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| << | < | > | >> |IndiceScrivere Gelide scene d'inverno di Ann Beattie 7 Profilo bio-bibliografico 13 Bibliografia 21 Gelide scene d'inverno 23 |
| << | < | > | >> |Pagina 25«Permettez-moi de vous présenter Sam McGuire», dice Charles. Sam se ne sta sulla soglia con uno scatolone di birre in mano. Da quando gli è morto il cane sta bevendo un sacco di birra. Piove, e Sam ha i capelli bagnati che gli colano sulla faccia. «Ciao», dice Susan senza alzare gli occhi. «Ciao», fa Sam. Si toglie il cappotto bagnato e lo stende sul tappeto. Attraversa il soggiorno, entra in cucina e sistema in frigo le due confezioni da sei lattine. Charles lo segue. «Quella che non parla è una compagna di università di Susan», gli sussurra. Sam alza gli occhi al cielo e congiunge le mani davanti al petto come un mendicante, muovendole su e giù. «Ciao», dice Sam a Elise, tornando in soggiorno. «Ciao», dice Elise. Non gli fa posto sul divano. «Scansati», dice Sam, sedendosi comunque accanto a lei. «Come va l'università?», chiede a Susan. «Non ne posso più». «Sempre meglio che battere per strada», dice Sam. Elise ridacchia. «Perché, scusa, tu batti per strada?», gli domanda. «Io? Ma che dici?» «Non sei stato tu a parlare di battere?» «Si fa per dire», risponde Sam. «Chissà se la crisi economica si fa sentire anche in quel settore», dice Elise. «Tu non ne sai niente, eh?», dice Sam dandole un cazzotto leggero sulla spalla. Elise ha l'aria annoiata. «Non avevi portato delle birre?», dice. «Sì, ma tu non mi stai simpatica. Non mi volevi fare posto sul divano, e allora la birra non te la do». Elise scoppia in un'altra risatina. Qualunque cosa faccia, Sam riscuote sempre un gran successo con le donne. «E se me la vado a prendere da sola?», dice Elise. «Ah!», fa Sam. «Una donna aggressiva. Sei una donna aggressiva?» «Quando io e Susan ce ne andiamo in giro, siamo aggressive eccome», dice Elise. «Non ne dubito», dice Sam. «Al giorno d'oggi le università sono piene di sciroccate. Non voglio proprio sapere cosa fate, per la strada». «Ma sei ubriaco?», dice Susan. «No. Sto solo cercando di tirarmi un po' su di morale. Mi è appena morto il cane». «Fra cinque minuti è pronto», grida Charles. Elise va in cucina a prendersi una birra. «Che gli è successo, al cane?», chiede Susan. «Ha avuto un attacco di cuore. A otto anni. In genere i cani vivono molto di più». «Hai problemi di cuore?», dice Elise, rientrando nella stanza. Posa a terra la lattina, si siede sul divano, posa l'orecchio contro il petto di Sam. «Quanto prendi per una visita un po' più completa?», le chiede Sam. «Scommetto che pensi che siccome studio da infermiera le visite le faccio gratis», dice Elise. «Non siate volgari», li richiama Charles dalla cucina. «Sam è sbronzo», fa Susan. «Venite a mangiare», dice Charles. Ha preparato il chili, e mette la pentola sul tavolo. «Cosa direbbe Amy Vanderbilt?», fa Sam. «Ormai può dire ben poco», risponde Charles, scodellando il chili nei piatti. «Ma di che parlate?», chiede Susan. «Di Amy Vanderbilt», dice Sam. «E chi è?», domanda Elise. «Stai scherzando?», dice Sam. «No. Chi è?» «Una che è morta», risponde Charles. «Si è buttata dalla finestra», aggiunge Sam. «Anzi, scusate: è caduta». «La sai la storia, no?», dice Charles alla sorella. «No», risponde lei. «Cazzo», dice Sam. «Questi due». Ma durante la cena sono tutti di buon umore. Sono tutti di buon umore finché non squilla il telefono, proprio mentre stanno finendo. Charles sta mettendo su l'acqua per il caffè. «Pronto?», dice, col telefono incastrato fra il mento e la spalla, cercando di aprire il barattolo del caffè. «Meno male che sei lì». «Che c'è, mamma?» «Se non ti avessi trovato mi sarei ammazzata. Ero nella vasca da bagno, cercavo di farmi passare il dolore. Ma non mi passa». «Che stai dicendo? Dov'è Pete?» «Charles, l'appendice