ma sto con le femmine. È sempre così, non cambierà mai. ,int 3 Il nonno Pier va in pensione un paio d'anni prima della nonna. Lei continua a lavorare negli uffici della Rinascente, ad Assago, dopo aver fatto per un po' la commessa alla Upim. La famiglia della mamma dice che la nonna ha l'amante. In quegli uffici, dicono, chissà quanti se ne sarà fatti. Sicuramente il signor Gosmio, che è anche suo vicino di casa. Per loro il fatto che la nonna Nuccia non stia sempre a casa a fare i mestieri e a cucinare - come fa la nonna Lidia - ma lavori in ufficio, in mezzo a tante altre persone, ai dirigenti, ai soldi e ai computer, la dice lunga. La nonna Nuccia è una poco di buono. Che problema c'è a dirlo? Una mignotta. Fisicamente tutti hanno sempre detto che io e la nonna Nuccia ci somigliamo: però lei ha la pelle scura, sembra una dei Jefferson. Io no, ho la pelle chiara, come la mamma. Basta sfiorarmela e rimane segnata. La nonna è bassa e con la pancia rotonda: sembra una gnoma. A tua nonna si fa prima a saltarle in testa che a girarle attorno. È nata in Sicilia, a Catania, ma è venuta a Milano quando aveva tre anni. Il siciliano non lo parla, non ha neanche l'accento. Però sa fare gli arancini. Li fa una volta ogni tanto - evento, giorno speciale - perché serve un sacco di tempo per il risotto, il ragù e poi per friggerli. La nonna si trucca sempre, anche per stare in casa. Si mette il rossetto rosso, si disegna le sopracciglia con la matita nera, si spruzza il profumo alla vaniglia e si tampona la polvere arancione sulle guance. Le piacciono tantissimo le scollature e le paillettes. Soprattutto quando c'è qualche festa o qualche cena con i parenti lei ne approfitta, si mette le cose che adora. Velluto, pizzo, golfini coi brillantini, spacchi, stampe leopardate, abiti trasparenti. La nonna Nuccia si veste da diva, da vamp e noi siamo il suo pubblico. Se le sue sorelle le fanno i complimenti - Uella Nuccia, che look! -, lei dice: macché Anna, figurati, cinquemila lire al mercato. Anche alla nonna, come a me, piace leggere. Tiene i suoi libri sulle mensole del mobile in cameretta: l'Enciclopedia delle donne, i libri sulla maglia e l'uncinetto, i manuali di astrologia, i romanzi di Isabel Allende, le guide dei posti in cui è andata in vacanza col nonno. La nonna ama la lirica, io le chiedo sempre di raccontarmi le storie delle protagoniste delle opere che va a vedere a teatro con sua sorella, la zia Gina (ricchissima, ha sposato un manager che le ha lasciato un sacco di soldi e di case in eredità). Nonna ma le protagoniste muoiono tutte? | << | < | > | >> |Pagina 141Le maestre ogni tanto ci portano fuori, facciamo le uscite di classe.Andiamo a vedere degli spettacoli a teatro oppure alla biblioteca civica, nella piazza del comune. Quando andiamo in biblioteca c'è quasi sempre un signore che ci aspetta per raccontarci delle fiabe: mettono dei cuscini colorati per terra e dei veli appesi in giro. La biblioteca diventa una tana magica, un rifugio segreto tutto per noi. La biblioteca è il mio posto preferito. L'unico bello a Rozzano. Prima di tornare a scuola, chi vuole può fare la tessera. È gratis - davvero?! -, io la faccio e ogni tanto chiedo alla nonna o alla Tata se mi accompagnano a prendere dei libri da leggere. Siccome non servono i soldi, non possono dirmi di no: mi ci portano anche se a loro i libri non interessano. Quando vado in biblioteca, ci metto tantissimo a scegliere cosa portarmi a casa, come coi giocattoli che mi compra papà. In realtà alcuni libri continuo a prenderli in prestito anche se li ho già letti. Tipo quello illustrato sulla vita di Giovanna d'Arco. Voglio guardare bene di nuovo l'armatura, le battaglie, gli angeli che le parlano, il processo, il rogo. Vorrei essere Giovanna d'Arco, voglio sapere tutto su di lei. Lo stesso faccio con quelli della collana col bordo rosa, che raccontano storie che hanno per protagoniste delle ragazze: la cavernicola, la ragazza che dopo un incidente si ritrova nel corpo di uno scimpanzé (cervello trapiantato), le apprendiste streghe, le aliene mimetizzate tra gli umani, la ragazza detective. La nonna e la Tata mi accompagnano in biblioteca e mi lasciano lì: vanno a farsi un giro, ne approfittano per sbrigare qualche commissione. In biblioteca tanto si annoiano e mi mettono fretta, preferisco starci da solo. Però c'è un problema: per prendere i libri in prestito bisogna parlare con gli addetti che stanno al bancone e io non voglio. Anzi, non posso. Non sono capace, non so parlare con chi non conosco. Ho paura, inizio a sudare, mi scappa da andare in bagno. Sono nato con un difetto, una magagna, una tara. Dico che ci sono nato perché non ricordo un momento in cui le parole abbiano iniziato a uscirmi in modo diverso. Da che io ne ho memoria, è sempre stato così. Sono balbuziente: i miei se ne sono accorti presto, verso i tre anni. Mi hanno portato subito dal pediatra per chiedergli un parere. Mi ci ha portato la mamma dal dottor Barzani, un signore serissimo, con la barba lunga scura e gli occhiali piccoli e tondi. Ma sì, è una fase, vedrete che crescendo gli passerà. Non è vero, non è passato. Finché ero molto piccolo era normale, tanti balbettano, faceva tenerezza. Tartaglia, farfuglia, mia nonna diceva cacaglia. Ha fretta di dire le cose. Ora mi dicono: pensa prima di parlare, vai piano, di' una parola alla volta. Ma non c'entra niente, se non balbetti non puoi capire com'è. Mi inceppo, i suoni mi si incastrano nella gola, non escono, non ne vogliono sapere di comportarsi da lettere, parole, frasi normali. Mi si fermano in bocca soprattutto le iniziali delle parole. La lingua si impunta, mi viene da stringere forte le labbra, ma piuttosto che fare versi strani, come i balbuzienti dei film che vengono presi in giro da tutti, io resto zitto. Faccio scena muta. Oppure lascio passare un tempo indefinito tra una parola e l'altra. Molti si spazientiscono: non hanno tempo da perdere. Mi anticipano, chiudono loro le frasi. Mi mettono in bocca cose diverse da quelle che voglio dire. Per questo io mi rifiuto di andare a comprare la merenda da solo e di parlare coi negozianti. Per questo a casa non rispondo mai al telefono, lo lascio squillare finché non smette. Io odio il telefono: al telefono se non parli non ci sei, non esisti. Non hai il corpo che ti può aiutare, non hai i gesti e la faccia per riempire i vuoti della voce. In biblioteca, quando ho scelto i libri che voglio, aspetto che tornino la nonna o la zia, chiedo a loro di andare al posto mio. Andate voi, parlateci voi con gli addetti al bancone, coi bibliotecari. Oh, ma quand'è che cresci?
Ormai hai otto anni, è ora che impari a fare le cose da solo.
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