sta a destra o a sinistra? Secondo me dev'essere quella». «Susan», dice Charles. Le passa il telefono, si allontana di qualche passo, sempre alle prese col coperchio del barattolo. «Ma certo che ti credo», dice Susan. Charles si piega in due, stringendo il barattolo di caffè, con la faccia contorta in una finta smorfia di sofferenza. Susan fa un gesto con la mano libera, scacciandolo come un insetto. «Non è che hai preso delle medicine, vero?», dice Susan. «Pete dov'è?» «Probabilmente nascosto sotto un sasso come un verme», dice Charles. «Non prendere niente. Arriviamo subito», dice Susan, riattaccando il telefono. «Dai», dice a Charles. «Dove cazzo sta Pete?», dice Charles. «Lì non c'è. Che fai, non vieni?» «Merda», dice Charles. Passa a Sam il barattolo ancora chiuso. «Charles, quella sta male. Andiamo, ti prego». «Non sta male. Lui sarà in giro con qualche zoccola rimorchiata in un bar e lei fa la sceneggiata». Charles attraversa la cucina a lunghi passi e va a prendere il giaccone nell'armadio a muro. Susan si infila il suo senza abbottonarselo e si avvia alla porta. «Cazzo», dice Charles a Sam. «Perfino il tuo cane ha avuto il buon senso di mettersi da una parte e morire». Apre la porta che Susan si è sbattuta alle spalle ed esce sotto la pioggia. Sa già che la Chevrolet non partirà. Quando piove non parte mai. Si fruga in tasca in cerca delle chiavi, le trova – non c'è tempo da perdere – e si allunga oltre Susan per aprire la portiera dal suo lato. «Susan, non puoi farti mettere così sottosopra ogni volta. O è sbronza, o ha la luna storta perché lui è fuori con un'altra. È sempre così». «Vuoi stare qui a farmi la predica o mi ci accompagni?», chiede Susan. «Merda», dice Charles. Le richiude con violenza la portiera e torna dal lato del guidatore. La macchina si accende appena gira la chiave. «Di che hai paura?», le dice. «Lo sai che è tutta scena. Non è sempre tutta scena?» Charles sta correndo parecchio. La lucina interna dell'abitacolo è ancora accesa. Nello svoltare a un incrocio la macchina slitta. Susan si sta mangiando le unghie. «Lo sai che si inventa tutto», dice lui. Nessuna risposta. Charles accende la radio, rallenta un poco. Forse se crea un'atmosfera meno tesa anche Susan si calmerà. Lui non sopporta quando la sorella si innervosisce. E non sopporta quando la madre fa queste telefonate da pazza. Alla radio c'è George Harrison che canta «My Sweet Lord». Charles rovista nel posacenere cercando una sigaretta, la trova, si rovista in tasca cercando un fiammifero. Ma non ce ne sono. Ributta la sigaretta nel posacenere. «Stai calmo», dice Susan. Nel giro di cinque minuti sono sul vialetto d'ingresso. In casa tutte le luci sono spente. Apposta, in modo che facciano più fatica a trovarla. «Sono di sopra!», grida la madre. Salgono le scale di corsa e la trovano nuda sul letto, con la vestaglia appallottolata addosso. Dal letto penzola un termoforo, ma non è in funzione. C'è un piccolo abat-jour acceso, posato per qualche motivo sul pavimento invece che sul comodino. A terra è sparso di tutto: il Reader's Digest, i calzini di Pete, pacchetti di sigarette, cerini. Charles raccoglie un pacchetto di cerini e due di sigarette. Entrambi vuoti. Getta di nuovo i cerini per terra. «Dov'è Pete?», dice. «Mi fa male qui», dice Clara, passandosi una mano sul fianco. «Ma non l'ho preso il lassativo. Lo so che non lo devo prendere il lassativo». «Dov'è Pete?», ripete Charles. «A Chicago». «E che ci fa a Chicago?» «Lasciala in pace», dice Susan. «Secondo me è il caso che chiamiamo il dottore». La madre ha i capelli stopposi e tinti di rosso. Charles accende la luce e vede macchie rosse su tutto il cuscino. Rossetto. Porta un rossetto rosso-violaceo anche quando sta a letto. Prima di sposarsi con Pete si è siliconata le tette. Adesso ha sessantun anni e il seno più bello di quello di Susan. Charles glielo guarda fisso. La madre è sempre nuda. La tv è accesa: si vede un'immagine, ma senza audio. «Vedrai che ti passa tutto», dice lui, meccanicamente. «Tu mi odi!», ribatte lei. «Tu non vuoi davvero che mi passi tutto». «Non oso sperare che ricomincerai a comportarti da persona normale, ma certo che voglio che ti passi tutto». «Ahi, il fianco», dice Clara. «Vedrai che ti passa», dice lui, uscendo dalla stanza diretto verso il telefono in corridoio. «La vasca», dice Clara a Susan. «Che ha la vasca?», dice Susan. «È piena d'acqua. Mi sono fatta il bagno sperando che mi andasse via il dolore». «E lasciala piena d'acqua. Non è mica un problema». «Svuotala», dice lei. «Mamma, che importanza ha se la vasca è piena?» Clara sembra sul punto di scoppiare in lacrime. Susan le lascia la mano e va a svuotare la vasca. Charles è al telefono. Sta chiamando l'ambulanza. In bagno c'è un altro termoforo, attaccato alla presa e settato su «high». Susan lo stacca dalla corrente. Ci sono riviste di cinema sparse ovunque. Susan ci deve passare sopra per togliere il tappo alla vasca. Nell'acqua galleggia una sigaretta. Susan si allunga verso il tappo con attenzione, non vuole che la sigaretta fradicia le tocchi il braccio. In fondo alla vasca c'è un'altra rivista. Susan ritrae la mano di scatto. «Adesso arrivano», sospira Charles. «Aiuto!», urla Clara. Charles accende la luce in corridoio, entra in camera da letto e le prende la mano gelida. Lei afferra forte la sua, affondandogli le unghie finte nella carne. Charles la copre con la vestaglia. «Mi stavo per ammazzare», dice lei. «Lo so», dice Charles. «Ma quando mai», dice Susan. «Adesso cosa mi fanno?», chiede Clara. «All'ospedale ti visitano. Ti ci avrei portata io in macchina, ma so che ti piace di più l'ambulanza». «Da che parte sta l'appendice?», fa lei. «A destra, mi pare», risponde Charles. «Secondo me a sinistra», dice Susan. «Forse sull'enciclopedia...» «Resta qui!», le dice la madre. «Va bene», dice Susan. Si mettono seduti uno da un lato e una dall'altro di Clara, tenendola per mano; Susan le posa una mano sui capelli. «Che giorno è oggi?», chiede lei. «Giovedì», dice Susan. «Che giorno è?» «Giovedì», ripete Susan. «Ha detto che giovedì tornava», dice Clara. «Credimi, vorrei tanto che fosse qui in questo momento», dice Charles. «Sono sicura che è l'appendice», fa Clara. Si rigira sul letto. La vestaglia le cade di dosso. Susan fa il viaggio con lei sull'ambulanza. Charles le segue in macchina, guidando apposta troppo veloce per tallonare l'ambulanza, anche se la strada per l'ospedale la conosce benissimo. A un certo punto quasi si cappotta. Quando arriva all'ospedale sta tremando: se non altro sembra che sia emozionato come si conviene. Si mette seduto con Susan ad aspettare. Lei si mangia le unghie. Lui infila dei soldi nel distributore di sigarette. Non succede niente. Preme il pulsante della restituzione delle monete. Non succede niente. Dopo un po' esce il dottore e gli dice che fisicamente la madre non ha niente che non va. Le ha dato un sedativo. Sta arrivando il suo medico di fiducia. Charles e Susan escono dall'ospedale, vanno alla macchina, si rimettono in viaggio verso casa. Fra poco il medico li chiamerà e gli farà capire in maniera abbastanza esplicita che sarebbe il caso di ricoverarla di nuovo in clinica psichiatrica. Ha smesso di piovere. Charles accende la radio. C'è Elvis che canta «Loving You». Elvis Presley ha quarant'anni. Charles spegne la radio. Susan si asciuga le lacrime dagli occhi. Quando arrivano a casa di Charles, le luci sono tutte spente. Charles va in cucina, ancora con il giaccone addosso, e apre il frigo per prendersi una birra. Susan entra in sala da pranzo e si siede di fronte a lui. «Quanto vorrei una sigaretta», dice Charles. «Tu non fumi, vero?» «No». «E non bevi?» «Vino, qualche volta». «La birra non ti piace proprio?» «No», risponde lei. Lui finisce la lattina, le dà la buonanotte ed entra in camera sua. Accende la luce e vede Elise e Sam nudi nel suo letto. La spegne di nuovo, chiude la porta senza far rumore e si ferma in corridoio a guardare Susan, che è rimasta seduta al tavolo. «C'era da aspettarselo», dice Charles, entrando in soggiorno. Mette due cuscini uno a fianco all'altro a un'estremità del divano e si sdraia, sempre col giaccone addosso. «In effetti sì», dice lei. «Se non fumi e non bevi, almeno quello lo fai?», dice Charles. «Sì», dice lei. «Tutto torna», dice lui. «Adesso qui spengo la luce», aggiunge poi, alzandosi e spegnendola. «Ok», fa la sorella. È ancora seduta al tavolo quando lui si addormenta. | << | < | > | >> |Pagina 104A ora di pranzo (se solo fossero di nuovo le undici, invece che mezzogiorno e mezzo), Charles va a mangiare da solo in un ristorante in fondo alla strada. Ordina un cheeseburger con la carne ben cotta, un'insalata scondita e una Coca-Cola. Pensa che se prende per un po' l'insalata scondita, quando ricomincerà a mangiarla condita avrà un buon sapore. Tutto quello che gli portano fa schifo. Lui ci versa sopra chili di sale e gli resta la sete per tutto il giorno. «Dammi cinque cent», gli dice un ragazzino nero mentre torna in ufficio, «e ti faccio un salto mortale». Charles gliene dà venticinque. «Non serve che fai il salto mortale», dice. Ma il ragazzino balza per aria. «Fantastico», dice Charles. «Mio fratello si sta esercitando a farlo doppio», dice il ragazzino, e se ne va ad abbordare un altro tizio. Tornato in anticipo alla sua scrivania, Charles si infila le cuffie e accende il mangiacassette: Violini folk svedesi. Dopo aver ascoltato per qualche minuto compone il numero di casa. «Pronto?», dice Sam con voce intontita. «Ti ho svegliato», dice Charles. «Tanto meglio. Stavo facendo un incubo. Ho sognato che eravamo a caccia di lupi, e ce n'erano così tanti che non sapevamo da dove cominciare, e se non cominciavamo subito...» «Oddio, spero di non beccarmela anch'io 'st'influenza», dice Charles. Sam sta ansimando. «Vuoi che ti porto qualcosa, stasera quando torno?» «Mi compri un po' di barrette di cioccolato?» «Barrette di cioccolato? Ma non ti fanno bene quando hai l'influenza». «Magari mi danno il colpo di grazia e non devo più tornare al lavoro». «Ti capisco», dice Charles. «Il ragazzo di Susan non si è fatto vedere. Lei è ancora qui». «Ci è rimasta male?» «Non mi sembra. Ma mi sa che non sono particolarmente sensibile allo stato delle altre persone, in questo momento». «Prenditi un'aspirina. Fattela portare da lei». «Già me l'ha portata». «Be', ci vediamo stasera». Charles riattacca. Se Laura non è più malata – e non può essere ancora malata – fra un'ora uscirà di casa per andare a prendere Rebecca. Beata Rebecca. Se da grande diventerà come Laura, farà strage di cuori. E forse lui diventerà come Humbert Humbert e si metterà con Rebecca. Perché non sembra proprio che riuscirà a rimettersi con Laura. Una delle dattilografe entra per prendere due pratiche da battere a macchina per lui. Ha un vestito azzurro molto corto, come non si portano più, e un paio di pesanti stivali neri che le inguainano le grosse gambe. Ma di viso è graziosa. Era amica di Laura. Charles vorrebbe pensare che lei sappia tutto di loro due, ma Laura gli ha detto di non averne mai parlato con nessuno. Gli dispiace: se l'avesse fatto, lui non dubiterebbe, come gli capita a volte, che la loro storia sia esistita davvero. Lui e quella donna potrebbero scambiarsi sguardi clandestini di complicità. Laura, penserebbero entrambi. Lei esce dalla stanza con il foglio in mano e lui guarda gli stivaloni neri camminare sulla moquette azzurra. Laura si vestiva sempre benissimo. Aveva degli stivali scamosciati e diversi abitini graziosi, non tantissimi ma molto graziosi, e sembrava sempre tanto delicata. Il marito lo chiamano «il Bue». Charles non si è ancora rimesso al lavoro, ed è seduto alla scrivania da un quarto d'ora. Ha appena rubato cinque minuti al governo. Ne sgraffigna altri due, girando la sedia per guardare fuori dalla finestra e fare un giochino mentale: immagina che quando si volterà si troverà davanti Laura, pur sapendo che se lei fosse lì accanto ne vedrebbe il riflesso sul vetro. Pur sapendo che lei non può essere lì, perché si sta preparando per andare a prendere Rebecca. Gli piacerebbe essere il padre di Rebecca. Se lui fosse suo padre e Laura fosse sua madre, sarebbero una famiglia. Ma quei tre sono già una famiglia: Laura, Rebecca e il Bue. Immagina con orrore di voltarsi e trovarli tutti lì, di dover affrontare quella realtà. Si gira di scatto e guarda il foglio di carta posato sulla scrivania. La dattilografa rientra. «Ci dovrebbe essere un altro foglio allegato a questo», dice. Lui si alza a sedere un po' più dritto per guardarle gli stivali. Sono minacciosi. Si chiede come mai li porta. Non può pensare sul serio che siano belli. Allunga la mano verso il vassoio in un angolo della scrivania. «Scusa», dice. «Primo giorno dopo le vacanze», dice lei. «Hai notizie di Laura?», le chiede lui. «Ah. Ho cenato da lei la settimana scorsa. È tornata dal marito», dice la donna in tono eloquente. La casetta col tetto a punta. Il Bue. Forse altro pane appena uscito dal forno. Allora sta bene. «Che avete mangiato?» Non riesce a trattenere la curiosità. «Aragosta Newburg. Era squisita. Sto cercando di dimagrire, ma fra le vacanze e quella cena non ce la farò mai». «Ti sembrerà orribile, ma forse non ho mai saputo come ti chiami di nome». «Betty», dice la donna. «Ah, giusto», dice Charles. «Lo sapevo». In realtà non aveva idea di come si chiamasse. Lei resta lì, sorridente. Lui muore dalla voglia di sapere se per dessert c'era quel dolce all'arancia. «Quando mi metto a lavorare divento un robot», dice. «Mi dispiace». «Io non lo sopporto questo posto», dice Betty. «Ma sono fortunata ad avere un lavoro. Mia sorella si è appena laureata alla Katy Gibbs, e ne sta cercando uno da prima del Ringraziamento». «È uno schifo», dice lui. «Ma è bello che uno riesca a vedere le cose in prospettiva e a essere contento di avere un lavoro». «Be', oggi sono contenta», dice lei. «Ma in genere appena metto piede qui dentro mi sento male». «Tua sorella sta cercando lavoro da queste parti?» «A New York. Ma se non si sbriga a trovare qualcosa dovrà venire a vivere con me. I miei l'hanno cacciata di casa. Pensano che non si stia impegnando abbastanza, perché l'hanno mandata al college e poi alla Katy Gibbs e via dicendo». «Ma non li leggono i giornali?» Lei scrolla le spalle. «Meglio che attacco con questa roba», dice, e si volta per andarsene. È una molto in gamba, pensa Charles. Perché non ti può piacere lei? Torna a guardare il foglio che ha davanti e prende un appunto sul bloc-notes. Ha l'inquietante sensazione che quando alzerà gli occhi troverà lì Laura, Jim e Rebecca. Posa la penna. Si alza in piedi e riprende la penna in mano, torna alla scrivania e si siede. Aragosta Newburg. Sarà stata deliziosa. Quel cheeseburger faceva vomitare. Se ne va alle cinque e un quarto invece che alle cinque e mezzo, fermandosi al banchetto degli snack al piano terra per comprare due barrette di cioccolato. L'uomo che gestisce il banchetto è cieco. «Cosa desidera?», gli chiede.
«Laura», sembra la risposta più logica. Deve smettere
di pensarci. È vero che non era così pazzo di lei quando
era la sua donna. Se mai lo è stata. Quando
stavano insieme.
Una volta, quando uscivano insieme, erano andati a prendersi un caffè al bar e
lei gli aveva regalato una sua foto.
Ricordati qualcosa di meglio, mormora fra sé.
«Due barrette Goodbar», dice ad alta voce.
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